La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 20 ottobre 2016

Naturale

di Lea Melandri
La famiglia sta conquistando spazi sempre più ampi, nell’informazione, nel dibattito politico, nelle pubblicazioni e nelle aule parlamentari, il che fa sperare che sia uscita definitivamente da quell’idea fuorviante di “privato” che l’ha tenuta tradizionalmente nell’ambigua posizione di “cellula primaria”, fondante della società, e, insieme, appannaggio di un potere patriarcale considerato, come ha scritto Rossana Rossanda, “libertà naturale”.
A stanare ciò che non si sa o non si dice degli interni delle case, del modo di vivere delle persone, ci pensano poi, sempre più insistentemente, i rapporti statistici, gli studi sociologici, da cui apprendiamo, per esempio, che le single americane superano oggi le coniugate, che la senescenza della società italiana aumenta, sia come vissuto soggettivo – “giovani” fino a ottanta anni e finché non si muore -, e come età media di chi riveste ruoli di potere.
Prese separatamente, le notizie che arrivano al cittadino sulla realtà che lo tocca più intimamente e materialmente, non possono che generare un effetto disperante, come tutto ciò che non lascia intravedere vie d’uscita: in famiglia si continua a uccidere; aumenta il numero delle coppie senza figli, e così pure le persone che vivono sole; i giovani ritardano sempre più l’uscita dalla famiglia d’origine; gli anziani al potere non danno segno di voler arretrare.
Per riassumere: una società di potenziali assassini, una gioventù irresponsabile, una caparbia senilità, e uno Stato confessionale. Per aprire uno spiraglio dentro questo orizzonte asfittico, che ci viene descritto dai media ogni giorno, basterebbe fare lo sforzo di collegare aspetti che nella realtà sono annodati, rilevare le contraddizioni che li attraversano, mostrare i segnali di nuove incoraggianti prospettive, che ci sono e che vanno nominate, sostenute, sottratte al quadro sinistro in cui rischiano di eclissarsi.
In una lettera, che si può considerare tuttora attuale di Rosy Bindi, pubblicata quasi una decina di anni fa su Repubblica (19.1.07) compariva una visione lucida, appassionata, dei molteplici mali che minacciano il benessere, l’autorevolezza e persino la sopravvivenza della famiglia, dal carico di incombenze che la società rovescia su di essa agli episodi violenti di cui sono vittime soprattutto le donne. Una descrizione, realisticamente impietosa, che elencava: “degrado materiale e morale”, “soprusi economici”, “ricatti psicologici”, “abbandoni”, “aggressività”, “abusi sessuali sulla donna, sui vecchi e persino sui bambini”. Sorprendente era invece la conclusione: la famiglia restava, nonostante tutto, “un organismo sano e vitale”, “culla naturale della formazione degli affetti e palestra dei rapporti tra le persone”. Invece di indagare le ragioni di una “ambivalenza” che è tutto fuor che “naturale” – frutto evidente di condizioni storiche e culturali, come la divisione dei ruoli sessuali, i postumi psicologici di un millenario dominio maschile, e così via -, si tornava, come sempre a rispolverare un armamentario antico, il foucaultiano “sorvegliare e punire” che, depurato “degli accenti autoritari”, diventava “vigilare e riparare”: servizi territoriali, consultori, agenzie, figure e associazioni del volontariato, chiamati a formare, attorno alla famiglia, una cerchia investigativa e protettiva, da affiancare a interventi più precisi, come la punizione, la “riabilitazione del carnefice”, il dovuto soccorso alla vittima.
Quello che emerge oggi in modo evidente, ma su cui si stenta a fermare l’attenzione senza che questo significhi abbandono di ogni speranza o rimpianto del passato, è che l’istituzione considerata finora “cellula basilare” per la società e per la stessa sopravvivenza della specie, è in declino, attraversata da convulsioni interne, da vistosi mutamenti e da una crisi “valoriale” che solo la retorica nazionalista, religiosa o interessata dei nuovi credenti riesce malamente a nascondere.
La famiglia, così come l’abbiamo conosciuta – scriveva Roberto Volpi nel suo libroLa fine della famiglia (Mondatori 2007) – sta “evaporando”, e, se c’è ancora, non è più quella. Famiglia ha voluto dire finora “continuità biologica al di là del singolo”, quindi genitori e figli, coppie che affidavano alla prole “l’ampliamento della loro visuale sul mondo”, mentre oggi la coppia, che già stenta a formarsi, “vede in se stessa le aperture, cerca e persegue per se stessa i traguardi, non demanda ai figli né le une né gli altri”. Il “mondo dei senza figli”, la società che assiste al “trionfo dei celibi”, e dove sempre più persone “dirottano risorse e tempo” in direzione di “cose belle della vita”, meno impegnative dei figli, non sono solo il portato di difficili condizioni socio-economiche, della carenza di adeguate politiche famigliari, ma di una “rivoluzione dei costumi”, un cambiamento profondo dei paradigmi culturali che data dalla metà degli anni Settanta, dalle leggi sul divorzio e sull’aborto.
Del femminismo, dei gruppi omosessuali e lesbici, del movimento non autoritario, non veniva fatta parola, protagonisti, per molti evidentemente ancora innominabili, della rivoluzione più temuta, benché pacifica, dell’ultimo secolo. Pur essendo attraversato da una nota di ricorrente allarmismo, che gli impedisce di vedere nelle nuove forme di convivenze prospettive inedite e liberatorie, riguardo alla socializzazione, al rapporto tra i sessi, il desiderio di figli, il libro di Volpi sottolineava due aspetti significativi del cambiamento: la centralità che assume l’individuo all’interno delle nuove formazioni sociali, e lo scarto, la discontinuità, che esse rappresentano, ragione per cui non avrebbe più senso chiamarle famiglie.
La recente discussione parlamentare sulle unioni civili alla Camera, si è mossa dentro contraddizioni, avanzamenti e arretramenti analoghi. Importante è non toccare l’articolo 29 della Costituzione, la famiglia intesa come “società naturale fondata sul matrimonio”, che resta pertanto modello di riferimento imprescindibile, quanto a legittimità e valore riconosciuto. Ottenere che il riconoscimento giuridico delle unioni di fatto sia “equiparato”, e abbia “pari dignità” rispetto allo statuto matrimoniale, avvalora l’idea di “famiglie di serie B”, con vincoli più “leggeri”, meno impegnativi, e quindi con tratti di instabilità e scarsa garanzia per i figli.
Solo sottolineando la convivenza come unione finalizzata “al naturale sviluppo e alla libera autorealizzazione del singolo”, si apre l’orizzonte a nuove progettualità, possibilità finora sconosciute di ripensare il rapporto tra individuo e collettività, a partire da quella individualità ancora da riconoscere e far vivere appieno, che è l’esistenza femminile svincolata dal destino di moglie e madre. Non si trattava solo di colmare una “lacuna normativa”, di “adeguare” la disciplina giuridica a una “realtà sociale”, 1.200.000 coppie di fatto. Ciò a cui ci si augurava fosse dato il giusto riconoscimento simbolico con una legge è il “pluralismo” nelle relazioni affettive, e questo comporta una messa in discussione di quell’aggettivo, “naturale” che, come sappiamo, è stato l’asse portante ideologico della violenta differenziazione tra i sessi, e di ogni altra forma di dominio.

Fonte: comune-info.net 

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