di Luigi Pandolfi
Il governo ha appena varato la manovra finanziaria per l’anno che verrà, ora al vaglio della Commissione europea. Continuiamo a chiamarla «legge di stabilità», ma da quest’anno c’è solo il bilancio dello Stato, nel quale confluiscono tutte le misure previste dal governo dal lato delle entrate e della spesa per il periodo di riferimento. Nella sostanza cambia poco, ma l’operazione ha un suo significato, innanzitutto politico. Quale? Quello di affermare il primato degli equilibri di bilancio sugli effetti, e i benefìci, della politica fiscale. Un tempo c’erano i Documenti di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef), poi diventati Decisione di Finanza Pubblica, oggi Documenti di Economia e Finanza (Def).
Nel cambio di denominazione, si è persa per strada la parola «programmazione». Non una quisquilia lessicale, beninteso: la «programmazione economica» è cosa ben diversa dalla lotta al deficit, dal controllo paranoico della spesa pubblica per centrare gli obiettivi fissati dalle regole di bilancio europee. Vale lo stesso discorso per le «leggi finanziarie», diventate «leggi di stabilità» in omaggio alla filosofia del rigore, oggi assorbite nella legge annuale di bilancio, che, per definizione, deve sempre chiudere in equilibrio, «bilanciare», per l’appunto, le partite in entrata e quelle in uscita. Un atto «dovuto», per certi versi, stante la nuova formulazione dell’art.81 della Costituzione, con la quale, accanto all’obbligo del pareggio finanziario, è caduto anche il divieto di stabilire nuovi tributi e nuove spese con la legge di bilancio.
Secondo il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, però, il fiscal compact sarebbe «di fatto già finito». Finito? Possibile che una così grande notizia non abbia avuto alcun risalto sui media? Probabilmente si tratterà di un auspicio, visto che ad oggi tutti gli atti adottati dal governo in materia economica e finanziaria, fino all’ultima Nota di aggiornamento al Def, sono stati elaborati secondo la metodologia ed i parametri imposti dal Patto di stabilità. Di certo, non si può dire che la rottamazione del fiscal compact passi dall’innalzamento del deficit, per il 2017, dal 2 al 2,3% (strutturale dal 1,2% all’1,6%), come la manovra prevede. Ma si sa: una cosa sono le dichiarazioni a mezzo stampa, altra cosa sono i documenti ufficiali. E i numeri reali.
Anzi, chiediamoci: nella realtà, il deficit sale o scende?
Mettiamola così: sale in base alle ultime previsioni, scende rispetto ai valori reali degli ultimi anni. Nel 2014 era al 3% del Pil, nel 2015 al 2,6%, per il 2016 si prevede di chiudere al 2,4%. Ha ragione Padoan, allora, quando dice che il nostro Paese è «in regola», perché il deficit continua a scendere, nonostante lo sforzo per l’emergenza migranti ed eventi eccezionali come l’ultimo, devastante, terremoto che ha colpito il centro Italia. Con orgoglio, l’ha rimarcato anche il premier: «è il livello più basso da dieci anni a questa parte». La verità è che il Patto di bilancio europeo è vivo e vegeto e rappresenta la cornice entro cui si dipanano le scelte di politica economica e finanziaria degli Stati che l’hanno sottoscritto, a cominciare dall’Italia, che da sempre ci tiene a fare bella figura, a rispettarne le prescrizioni, ma sempre «per il bene del Paese», naturalmente. Lo dimostra anche la manovra appena varata. Infatti, per un’operazione del valore complessivo di 27 miliardi di euro, 15 miliardi sono di nuove entrate e tagli alla spesa pubblica, per sterilizzare la cosiddetta clausola di salvaguardia (aumento automatico di Iva e accise) a garanzia degli impegni assunti con Bruxelles sul contenimento del deficit e del debito (fiscal compactfinito?).
Dal lato della spesa, coperta per una parte in deficit, tolti 4,5 miliardi per le zone terremotate e 3 miliardi per i comuni che accolgono i migranti, non rimangono che pochi spiccioli per i pensionati, le famiglie, la scuola, la sanità, il contrasto alla povertà. «Elargizioni» le ha chiamate, efficacemente, Mario Monti.
Investimenti pubblici? Manco a parlarne, mentre si persevera con la politica di incentivi alle imprese (giù Ires, arriva l’Iri, l’imposta sul reddito imprenditoriale, con aliquota unica al 24%) e di favori alle banche, con le solite misure dal lato dell’offerta in un mercato dove la gente continua a non spendere. Tutto nella «norma», insomma. A Bruxelles, intanto, c’è chi recita, come da copione, la parte del duro, annunciando un controllo «esigente» sui conti italiani. Sembra che l’attenzione, adesso, sia concentrata sullo sforamento del deficit strutturale programmato, quello calcolato, in estrema sintesi, su scenari economici ipotetici, futuribili, ma anche no.
Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici e finanziari, però, ha aperto uno spiraglio: «Spero sinceramente che il referendum passi. Una sconfitta di Renzi a aprirebbe un periodo di incertezza pericolosa. Ciò non vuole dire che esamineremo il budget in funzione del referendum, la Commissione non fa politica… ma non è insensibile al contesto politico». Che dire? Tanto rumore per tre decimali.
Fonte: Il manifesto
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