di Roberto Romano
Il bilancio pubblico dell’Italia presentato sabato dal governo Renzi rimane un mistero. Ad oggi non abbiamo nessuna relazione di accompagnamento; i tecnici sono ancora al lavoro nelle coperture per dare una soluzione alle così dette clausole di salvaguardia (15 miliardi); le misure e i provvedimenti delineati nelle slide sono ancora tutti da verificare. Solo per fare un esempio, ricordo che i risparmi legati alla spending review sono passati da 2,6 a 3,3-6 miliardi. Difficile credere che nell’arco di pochi giorni il braccio destro di Renzi abbia trovato più di un miliardo di risparmi rispetto a quelli delineati durante un anno di lavoro.
Se fosse vera l’informazione, il responsabile della spending review sarebbe licenziato per manifesta incapacità. Ma la situazione è, purtroppo, molto più seria. Una rappresentazione della serietà della crisi è, per esempio, il (possibile?) decreto legge che cancella Equitalia; nessuno sapeva niente della misura, né il titolare del ministero di competenza, né Rossella Orlandi (Equitalia). Smentiranno, ma non è facile accettare una sanatoria che taluni stimano sui 51 miliardi. I condoni di Tremonti sono rientrati non dalla finestra, ma dal portone principale.
Questa breve rassegna del buco nero della legge di Stabilità serve per descrivere il clima all’interno della compagine governativa ed evidenziare la necessità di un extra deficit, senza il quale la manovra andrebbe dritta dritta nel buco nero. Senza flessibilità i conti non tornano e le politiche accomodanti per imprese, evasori e mance varie sarebbero impossibili da realizzare. Questa è la cornice del dibattito, ed è un vero peccato avere come primo ministro Renzi.
La discussione di questi giorni in Europa è, infatti, molto più seria di quella che traspare dall’informazione nazionale e il silenzio di Padoan è più prezioso dell’oro. In discussione c’è il modello europeo di valutazione del così detto deficit strutturale. Dal 2011 i principi europei sottesi alla valutazione dei bilanci pubblici non sono più quelli di Maastricht e la famosa (fatidica) soglia del 3% del rapporto deficit/Pil, è piuttosto il pareggio-deficit di bilancio strutturale. In molti (troppi) discutono del rapporto deficit/Pil, comunque importante, ma l’Europa considera un altro e più stringente criterio, cioè il deficit rispetto al così detto output gap. Si tratta del Pil potenziale, cioè il reddito plausibile qualora fossero utilizzati tutti i fattori di produzione senza rischio di inflazione. Come ricorda Padoan «… il prodotto reale di un’economia e il suo potenziale, costituisce l’elemento essenziale per valutare le politiche fiscali di un paese sia nell’ambito del Patto di stabilità e sviluppo, sia nella legislazione italiana…».
Non condivido la teoria sottostante, il Pil non è mai uguale a se stesso, ma all’interno di questo modello ci sono dettagli che cambiano il segno del Pil potenziale. Sono due i metodi di calcolo del Pil potenziale: uno europeo e uno Ocse.
Senza entrare nel dettaglio delle metodologie, entrambe legati alle teorie economiche neoclassiche, l’esito del Pil potenziale è significativamente diverso: utilizzando il secondo metodo la crescita potenziale dell’Italia sarebbe migliore di quella registrata con il modello europeo. Sostanzialmente, con il metodo europeo il Pil reale e quello potenziale coincidono più di quanto non accada con il modello Ocse. Tutte e due i metodi dimenticano il passato, ma quello europeo il passato non lo riconosce proprio. Tanto più alto è il Pil potenziale, tanto più il deficit strutturale diventa basso, lasciando uno spazio finanziario che potrebbe essere utilizzato per rilanciare la domanda interna.
Ovviamente questo extra deficit lasciato a Renzi sarebbe un vero dramma. Se avesse queste risorse le sperpererebbe in azioni inutili e dannose per l’economia italiana; non sarebbe possibile inventare la storielle della riduzione della pressione fiscale (potenziale) dovuta alla soluzione delle poste legate alle clausole di salvaguardia, prefigurando una crescita del Pil, legata a questa riduzione teorica delle tasse, dello 0,3%. Una affermazione assurda che dovrebbe essere preventivamente filtrata dalla normale intelligenza. Per capirci: le imprese italiane hanno forse anticipato gli investimenti nel 2016 per paura dell’aumento di Iva e Accise nel 2017 conseguenti alla clausola di salvaguardia? Non mi sembra, ma questo è quello che pensa Renzi.
Nel mirino della Commissione Ue ci sono la «qualità» delle coperture con il ricorso a misure una tantum, l’ampiezza del maggior deficit utilizzato e il processo di riduzione del disavanzo strutturale. Usare un metodo piuttosto che un altro cambia il segno di tutta la manovra. Rimane disarmante l’approccio di Renzi con la Commissione europea. Poteva rivendicare un ruolo diverso, ma condividendo le politiche europee si accontenta delle mance. In fondo è il suo modello di governo.
Fonte: Il manifesto
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