di Marco Travaglio
Da quando tutti dicono che bisogna parlare del merito della riforma costituzionale per informare i cittadini in vista del referendum del 4 dicembre, si parla di tutto fuorché del merito. Tant’ è che ogni volta che ci capita di discutere con qualcuno intenzionato a votare Sì, scopriamo che lo fa in nome del “meno peggio”, terrorizzato com’ è dal “salto nel buio” del “dopo referendum”. Cioè teme il vuoto di potere, la caduta del governo, l’ instabilità, l’ ingovernabilità, il caos, la fine della stagione riformatrice, la vittoria dei 5Stelle o il ritorno di D’Alema, di B. e degli altri vecchi politici schierati con il No (le cui facce sono il migliore spot per il Sì). Tutte balle.
L’ unica certezza è che, se vince il No, ci salviamo dai disastri della Costituzione Boschi&Verdini e ci teniamo stretta quella dei Padri Costituenti, già purtroppo modificata in ben 43 articoli (su 139), quasi sempre in peggio. Cioè, per esempio, seguiteremo a eleggere i senatori anziché farli nominare dai Consigli regionali con immunità in omaggio. E, per proporre una legge di iniziativa popolare, ci basteranno 50 mila firme anziché 150 mila.
Il che non significa che la Carta non verrà mai più toccata. Anzi.
Molti fautori del No si sono già impegnati a presentare proposte di riforma più limitate e dunque più praticabili in tempi brevi, per cancellare i pochi articoli ormai superati (come quello sul Cnel e quello sulle Province, peraltro superato dalla pessima legge Delrio del 2014) e aggiornarne – ma in meglio – altri (Nando dalla Chiesa ha avanzato sul Fatto una serie di proposte per allargare gli spazi democratici).
La vittoria del No non provocherà alcun ritorno di D’ Alema o di B., né l’ automatica vittoria 5Stelle. I referendum costituzionali non hanno alcun riflesso sulle sorti dei partiti. Nell’ ottobre 2001, cinque mesi dopo la straripante vittoria di B., il 34% degli italiani andarono a votare sulla riforma del Titolo V varata a colpi di maggioranza un anno prima dal centrosinistra, e stravinse il Sì anche se il centrodestra aveva votato No. Nel giugno 2006, un mese dopo le elezioni vinte dall’ Unione di Prodi, il 52% degli italiani andarono alle urne e bocciarono sonoramente la riforma di B.&Bossi.
I quali, lungi dall’ uscire tramortiti dal referendum, meno di due anni dopo rivinsero le elezioni e tornarono al governo.
Anche ora si vota a meno di due anni dalla scadenza della legislatura e una vittoria del No non pregiudicherà affatto le speranze di successo del Pd nel 2018. Che dipenderanno dal giudizio degli elettori sul governo.
Non certo dal referendum che, comunque vada, sarà presto dimenticato. Tantopiù che il fronte del No è molto variegato, dalla sinistra al M5S alle destre (come del resto quello del Sì: da Renzi a Cicchitto, da Staino a Verdini, da Napolitano a Lupi e Formigoni, da Pisapia a Pera e Urbani, da Benigni a Federico Moccia, dalla Cisl a Confindustria, dai sessantottini del Sì all’ ambasciatore Usa e a JP Morgan, da Repubblica a Feltri e Ferrara), dunque nessuno potrà metterci il cappello.
E le conseguenze sul governo? Prima Renzi ha detto che, se avesse vinto il No, avrebbe lasciato la politica; poi che avrebbe lasciato il governo, ma non la segreteria Pd e si sarebbe opposto alla nascita di altri governi, rendendo inevitabili le elezioni anticipate; poi che la legislatura terminerà comunque nel 2018.
Ora è chiaro che, dopo una sconfitta referendaria, non gli converrebbe restare a Palazzo Chigi come anatra zoppa, come San Sebastiano. Dunque è probabile che lascerebbe il governo a una figura istituzionale o tecnica – Grasso? Padoan? Cantone? Boeri? – per un governo di ordinaria amministrazione e di scopo (per cambiare l’ Italicum e fare la legge elettorale del Senato) e si terrebbe stretto il partito per la campagna elettorale del 2018. Se poi cambiasse idea e ritirasse il Pd sull’ Aventino per andare alle urne già nel 2017, la colpa della fine anticipata della legislatura sarebbe soltanto sua, non certo della vittoria del No.
Dal referendum non dipende neppure il destino dell’ Italicum, che vale solo per la Camera e non fa parte della riforma costituzionale. Dopo il referendum, la Consulta deciderà se l’ Italicum è legittimo o no e se, nel secondo caso, va cancellato in blocco (ripristinando il proporzionale con preferenza del Consultellum) o depurato di uno o più elementi controversi (soglia al 40%, premio di maggioranza, capilista bloccati, ballottaggio). Allora si vedrà se Renzi fa solo finta di volerlo cambiare per ingannare la sinistra Pd, o se vuole modificarlo per davvero e, nel secondo caso, se c’ è una maggioranza per approvare una legge alternativa.
Il referendum sarà decisivo solo per la legge elettorale del Senato: se vince il Sì, non ce n’ è bisogno perché i senatori non sono più eletti dal popolo; se vince il No, c’ è già il Consultellum disegnato dalla Corte. E, se questo non piace perché non aiuta la governabilità, il Parlamento lo può sempre cambiare, rispettando i paletti fissati dalla Corte: quelli della Costituzione. Da questa jungla di leggi elettorali in cui ci ha cacciati Renzi, si può uscire facilmente in un solo modo: con una legge di una riga che ripristini il Mattarellum per Camera e Senato. Il capo dello Stato non potrebbe che essere d’ accordo, e così la Consulta. Ma anche tutti i Pd, i 5Stelle e i Sel che nel 2013 firmarono la mozione Giachetti per tornare alla vecchia legge: questa vastissima maggioranza, all’ indomani del referendum, senza neppure attendere la Corte sull’ Italicum, potrebbe ridarci in pochi giorni una buona legge elettorale, già collaudata dal 1993 al 2005. E disarmerebbe i terroristi del Sì, smascherando il bluff del “salto nel buio”.
Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2015
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