di Roberto Ciccarelli
Sono in corso verifiche degli ispettori del lavoro alla Foodora. Lo ha confermato ieri la ministra per i rapporti con il parlamento Maria Elena Boschi che, a nome del ministro del lavoro Giuliano Poletti, ha risposto a un’interrogazione di Giorgio Airaudo (Sinistra Italiana). Boschi ha segnalato un’altra iniziativa del governo, provocata dalla protesta dei bikers torinesi e milanesi contro le condizioni di lavoro imposte dalla multinazionale tedesca di take away su piattaforma digitale. Poletti avrebbe chiesto ai ministri del lavoro europei di aprire «un tavolo per individuare soluzioni condivise a livello europeo per tutelare il lavoro nella new economy».
Definizione che si riferisce alla prima stagione dell’economia digitale, quella delle «dot.com» fallita all’inizio degli anni Duemila. Nel caso dei ciclofattorini di Foodora, e di chi lavora nel «capitalismo di piattaforma» [platform capitalism], si usa il termine di «gig economy», l’economia dei «lavoretti» on line e delle prestazioni d’opera via smarthphone. Da non confondere con l’economia della condivisione [sharing economy] di un bene privato come la casa o la macchina.
Non sono questioni nominalistiche, ma di sostanza. Rendono l’idea del ritardo culturale con il quale il governo sta affrontando il lavoro digitale. Basti pensare al provvedimento sullo «smart work», presentato insieme a un’iniziativa sul lavoro autonomo ancora fermo al Senato. Nel Ddl il governo non menziona la «gig economy», ma si rivolge ai dipendenti di grandi aziende. Prevale la segmentazione dei lavoratori, non la volontà di tutelarli in una visione ampia dell’innovazione capitalistica. L’iniziativa di Poletti risponde comunque a una domanda a cui cerca di dare una risposta il governo francese.
La notizia è del 18 ottobre: la federazione degli «auto-imprenditori» (Fedae, le nostre «partite Iva») è stata convocata al ministero dell’economia con i responsabili delle piattaforme (Uber, Deliveroo). Insieme dovranno trovare il modo di applicare l’articolo 60 della «Loi Travail» sui lavoratori indipendenti che lavorano per le piattaforme: sono lavoratori autonomi o dipendenti? Il problema interessa 80 mila persone in Francia, e andrebbe affrontato caso per caso. Dagli Usa arrivano le sentenze delle corti federali Usa , mentre i «gig workers» si sono organizzati in class action.
La lotta dei riders italiani della Foodora si inserisce in questo contesto globale. Nel loro caso si discute sia dell’entità del compenso a consegna, passata da 6,5 euro lordi a 2,70 (in Francia e Germania Foodora paga 7), sia sulla natura del contratto di lavoro. In Europa sta emergendo un processo di dumping salariale e sociale tra i lavoratori delle stesse piattaforme che vivono in paesi diversi. I problemi sono riemersi ieri nel corso della discussione parlamentare: «Aspettiamo i risultati dell’ispezione – ha detto Giorgio Airaudo – temiamo che Foodora abbia potuto utilizzare il Jobs Act che consente l’uso dei co.co.co. Questo caso è un altro guaio del Jobs Act. Avevano promesso di combattere la precarietà e, invece, la stanno alimentando».
Ad avere parlato di un «paradosso del Jobs Act» è stato Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro del Senato, dopo l’audizione del direttore generale dell’ispettorato nazionale del lavoro Pennesi sul caso Foodora, e sui lavori da piattaforma digitale. La riforma Renzi ha cancellato i contratti a progetto ai quali si applicava il riferimento ai contratti collettivi dei lavoratori subordinati. Come effetto sono riemersi i contratto di collaborazione coordinata e continuativa per i quali è difficile stabilire parametri di equo compenso. I lavoratori di Foodora rientrano in quest’ultimo caso, messo a disposizione dalla legislazione vigente. «Ora solo un accordo collettivo potrebbe definire in termini più congrui il rapporto di lavoro di questi prestatori d’opera. D’altronde lo stesso progresso tecnologico sarà più fluido se non proporrà forme di abuso del lavoro» sostiene Sacconi.
Sinistra Italiana presenterà una proposta di legge per garantire i «diritti di associazione». È un inizio ed è probabile che serva un quadro legislativo complessivo che chiarisca le problematiche giuslavoristiche e fiscali che emergono sia nella gig economy che nella sharing economy.
Fonte: Il manifesto
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