di Gianandrea Piccioli
«La Terra va diventando una fossa atroce per i deboli, i non aventi diritto. (…) Senza valore economico non vi è identità, né quindi riconoscimento, né quindi esenzione dal dominio e lo strazio esercitato dai forti sui deboli». Queste parole di Anna Maria Ortese (in «Corpo celeste») mi sono riecheggiate leggendo lo straordinario romanzo-documento di Jenny Erpenbeck, «Voci del verbo andare», Sellerio. Un professore di filologia classica, da poco in pensione, che vive nell’ex Berlino Est (è sempre vissuto lì e lì è rimasto anche dopo la caduta del Muro), solo (vedovo, abbandonato dall’amante), scopre «i migranti».
Comincia a interessarsene, metodicamente, si fa raccontare le loro storie, le paragona alla sua vita passata e presente, sottolinea l’inesistenza (senza passato, senza futuro, senza niente) di persone, concrete e nello stesso tempo «invisibili». E le contraddizioni di regolamenti che li condannano inesorabilmente a una marginalità che poi viene loro rimproverata.
Comincia a interessarsene, metodicamente, si fa raccontare le loro storie, le paragona alla sua vita passata e presente, sottolinea l’inesistenza (senza passato, senza futuro, senza niente) di persone, concrete e nello stesso tempo «invisibili». E le contraddizioni di regolamenti che li condannano inesorabilmente a una marginalità che poi viene loro rimproverata.
La denuncia è implicita e nasce dal confronto tra uno dei «nostri» e «loro», vittime predestinate a essere l’Altro da noi. Nei loro occhi affiora la domanda in cui, secondo Simone Weil, si rivela la sacralità dell’uomo: «Perché mi fai del male?».
Il tema è disturbante: la nostra quotidianità e la loro, raccontata senza paraocchi ideologici, ma ogni pagina sottende il silenzio, meglio: la scomparsa della politica. E con la scomparsa della politica il crollo morale di una società. Basta affiancare i personaggi del libro (in gran parte persone realmente esistenti) e le loro storie, alle pagine dei nostri quotidiani e dei loro supplementi pubblicitari, le settimane della moda, i cuochi, le rubriche di arredamento, ai discorsi di chi finge di governare (e magari ogni tanto ci crede davvero), alla bolla del post-Expo milanese o ai deliri sul ponte ndrangheta-mafia…
Mondo vero e mondo inventato, decadenza dell’Impero e invasione dei «barbari», l’ incapacità di distinguere il bene dal male, la svendita di ogni traccia culturale, l’anestesia del sentimento, l’indifferenza… è il Satyricon, il ballo sul Titanic, la distopia realizzata.
Ci gingilliamo pensando che la Storia ha già visto passaggi analoghi: la fine degli imperi, la transizione all’età moderna, «il mondo fuori dai cardini» di Amleto, le rivoluzioni. In fin dei conti stiamo vivendo il crollo del circolo devastante avviato pochi secoli fa: sfruttamento – produzione – profitto – consumo – sviluppo, ma questa volta dovremmo renderci conto che non si tratta solo di una fase nella storia dell’uomo, ma che siamo sull’orlo di una catastrofe planetaria. La sinistra pensante è disarmata, ridotta alla ripetitività impotente della denuncia e delle formule giuste ma che ci ricantiamo tra di noi, come pensionati ai giardinetti.
Alberto Burgio, in un articolo «(Morte della politica», il manifesto, 14 settembre). Per evitarla, partire da noi senza vie di fuga, ha già detto l’essenziale. Ma interpreto quel «noi» del titolo non solo come un noi di sinistra ma come un «noi uomini di un mondo che si ribalta lasciando in prospettiva solo rovine».
È difficile il discorso che cerco a tentoni di fare, a me stesso per primo, e a rischio di moralismo. Ma davvero penso che senza una rivoluzione etica, quella che utopisticamente chiude il romanzo della Erpenbeck, quella su cui ha perso la vita Berlinguer, quella su cui si intestardisce il dileggiato Bergoglio, non potremo essere «il sale della terra» o (è quasi la stessa cosa) quella che si chiamava l’avanguardia rivoluzionaria.
Forse, in questo momento, servono più Hannah Arendt o Simone Weil che Karl Marx. E le «Piccole Persone» della Ortese possono dirci di più di molte perfette analisi progressiste e la riscoperta del limite, di cui parla Bodei in un recente libretto, più dell’enfasi palingenetica.
Forse dobbiamo recuperare il pre-politico: non è vero che «tutto è politica», se Marx non avesse visto coi suoi occhi i guasti della rivoluzione industriale e presa su di sé la sorte delle sue vittime, probabilmente non avrebbe scritto «Il Capitale».
Prima della politica vengono non il privato, o il ripiegamento su di sé, ma l’etica, la capacità di distinguere il giusto dall’ingiusto, di mettersi al posto degli altri. E la virtù che Andrea Bonomi in «Io e Mr Parky», Bompiani, chiama decency, cioè decoro, dignità, appropriatezza.
Quindi il rispetto di sé e con esso l’esigenza della solidarietà, come insegna il protagonista della Erpenbeck. Il riconoscimento reciproco tra eguali. E soprattutto fare rete tra eguali. Forse la politica dovrebbe ricominciare umilmente da qui, a tessere queste reti, a creare «effervescenza sociale» (Duvignaud).
Conosco giovani estranei a partiti o movimenti politici ma che, nella precarietà economica, fanno scelte di vita che interagiscono col sociale o con la protezione ambientale o si dedicano al volontariato. Sfuggono alle statistiche, sono irrelati tra loro, ma numerosi, sia nelle grandi città sia, e ancor più, nella provincia, la mitica provincia italiana, piena di iniziative, anche culturali.
Però tutto ciò non riesce a organizzarsi in un sentire comune, ad avere un comune punto di riferimento.
Le parole della politica, anche della nostra politica, persino il No al referendum, non coagulano più. Forse perché non sanno più creare nella società l’atmosfera morale che si era creata nell’Europa uscita dalla guerra. Libertà, progresso, convivenza civile: gusci vuoti.
Ancora una volta un bisogno di etica prima che di politica.
Ancora Simone Weil: «La visione della stella polare non dice mai al pescatore in quale direzione debba muovere, ma egli non avanzerà nella notte se non è in grado di riconoscerla».
Fonte: Il manifesto
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