di Paolo Favilli
E’ naturale che la questione referendaria sia al centro dell’attenzione. Gli esiti influiranno, e non poco, sui modi in cui ci sarà (o meno) «vita a sinistra». Tuttavia una cesura elettorale, per quanto importante, non è né un inizio, né una fine. C’è una storia prima di questa nostra sinistra, ci sarà anche dopo. Quale, in parte, dipende da noi e, in parte, il prima e il dopo si riflettono anche sui modi in cui affrontiamo il referendum. Non molto tempo fa si è svolta su questo giornale un’interessante discussione sulla «morte della politica» a partire dalle questioni che Alberto Burgio ha argomentato in un articolo (il manifesto, 4 agosto), e poi sviluppato in altri interventi.
La discussione ha dimostrato che le capacità analitiche della sinistra non sono morte ma anche le difficoltà di muoversi a partire da un centro argomentativo «radicale». E la sinistra politica «radicale», per lo meno in una sua gran parte, sembra addirittura non riuscire a pensare le «radici» dei problemi economico-sociali che abbiamo di fronte.
La discussione ha dimostrato che le capacità analitiche della sinistra non sono morte ma anche le difficoltà di muoversi a partire da un centro argomentativo «radicale». E la sinistra politica «radicale», per lo meno in una sua gran parte, sembra addirittura non riuscire a pensare le «radici» dei problemi economico-sociali che abbiamo di fronte.
Stefano Fassina ha scritto recentemente che Sinistra Italiana è avviata «inerzialmente verso un congresso rituale, senza ragioni fondative adeguate» (il manifesto, 3 settembre). Ebbene, senza ragioni in grado di mettere a fuoco una dimensione analitica diversa rispetto a quella dei partiti establishment, qualsiasi organizzazione politica di sinistra, anche micro, non può che riproporre la consueta ritualità delle manovre di posizionamento dei gruppi dirigenti, la stucchevole misurazione del grado di distanza rispetto al partito cardine dell’establishment: il Pd. Puri e semplici «balletti» come recitava un efficace articolo di Daniela Preziosi.
Balletti che riguardano solo i destini personali di una piccola parte di ceto politico. Indice importante, come sempre, l’uso della terminologia dei ballerini. Uno di questi parla della necessità di non dividere le «anime progressiste». Due termini del tutto indeterminati che messi insieme accentuano il nulla conoscitivo dell’espressione, il suo carattere di «neolingua». A parte il segnale politico, naturalmente: la mossa del balletto, un passo verso future coalizioni «progressiste».
Gli ultimi vent’anni hanno visto coalizioni «progressiste» al governo del paese per circa il 50% del periodo. Gli ultimi vent’anni hanno visto uno spostamento imponente della ricchezza prodotta e di quella accumulata dalla sfera dei salari a quella dei profitti e della rendita. Hanno visto altresì una compressione drastica della sfera dei «diritti», cioè una regressione del processo democratico. Non è che tale tendenza abbia avuto un andamento a zig-zag, con mutamenti di verso durante i governi «progressisti».
Tra «progressisti» e «non progressisti» sulle questioni di fondo riguardanti il rapporto economia-società non ci sono mai state divergenze interpretative. Medesimo, alla radice, il modo di leggere le dinamiche in corso: i fenomeni macroeconomici sono equiparabili ai fenomeni naturali e dunque non ci sono alternative al loro libero svolgimento. Al massimo i governi politici possono esercitarsi sulle diverse tonalità del capitalismo compassionevole.
Di fronte a questa realtà quali sono le «ragioni fondative adeguate» per la nostra sinistra? Abbiamo davanti una gigantesca, e per certi versi inedita, «questione sociale». Affrontare la centralità della «questione sociale» è la nostra ragione fondativa per eccellenza, è il senso stesso del ruolo della nostra storia nella lunga, ed ancora in corso, età contemporanea.
La «questione sociale» dei nostri tempi è inedita, come ho detto, ma nello stesso tempo ha tratti antichi, addirittura ottocenteschi. Polarizzazione e centralizzazione della ricchezza e contemporanea creazione di povertà sono i fenomeni originari, anch’essi in qualche modo fondativi, del modo di produzione capitalistico contemporaneo. Sono i fenomeni che hanno causato le domande fondamentali e un’imponente teoria critica. Solo su queste basi è stato possibile per i subalterni essere protagonisti di quella grande storia dell’emancipazione di cui vogliamo essere eredi.
Oggi la «questione» sociale» si manifesta anche con tratti che in quella storia non sono mai stati presenti. La nostra comprensione di questo nuovo è possibile solo se ragioniamo in termini di fasi di accumulazione di capitale, in particolare se ragioniamo sui caratteri dell’odierna fase di «accumulazione flessibile». Qui stanno le radici analitiche di cui abbiamo bisogno. La loro traduzione in politica è cosa certamente complessa, ma i «balletti» non sono un’alternativa.
Anche il nostro No alla manomissione della Costituzione, in fondo, deve avere le sue radici nei modi pervasivi in cui nel nostro tempo si declina la «questione sociale».
Fonte: Il manifesto
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.