di James Livingston
Per noi americani, il lavoro significa tutto. Per secoli - diciamo, dal 1560 - abbiamo creduto che servisse a formare il carattere (puntualità, iniziativa, onestà, autodisciplina, e così via). Abbiamo anche creduto che il mercato del lavoro, dove andiamo a cercare un lavoro, sia stato relativamente efficiente nel dispensare opportunità e redditi. E abbiamo creduto che, anche se fa schifo, un lavoro dia senso, significato e struttura alla nostra vita quotidiana - in ogni caso, siamo abbastanza sicuri che ci farà alzare dal letto, ci farà pagare le bollette, ci farà sentire responsabili e ci terrà lontano dalla TV durante il giorno.
Tutte queste convinzioni non sono più plausibili. Nei fatti, sono diventate ridicole, perché in giro non c'è abbastanza lavoro, e quello rimasto non ci pagherà le bollette - a meno che non si riesca ad ottenere un posto come trafficante di droga o come banchiere a Wall Street, diventando un gangster in entrambi i casi.
Tutti, in questi giorni, da sinistra a destra - dall'economista Dean Baker fino allo scienziato sociale Arthur C. Brooks, da Bernie Sanders a Donald Trump - rispondono a questo crollo del mercato del lavoro sostenendo la "piena occupazione", come se avere un lavoro sia automaticamente una cosa buona, non importa quanto possa essere pericoloso, duro e umiliante. Ma la "piena occupazione" non è certo la strada per ristabilire la nostra fede nel duro lavoro, nel rispetto delle regole, o in qualsiasi altra cosa che possa suonare bene. Il tasso ufficiale di disoccupazione negli Stati Uniti si trova già al di sotto del 6%, abbastanza vicino a quello che gli economisti sono soliti chiamare "piena occupazione", ma la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi non è cambiata di una virgola. Non sarà un lavoro di merda a ciascuno, a risolvere tutti i problemi sociali che ci troviamo davanti.
Non prendete per oro colato le mie parole, guardate i numeri. Attualmente, negli Stati Uniti già un quarto degli adulti occupati ricevono salari che sono al di sotto del limite della soglia di povertà - così come un quinto dei bambini americani vivono in povertà. In questo paese, quasi la metà degli adulti occupati ha diritto ai buoni pasto (la maggior parte degli aventi diritto non riceve i buoni pasto). Il mercato del lavoro si trova in panne, insieme a molte altre cose.
Indipendentemente da quello che vi racconta il tasso di disoccupazione, tutti quei lavori che sono spariti nel corso della Grande Recessione non sono tornati - il guadagno netto di posti di lavoro a partire dal 2000 rimane a zero - e se dovessero tornare dalla morte, sarebbero zombie, lavori condizioni, part-time o lavori a salario minimo, nei quali i capi rimescolano i turni nel corso della settimana: benvenuti al Wal-Mart, dove ti pagano in buoni pasto.
E non mi si venga a dire che l'aumento del salario minimo a 15$ l'ora risolverà i problemi. Nessuno mette in dubbio il significato morale dell'aumento. Ma a questo tasso di retribuzione, la linea ufficiale di povertà verrà superata solo dopo aver lavorato 29 ore la settimana. L'attuale salario minimo federale è di 7,25$. Lavorando una settimana di 40 ore, per raggiungere la linea ufficiale di povertà bisogna guadagnare 10$ l'ora. Cosa rappresenta esattamente il fatto di guadagnare uno stipendio che non sia un salario di sussistenza, se non provare che possiedi un'etica del lavoro?
Ma, aspetta un attimo, il nostro dilemma non è forse solo una fase di passaggio del ciclo economico? Come sarà il mercato del lavoro del futuro? I profeti di sventura, quei dannati malthusiani, non sono forse stati sempre smentiti dalla crescente produttività, da nuovi settori di impresa, da nuove opportunità economiche? Be', sì - fino ad oggi. Il trend misurabile degli ultimi cinquant'anni, e le proiezioni plausibili per i prossimi cinquant'anni, sono troppo empiricamente fondati per essere liquidati come scienza triste o come non-sense ideologico. Somigliano ai dati sul cambiamento climatico - puoi negarli, se vuoi, ma sembri un deficiente quando lo fai.
Ad esempio, gli economisti di Oxford che studiano i trend sull'occupazione ci dicono che quasi metà dei posti di lavoro esistenti, ivi compresi quelli che richiedono "capacità cognitive non di routine" - che richiedono cose tipo pensare - con l'informatizzazione, si trovano a rischio di sparire nei prossimi 20 anni. Stanno elaborando le conclusioni cui sono arrivati due economisti del MIT nel libro "Race Against the Machine" (2011). Nel frattempo, quei tipi della Silicon Valley che fanno le conferenze TED hanno cominciato a parlare di "surplus di esseri umani" come risultato di un unico processo - la produzione cibernetica. "Rise of the Robots", un nuovo libro che cita tutte queste fonti, è scienza sociale, e non fantascienza.
Così questa nostra Grande Recessione - non prendete in giro voi stessi, non è affatto finita - è tanto una crisi morale quanto una catastrofe economica. Si potrebbe anche dire che si tratta di un'impasse spirituale, dal momento che fa sì che ci domandiamo quale impalcatura sociale, diversa dal lavoro, servirà alla formazione del carattere - oppure se il carattere in sé sia qualcosa cui si debba aspirare. Ma questo è anche il motivo per cui ci viene offerta un'opportunità intellettuale: ci costringe ad immaginare un mondo nel quale il lavoro non serve più a formare il carattere, a determinare il nostro reddito o a regolare la nostra vita quotidiana.
Cosa faresti se tu non avessi bisogno di lavorare per ricevere un reddito?
Per farla breve, tutto questo ci permette di dire, di già e abbastanza, fanculo al lavoro.
Certamente, questa crisi ci porta a domandarci: cosa ci sarà dopo il lavoro? Cosa faresti senza il tuo lavoro in quanto disciplina esterna che organizza la tua vita quando sei sveglio - come imperativo sociale che ti fa alzare la mattina e ti fa andare in fabbrica, in ufficio, al negozio, al ristorante, dovunque tu lavori e, non importa quanto tu lo possa odiare, dove sempre torni? Cosa faresti se tu non avessi bisogno di lavorare per ricevere un reddito?
E a che cosa assomiglierebbe la società e la civiltà se tu non dovessi "guadagnarti" da vivere - se il tempo libero non fosse una scelta bensì la nostra sorte? Ciondoleresti fuori dallo Starbuck con il tuo laptop aperto? O faresti volontariato per insegnare ai bambini in luoghi meno sviluppati, come il Mississippi? Oppure fumeresti erba e guarderesti tutto il giorno i reality in TV?
Quello che sto proponendo qui non è un elegante esperimento mentale. Ormai si tratta di questioni pratiche dal momento che non ci sono abbastanza posti di lavoro. Perciò è tempo che cominciamo a porci maggiormente delle domande ancora più pratiche. Come sarebbe la tua vita senza un lavoro - puoi percepire un reddito senza che tu lavori per averlo? È possibile, ed - qui viene la parte difficile - è etico? Se sei stato educato a credere che il lavoro è l'indice del tuo valore nella società - come è avvenuto per la maggior parte di noi - ti sentiresti un imbroglione a prendere qualcosa senza dare niente in cambio?
Dal momento che più o meno tutti riceviamo il sussidio di disoccupazione, abbiamo già qualche risposta provvisoria. Fin dal 1959, la componente più in rapida crescita del reddito delle famiglie è stato il "sussidio" da parte del governi. Dall'inizio del 21° secolo, il 20% di tutti i redditi familiari proviene da questa fonte - da ciò che è altrimenti conosciuto come welfare. Senza questo supplemento di reddito, la metà degli adulti con un lavoro a tempo pieno vivrebbe al di sotto della linea di povertà, e la maggior parte degli americani che lavorano si troverebbero nelle condizioni di dover beneficiare dei buoni pasto.
Ma questi sussidi e contributi sono adeguati, sia in termini economici che morali? Continuando ad ampliarli, sovvenzioniamo la pigrizia, oppure contribuiamo ad arricchire un dibattito su quelli che sono i rudimenti di un buon vivere?
I sussidi o i contributi, per non parlare dei bonus di Wall Street, ci hanno insegnato a come separare la ricezione di reddito dalla produzione di beni, ma ora, on la fine del lavoro in bella vista, la lezione deve essere ripensata. A prescindere come viene calcolato il bilancio federale, possiamo permetterci di essere il guardiano di nostro fratello. La vera questione non è se, ma in che modo scegliamo di essere.
So cosa state pensando - non ce lo possiamo permettere! Ma sì che possiamo, e molto facilmente. Alziamo il tetto arbitrario posto ai contributi per la previdenza sociale, che ora è fissato a $127.200, e aumentiamo le tasse sul reddito, rovesciando la rivoluzione reaganiana. Questi due passaggi risolvono un falso problema fiscale e creano un surplus economico laddove invece ora misuriamo un deficit morale.
Certo, direte voi - insieme ad ogni economista, da Dean Baker a Greg Mankiw, da sinistra a destra - questo aumento delle tasse sui profitti delle imprese è un disincentivo agli investimenti e quindi alla creazione di posti di lavoro. Oppure che spingerà le corporazioni oltre oceano, all'estero, dove la tasse sono più basse.
Ma nella realtà l'aumento delle tasse non può avere questi effetti.
Andiamo a ritroso. Le corporazioni per un bel po' di tempo sono state "multinazionali". Negli anni 1970 e 1980. prima che entrassero in vigore i tagli fiscali firmati da Ronald Reagan, circa il 60% delle merci importate venivano prodotte all'estero, oltreoceano, da compagnie americane. Questa percentuale da allora è cresciuta, ma non di molto.
Il problema non sono i lavoratori cinesi - il problema è l'insensata idiozia della contabilità aziendale. Ecco perché la decisione del 2010 di "Citizens United" di applicare le regole della libertà di parola alle spese per la campagna elettorale è esilarante. Il denaro non è la parola, più di quanto non lo sia il rumore. La Corte Suprema ha evocato un essere vivente, una nuova persona, da quel che rimane del diritto comune, creando così un mondo reale assai più spaventoso del suo equivalente cinematografico: tipo, Frankenstein, Blade Runner o, più recentemente, Transformers.
Ma la linea di fondo è questa. La maggior parte dei posti di lavoro non viene creata dagli investimenti privati delle imprese, per cui l'aumento delle tasse sui profitti aziendali non influisce sull'occupazione. Avete sentito bene. Dagli anni 1920, la crescita economica è avvenuta anche malgrado il fatto che gli investimenti privati netti si siano atrofizzati. Cosa significa questo? Significa che i profitti hanno esclusivamente il senso di annunciare agli azionisti (e agli specialisti della concorrenza) che la tua impresa sta andando bene ed ha un'attività fiorente. Non c'è bisogno di profitti per "reinvestire", per finanziare l'espansione o l'aumento della forza lavoro della tua impresa, come ha ampiamente dimostrato la storia recente di Apple e della maggior parte delle grandi corporazioni.
Perciò le decisioni di investimento da parte degli amministratori hanno solo un effetto marginale sull'occupazione. Tassare i profitti delle corporazioni per finanziare lo stato sociale che ci permette di amare il nostro prossimo ed essere i custodi del nostro fratello non è un problema economico. Si tratta di qualcos'altro - è un problema intellettuale, un rompicapo morale.
Quando riponiamo la nostra fede nel duro lavoro, noi desideriamo la formazione del carattere ma stiamo anche sperando, o ci stiamo aspettando, che il mercato del lavoro assegnerà i redditi in maniera equa e razionale. E il guaio è che le due cose procedono insieme. Il carattere può formarsi sul lavoro quando possiamo vedere che esiste un'intellegibile, giustificabile relazione fra lo sforzo fatto, le competenze imparate e la ricompensa presente. Quando vedo che il tuo reddito è del tutto sproporzionato rispetto alla tua produzione di valore reale, di beni durevoli che tutti noi possiamo usare ed apprezzare (e per "durevole" non intendo solamente le cose materiali), ecco che comincio a dubitare che il carattere sia la conseguenza del duro lavoro.
Per esempio, quando vedo che si fanno milioni con il riciclaggio dei soldi del cartello della droga (HBSC), o con lo spingere titoli tossici da parte dei manager dei fondi di investimento (AIG, Bear Stearns, Morgan Stanley, Citibank), oppure predando sugli investitori a basso reddito (Bank of America), o comprando i voti al Congresso (tutti quelli sopra insieme) - insomma, i soliti affari a Wall Street - mentre mi ritrovo a mettere insieme il pranzo con la cena per mezzo dei guadagni provenienti dal mio lavoro a tempo pieno, allora realizzo che la mia partecipazione al mercato del lavoro è del tutto irrazionale. Mi rendo conto che dal momento che il crimine paga, formare il mio carattere per mezzo del lavoro è stupido. Potrei benissimo diventare un gangster come loro.
È questo il motivo per cui una crisi come quella della Grande Recessione è anche un problema morale, un'impasse spirituale - ed anche un'opportunità intellettuale. Abbiamo scommesso così tanto sull'importanza sociale, culturale ed etica del lavoro che nel momento in cui il mercato del lavoro fallisce, nella maniera spettacolare in cui sta avvenendo oggi, non riusciamo a spiegarci cosa stia succedendo, o ad orientarci verso un diverso insieme di significati da assegnare al lavoro ed ai mercati.
E quando dico "noi", voglio dire praticamente tutti noi, da sinistra a destra, in quanto tutti vogliono rimettere gli americani a lavorare, in una maniera o nell'altra - la "piena occupazione" è l'obiettivo sia dei politici di destra che degli economisti di sinistra. La differenza sta nei mezzi, non nei fini, e questi fini comprendono delle cose immateriali come l'acquisizione del carattere.
Il che è come dire che tutti quanti hanno raddoppiato il loro interesse per i benefici del lavoro proprio nel momento in cui il lavoro si trova sul punto di svanire. Garantire la "piena occupazione" è diventato un obiettivo bipartisan nel momento stesso in cui è diventata sia impossibile che inutile. Sarebbe un po' come se si fosse voluto garantire la schiavitù negli anni 1850, o la segregazione negli anni 1950.
Perché?
Perché lavorare, per noi abitanti delle moderne società di mercato significa tutto - indipendentemente dal fatto che formi un solido carattere e che assegni un reddito in maniera razionale, e a prescindere dalla necessità di doversi guadagnare da vivere. È stato il medium della maggior parte del nostro modo di pensare una buona vita fin da quando Platone ha fatto una correlazione fra il lavoro artigianale e la possibilità dell'idea in quanto tale. È stato il nostro modo di sfidare la morte, costruendo e riparando le cose durevoli, le cose importanti che sappiamo dureranno oltre il tempo che ci è concesso sulla Terra, in quanto ci insegnano, creandole e riparandole, che il mondo - il mondo prima e dopo di noi - ha i suoi propri principi di realtà, a prescindere da noi.
Pensate alla portata di quest'idea. Il lavoro è stato un modo per dimostrare le differenze fra i maschi e le femmine, ad esempio con il fondere i significati di paternità e di "capofamiglia", per poi, più recentemente, separarli. Dal 17° secolo, maschile e femminile sono stati definiti - non necessariamente realizzati - dai loro ruoli in un'economia morale, come uomini che lavorano e ricevono salari per la loro produzione di valore per mezzo del lavoro, o come donne cui non viene pagato niente per la loro produzione e cura delle famiglie. Naturalmente, queste definizioni ora stanno cambiando, così come cambia il significato di "famiglia", insieme ai cambiamenti profondi e paralleli nel mercato del lavoro - l'ingresso delle donne nel mercato del lavoro, è solo uno di questi cambiamenti - ed ai cambiamenti negli atteggiamenti nei confronti della sessualità.
Quando il lavoro scompare, i generi in quanto prodotto del mercato del lavoro appaiono sfuocati. Quando diminuisce il lavoro socialmente necessario, quello che una volta veniva chiamato il lavoro delle donne - educazione, sanità, servizi - diventa la nostra industria di base, e non più la dimensione "terziaria" di un'economia misurabile. Il lavoro dell'amore, aver cura l'uno dell'altro ed imparare come fare ad essere il custode di nostro fratello - il lavoro socialmente utile - diviene non solo possibile, ma eminentemente necessario, e non solo nell'ambito delle famiglie, dove l'affetto è normalmente disponibile. No, voglio dire là fuori, nel vasto mondo.
Il lavoro è stato anche il modo americano di produrre il "capitalismo razziale", come lo definisce adesso la storia, attraverso il lavoro degli schiavi, il lavoro forzato, la mezzadria, e i mercati del lavoro segregati - in altre parole, un "sistema di libera impresa" costruito sulla distruzione dei corpi neri, un edificio economico animato, saturato e determinato dal razzismo. Non c'è mai stato negli Stati Uniti un libero mercato del lavoro. Come ogni altro mercato, è stato sempre vincolato da una legale, sistematica discriminazione contro la gente nera. Si potrebbe perfino dire che questo mercato vincolato ha prodotto gli stereotipi ancora operanti della pigrizia degli afro-americani, escludendo i lavoratori neri da ogni lavoro remunerativo, confinandoli nel ghetto della giornata di otto ore.
Eppure, eppure. Sebbene il lavoro sia stato assai spesso soggiogamento, obbedienza e gerarchia, è anche il luogo dove molti di noi, probabilmente la maggior parte di noi, hanno espresso in maniera consistente il nostro più profondo desiderio umano di essere liberi da ogni autorità o obbligo impostoci esternamente, di essere autosufficienti. Per secoli, abbiamo definito noi stessi per mezzo di quello che facciamo, per ciò che produciamo.
Ma a questo punto dobbiamo sapere che questa definizione di noi stessi implica il principio della produttività - da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo la sua creazione di valore reale attraverso il lavoro - e ci consegna all'idea insensata secondo la quale valiamo quanto il mercato del lavoro riporta, come prezzo. Ormai è anche tempo di sapere che questo principio dà un determinato corso alla crescita infinita ed al suo fedele accompagnatore, il degrado ambientale.
Finora, il principio di produttività ha funzionato come principio della realtà che ha fatto sembrare plausibile il sogno americano. «Lavora duramente, gioca secondo le regole, vai avanti», oppure, «Ottieni quello per cui paghi, fai il tuo, riceverai giustamente quello che ti sei onestamente guadagnato» - simili prediche ed esortazioni vengono usate per dare un senso al mondo. In ogni caso non suonavano come deliranti. Ma ora lo fanno.
Di conseguenza, l'adesione al principio di produttività minaccia la salute pubblica quanto minaccia il pianeta (attualmente, sono la stessa cosa). Impegnarci in quel che è impossibile, rende folli. L'economista premio Nobel Angus Deaton ha detto qualcosa del genere quando ha spiegato il tasso anomalo di mortalità fra i giovani bianchi della Bible Belt, sostenendo che «hanno perduto la narrazione delle loro vite» - volendo dire in tal modo che hanno perso la fede nel sogno americano. Per loro, l'etica del lavoro è una condanna a morte in quanto non possono viverla.
Perciò l'imminente fine del mondo pone le domande fondamentali su cosa significhi essere umani. Per cominciare, cosa potremmo scegliere di fare nel momento in cui il lavoro - le necessità economiche - non consuma più la maggior parte delle nostre ore di veglia e della nostra energia creativa? Quali possibilità evidenti e ancora sconosciuto apparirebbero? Come cambierebbe la natura umana se il privilegio aristocratico del tempo libero fosse diritto di nascita per tutti?
Sigmund Freud ha insistito sul fatto che l'amore ed il lavoro erano gli ingredienti essenziali per la salute dell'essere umano. Di certo aveva ragione. Ma può l'amore sopravvivere alla fine del lavoro in quanto suo partner attivo nella buona vita? Possiamo lasciare che le persone ottengano qualcosa in cambio di niente e continuare a trattarli come fratelli e sorelle - in quanto membri di una comunità? Puoi riuscire ad immaginare il momento in cui incontri un attraente sconosciuto ad una festa, oppure mentre sei online alla ricerca di qualcuno, chiunque, però quando lo incontri non gli chiedi: «Allora, tu che lavoro fai?»
Non avremo nessuna risposta a tutto questo, fino a quando non ci renderemo conto che il lavoro per noi non significa tutto - e che d'ora in poi non potrà nemmeno più farlo.
Articolo pubblicato su "Aeon", il 25 novembre 2016
Fonte: blackblog francosenia
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