di Giovanni Di Benedetto
Sebbene molto spesso i numeri non dicano tutto, ci sono delle volte in cui la loro evidenza diventa quasi un pugno allo stomaco. È il caso dell’alta affluenza alle urne al referendum costituzionale e della vittoria del fronte dei No, con il suo schiacciante 60%. «Non credevo che potessero odiarmi così tanto», sembra abbia confessato, secondo il “Corriere della Sera”, il capo del governo (ci si augura ancora per poco) ai suoi più stretti collaboratori. «Un odio distillato, purissimo», continua il quotidiano più letto d’Italia, orchestrato non dagli italiani ma dai suoi avversari politici, interni al Partito democratico. Quella minoranza del Partito, per esempio, che ha fatto in modo che «ora Beppe Grillo si senta già al governo».
Dette da Renzi, rimasto celebre per quel «stai sereno» col quale ha ribaltato e mandato a casa Letta e il suo governo, queste parole suonano, a dir poco, paradossali. E testimoniano della distanza siderale che oramai separa i politici della casta, tutti inquadrati nei loro intrighi di potere e nelle loro imboscate di palazzo, dai problemi delle persone comuni, alle prese con bisogni elementari e fondamentali a cui non riescono più a fare fronte. La mobilitazione massiccia, a favore di Renzi, di tutta la sfera della politica istituzionale e degli apparati mass-mediatici, rispecchia un mondo oramai separato dai problemi quotidiani del paese reale, mentre la sconfitta del fronte del Sì, con il dato numerico roboante che sappiamo, ci parla di una protesta e di una avversione eclatanti nei confronti dell’intera classe dirigente del nostro Paese. La classe dirigente di un mondo di lustrini, fantasmagorie e menzogne televisive che ha oramai perso, con Renzi in testa, la percezione della sofferenza di ceti medi impoveriti, della miseria dei settori più umili della società e del malcontento delle classi popolari più svantaggiate.
Dunque, se il risultato del referendum dovesse essere interpretato solo come il frutto di immaginari intrighi di palazzo, che non c’è dubbio ci saranno pur stati, saremmo fuori strada. La sconfitta di Renzi è, invece, espressione di un voto di protesta, come con la Brexit e come con Trump, che si indirizza contro l’establishment e che segna la sconfitta del disegno strategico che pretendeva di adeguare, con una deriva di tipo autoritario, l’architettura politico istituzionale del Paese ai diktat della tecnocrazia europea e della finanza globalista. Era un progetto che, si badi bene, resta ancora in campo, e che tentava di rispondere con un di più di capitalismo, libero mercato, precarizzazione e deregulation, alla crisi economica di sovrapproduzione scoppiata tra il 2007 e il 2008 e alle conseguenti ricette «modernizzatrici» dettate dall’austerity.
La scongiurata vittoria del Sì, lo si è ripetuto sulle pagine di questo sito web, avrebbe avuto lo scopo di chiudere, sul piano delle politiche economiche e sociali, il cerchio delle controriforme renziane mettendo dentro, in un’unica combinazione, Jobs act, privatizzazione del pubblico (legge 107 sulla scuola, drastici tagli a pensioni e sanità) e riforma istituzionale e elettorale in chiave cesaristica, plebiscitaria e autoritaria. Sarebbe stato l’atto sanzionatore col quale si sarebbe posta la parola fine a tutele e diritti sociali peraltro già erosi lungo uno svolgimento storico quasi trentennale. In conseguenza di ciò, l’esito esiziale sarebbe stato, allora, quello di immiserire l’esecutivo nazionale facendone, anche dal punto di vista normativo, una mera camera di compensazione, l’interfaccia tra le direttive della troika di Bruxelles e una collettività ridotta a ricettacolo passivo e privo di qualsiasi aspirazione e tensione alla sovranità. In una fase storica nella quale il malcontento e il disagio sociale si preannunciano più aspri, il progetto del leader di governo e del Partito Democratico aspirava ad assecondare le preoccupazioni dei gruppi dirigenti e delle oligarchie finanziarie del Paese, sempre più preoccupate per la china disastrosa dell’economia e, soprattutto, sempre attente a non vedersi scalfire i propri lauti profitti.
Nel Mezzogiorno e in Sicilia, dove il clima sociale e le condizioni economiche della popolazione si sono, negli ultimi anni, aggravati e deteriorati, il voto lancia un segnale chiaro. Si può ipotizzare che il meccanismo elettorale referendario abbia agevolato l’espressione di un consenso solitamente condizionato, nelle elezioni politiche e amministrative, da meccanismi ricattatori e tipici del voto di scambio. Tuttavia, sembra abbastanza chiaro che, a fronte di una significativa riduzione dei flussi di spesa pubblica erogati con metodi clientelari e corruttivi, la borghesia mafiosa e il suo apparato politico regionale rischiano di perdere, in un processo che è comunque sempre reversibile, la tradizionale capacità di mediazione tra meccanismi decisori centralizzati e bisogni locali e territoriali. È anche per questa ragione se, in modo confuso e indistinto, si leva la protesta contro l’assurdo meccanismo dell’euro che, in modo asimmetrico e squilibrato, integra il Mezzogiorno all’interno dell’economia capitalistica europea, aggravando condizioni di miseria e aumentando, nella versione inedita di un rinnovato sottosviluppo, la divaricazione economico-sociale nei confronti delle regioni del centro.
Le destre, con la spregiudicatezza becera che le contraddistingue, un misto di razzismo, xenofobia, egoismo particolaristico e violenza verbale, hanno sfruttato ogni sorta di malcontento per individuare il capro espiatorio di turno. Cercheranno di capitalizzare il successo del No e di volgere a proprio favore, la Brexit e Trump ce lo ricordano continuamente, il legittimo dissenso dei cittadini. Il rischio può essere quello della Vandea, di un generalizzato ribellismo che cavalchi il fuoco della protesta per imporre soluzioni regressive, egoistiche e antidemocratiche. Ciò non toglie che la finta alternativa tecnocratica e il disegno razionalizzatore del sistema, strutturato sul dispositivo dell’euro, di Renzi e delle burocrazie, delle tecnocrazie e dei poteri finanziari e bancari europei, non funziona.
Ci siamo impegnati, convinti che occorresse farsi parte attiva della mobilitazione che in questi mesi ha lavorato per arrestare il progetto che si coagulava nel Sì referendario. Pensiamo, adesso, che occorra orientare in senso democratico e progressivo la carica di protesta esplosa nel voto e auspichiamo la costruzione di un ampio fronte di forze sociali, sindacali e politiche che possano congegnare punti di resistenza e di forza con i quali mettere a valore il dissenso che, sotto l’apparente apatia, sfiducia e individualismo, cova nelle masse. Occorre costruire spazi di democrazia, accoglienza e solidarietà, inventare campagne di massa contro i poteri criminali e affaristici, lavorare a vertenze che mettano in discussione l’impianto dell’euro, che rivendichino il diritto al lavoro, alla redistribuzione del reddito, alla tutela ambientale, alla cura per i diritti sociali e l’uguaglianza.
Alla vigilia del voto, pur nel segno di una incrollabile fiducia, era lecito pensare che la Costituzione, svuotata da tempo del suo carattere propulsivo, almeno dal punto di vista degli effetti della sua, se mai c’era stata, natura materiale, rischiava di scomparire anche dalla prospettiva del valore formale, apparentemente risucchiata dentro la spirale della sua stessa «vuota» retorica. Fortunatamente ci si era sbagliati, l’esito del voto è inoppugnabile. Nell’anno di grazia 2016, in data 4 Dicembre, i cittadini e le cittadine della Repubblica italiana si sono espressi senza lasciare adito a nessun possibile dubbio. La Costituzione, nata dalla sconfitta del nazifascismo, continua a essere il fulcro attorno al quale ruota la nostra traballante e malmessa democrazia. Da qui bisogna ripartire, senza nessuna aspirazione nostalgica, ma declinando in senso nuovo le tensioni e le aspirazioni ideali del tempo che fu.
Fonte: palermo-grad.com
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