di Luciana Castellina
L’idea cominciò il suo cammino durante una chiacchierata a cena, casualmente, come capita a quasi tutte le idee. Ma aveva come retroterra un disagio che veniva da lontano: la difficoltà di trovare, fuori dalla consunta retorica, cosa davvero avessero in comune – e di specifico – gli europei. Un disagio che alcuni dei commensali di quel desinare provavano con particolare pungenza, per via del ruolo che erano stati chiamati a svolgere. Uno era infatti lo spagnolo Marcelino Oreja, commissario alla cultura dell’esecutivo europeo; l’altra ero io, presidente della Commissione Cultura del Parlamento Europeo: ambedue impegnati a fare cose che, per l’appunto, traevano legittimazione dalla convinzione che esistesse una cultura comune e specifica che accomunava greci e svedesi, danesi e portoghesi, italiani e tedeschi.
Sia io che Oreja sapevamo che non era vero, ma facevamo finta di non saperlo. In noi, proprio per l’esperienza che ci veniva dal nostro incarico, covava il sospetto che, in definitiva, avesse avuto ragione l’Oracolo di Delphi, quando disse a Cadmo, il disperato fratello alla ricerca della sorella – la libanese fanciulla Europa – rapita da Giove e portata a Creta. «Europa – gli aveva detto – non la troverai mai, non è, può solo essere creata».
Sia io che Oreja sapevamo che non era vero, ma facevamo finta di non saperlo. In noi, proprio per l’esperienza che ci veniva dal nostro incarico, covava il sospetto che, in definitiva, avesse avuto ragione l’Oracolo di Delphi, quando disse a Cadmo, il disperato fratello alla ricerca della sorella – la libanese fanciulla Europa – rapita da Giove e portata a Creta. «Europa – gli aveva detto – non la troverai mai, non è, può solo essere creata».
La cena era una cena molto speciale, perché c’era anche, nientedimeno, che il re di Spagna Juan Carlos e si svolgeva in Estremadura, e precisamente a Vera de Plasencia, dove sorge il Monastero de san Jeronimo de Yuste, luogo in cui si era ritirato, e poi era morto, nel 1558, l’imperatore Carlo I, il solo ad aver unificato sotto la sua sovranità quasi tutta l’Europa, dalla Boemia alla Sicilia (salvo l’Inghilterra, naturalmente). Forse era per questo successo che eravamo lì, ma l’occasione ufficiale di un consimile banchetto era data dall’inaugurazione dell’Accademia Europea de Juste, collocata nel prestigioso monastero, e alla solenne concessione a Jacques Delors del premio intitolato per l’appunto a Carlo V. (Forse nella speranza che sarebbe riuscito a a somigliargli).
Il menu era sontuoso e molto spagnolo, sicché proprio del cibo si cominciò a parlare, sottolineando tutti quanto diverse fossero le gastronomie europee, e quanto, tuttavia, fossero tutte straordinarie.
È proprio riflettendo su questa eccezionalità che ci venne in mente che la gastronomia, al di là delle sue diversificazioni, o forse proprio per questo, costituiva qualcosa di realmente comune fra gli europei. Sia per chi mangia gli spaghetti, sia per chi mangia lo jamón serrano, gli smorrebrod, il gulasch o il camembert, il cibo non è infatti solo nutrimento, mero strumento per garantire la sopravvivenza. È rito, tradizione, simbolo comunitario, creatività. Il mangiare scandisce gli accadimenti salienti della vita, ma anche la quotidianità. In Europa, nonostante tutto, il solo terreno su cui il processo di americanizzazione non ha ancora sfondato è proprio questo. Ecco, finalmente, convenimmo, lo specifico europeo: la gastronomia.
Direte che no, c’è ben altro, a cominciare dalla tradizione greco-cristiana-giudaica – con il suo rispetto per la persona e la separazione della politica dalla religione; e però questa è una tradizione propria ormai a tutto l’Occidente, che quindi, di per sé e da sola, non è tanto specifica da giustificare l’esistenza di un’entità europea. Né si può dire che ad unire l’Europa sia stato il cristianesimo, visto che sono proprio le guerre di religione ad averla dilaniata. Senza contare l’importanza di un fattore piuttosto contraddittorio, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese.
Dire che il nostro specifico e comune europeo sia la gastronomia non è affatto riduttivo, perché il valore che noi diamo alla qualità del cibo esprime qualcosa di molto profondo: il rifiuto di considerare le cose che mangiamo una merce come un’altra, ma di riconoscere negli alimenti i portatori di valori e di storia. Per quanti supermarket carichi di orrende merendine cellofanate dilaghino oramai nelle nostre città noi non accetteremmo mai di mangiare «out of the fridge» davanti alla TV cibi congelati, nemmeno seduti a un tavolo, come è normale per tanti americani. In Europa si cucina, eccome. La sconfitta del McDonald di Gravina da parte della Focaccia delle Murge, ben descritta nel film Focaccia Blues, è lì a indicarlo. (Analoga disfatta dello spaccio americano ci fu subito dopo da parte del Panino Ciociaro).
A capire perché in Europa sia così ci ho messo più tempo. La risposta all’interrogativo l’ho infatti trovata in seguito nei Grundrisse di Karl Marx, laddove egli dice che in Europa il capitalismo si è sviluppato – ecco la grande differenza con gli Stati Uniti – in presenza di forme socio-culturali che lo precedevano ma erano ancora vitali, mentre cioè sopravvivevano classi e istituzioni (l’aristocrazia, il mondo rurale, la Chiesa) che, pur prendendo parte a tale sviluppo, ne hanno però segnato – nel male e nel bene – il sistema egemonico. Preservando una distanza critica, un’autonomia di valori rispetto alla crescente pressione in direzione di una riduzione di ogni dimensione umana alle mere priorità dell’economia, della produzione, della concorrenza mercantile. È questa cultura «altra», in qualche modo disinteressata, che ha dato luogo, qui, a una critica alla modernità che ha avuto aspetti reazionari ma anche rivoluzionari; e ha dato fra l’altro vita, qui e solo qui – potremmo aggiungere – ad uno speciale movimento operaio che in tutte le sue ispirazioni – comunista, socialista e cristiana – non è mai stato, come altrove, mero agente della contrattazione del prezzo della forza lavoro, ma anche portatore di valori di solidarietà che hanno inciso sulle istituzioni e lo hanno infatti reso artefice di quello che abbiamo chiamato stato sociale. Questa cultura «altra», questa distanza dal mercato, ha segnato l’identità europea fino al senso comune; ed è a ben guardare il solo tratto che – al di là delle loro tante diversità – i vari paesi europei hanno in comune, dalla Svezia al Portogallo, dall’Inghilterra all’Italia.
Tradotto questo discorso sulla gastronomia in modo semplificato potremmo dire che è proprio per questo che in Europa non rinunceremo mai ai nostri mille formaggi per sostituirli con le sottilette, vale a dire con un prodotto seriale certamente meno costoso da produrre e più profittevole. Per questo nella prima grande manifestazione antiglobal che si sia tenuta, quella di Seattle del 1999, in occasione della contestazione del vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (che si proponeva di varare un accordo molto simile a quello che oggi viene riproposto, il TTIP – Transatlantic Trade and Investment Partnership) – il contadino francese José Bovè impugnò per protesta proprio un formaggio, il camembert. Che, da allora, è diventato il simbolo della lotta contro la mercificazione di ogni aspetto della vita umana.
Dei Grundrisse naturalmente non parlai con Marcelino Oreja, colto ma troppo democroistiano per seguirmi su questo terreno. Né nel corso di quella cena – io stessa collegai Carlo Marx con la gastronomia solo in seguito – né mai. Ma quella sera giungemmo alla conclusione che dovevamo mettere in cantiere un progetto che desse luce al ruolo della gastronomia nella definizione della cultura europea. Anzi, mai una proposta abbozzata con il commissario alla cultura ebbe un seguito così rapido. Tornata a Bruxelles dall’Estremadura trovai già un fax di Oreja (erano i primi anni ’90 e non usavamo ancora internet) che mi convocava per l’indomani a una colazione (al meraviglioso “Comme chez soi” della capitale belga), dove ci sarebbe stato anche un suo amico spagnolo, presidente di non ricordo quale istituzione gastronomica, appositamente fatto giungere in Belgio.
L’idea fu lanciata, anche se poi prese strade meno ufficiali e più efficaci: Slowfood, innanzitutto. Ma la gastronomia cominciò ad essere inclusa fra i beni culturali da proteggere.
Purtroppo le cose non vanno bene: in questi decenni la specificità europea, la sua autonomia, sono state picconate. Anziché far valere con più impegno la nostra identità per dar forza all’idea di Europa, che peraltro, in epoca di globalizzazione non può più essere, se mai lo sia stato, solo un pezzetto di mercato, si è scelta la strada opposta: il totale allineamento alla globalizzazione, a partire dalla liquidazione proprio del welfare state e dalla ulteriore mercificazione di tutto.
Io tuttavia continuo quando, come molto spesso mi accade, di dover parlare d’Europa ai più svariati auditori, di rispondere, alla domanda «cosa c’è di comune in Europa?», «La gastronomia e il movimento operaio».
È uscito in questi giorni il numero 74 di «Nuovi Argomenti», intitolato In Europa quando piove e dedicato all’identità europea. Questo sopra è l’intervento di Luciana Castellina
Fonte: leparoleelecose.it
Originale: http://www.leparoleelecose.it/?p=25334
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