La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

mercoledì 7 dicembre 2016

Non è in vendita la sovranità popolare

di Francesco Gesualdi
Nonostante la propaganda martellante, fatta di bugie banalizzazioni, paure, ricatti, il popolo ha saputo respingere il tentativo di stravolgimento costituzionale tanto caro al mondo degli affari. Hanno cercato in tutti i modi di spingere gli italiani a barattare la Costituzione per un piatto di lenticchie, ma il voto espresso a così larga maggioranza è un messaggio chiaro che la sovranità popolare non è in vendita. Ora le forze politiche dovranno tenerne conto e cambiare la legge elettorale affinché tutte le espressioni presenti nel paese possano essere rappresentate in Parlamento nella stessa proporzione. Ogni altra soluzione è una manipolazione della democrazia.
Alla lettera democrazia significa comando di popolo, ma nella nostra Costituzione assume il significato più vasto di difesa del popolo. Lo dice così bene nell’articolo tre quando recita: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” In un momento in cui larghi strati della popolazione faticano ad andare avanti, questo risultato referendario è al tempo stesso denuncia di tradimento e richiesta forte di attuazione di tutta la Carta costituzionale, in particolare gli articoli che garantiscono il lavoro, la dignità salariale, l’alloggio, l’istruzione, la sanità. La realtà è sotto gli occhi di tutti: la disoccupazione è al 12%, le persone che ruotano attorno alla povertà sono al 28%, i giovani fra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano sono al 24%. L’Europa, come tutto il vecchio mondo industrializzato, sta entrando nell’era dell’alta tecnologia, ma con una società sempre più polarizzata. Ovunque le disuguaglianze vanno crescendo e se nel 1985 in Italia il 10% più ricco disponeva di un reddito otto volte più alto del 10% più povero, oggi la differenza è salita a 11 volte.
I meccanismi che stanno alla base del crescente disagio sociale li conosciamo. Si chiamano globalizzazione selvaggia, sopravvento della finanza senza regole, austerità in nome del debito pubblico. Espressioni moderne di quel capitalismo che in nome del profitto e dell’accumulazione non si fa scrupolo a sfruttare e saccheggiare. Ma sorvolando a piè pari che questo è il problema, gli arrampicatori della politica si dividono in neoliberisti e neoprotezionisti, per usare un’espressione di Tonino Perna. Entrambi credono nel capitalismo e nella crescita, ma mentre i primi hanno un’impostazione culturale che li fa propendere per mercati aperti nei quali le grandi imprese finiscono per farla da padrone, i secondi hanno un’impostazione che li spinge verso vecchie forme di protezionismo che protegge imprese di tipo nazionale. In conclusione i primi danno dei retrogradi agli altri, i secondi di traditori ai primi. In realtà sono solo due facce della stessa medaglia.
La vera soluzione sta nella capacità di andare oltre il capitalismo, non per abolire il mercato, ma per ridurre la dipendenza nei suoi confronti. La crisi ambientale ci manda a dire che la crescita non è più possibile, per cui dobbiamo inventarci altri modi per soddisfare i nostri bisogni e garantirci al contempo piena inclusione lavorativa. Per riuscirci dobbiamo affrontare molte rivoluzioni culturali, ma un passaggio sicuro è la rivalutazione dell’economia pubblica che possiamo e dobbiamo attuare fin d’ora. Se solo entrassimo nell’ordine di idee che l’occupazione non la creano solo i privati per il mercato, ma anche la comunità per i servizi pubblici e la tutela dei beni comuni, potremmo creare subito milioni di posti di lavoro. Certo si aprirebbe un problema di sovranità monetaria per poter ottenere il denaro necessario a pagare i nuovi salari. Ma viva Dio capiremmo che le energie non dobbiamo più usarle per reprimere i lavoratori, ma per imprimere all’Europa un nuovo corso sociale.

Fonte: comune-info.net 

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