di Marco Bersani
Le prossime dimissioni di Renzi sono il primo importante risultato di un voto referendario che ha dimostrato come la società italiana abbia sviluppato al proprio interno profondi anticorpi di democrazia, in grado di intervenire di fronte ai tentativi di imporre una svolta autoritaria al Paese. L’esito referendario è tanto più importante perché la categoria sociale che lo ha determinato con forza è stata la componente giovanile, proprio quella a cui Renzi – dietro l’ideologia della rottamazione, della modernità, delle slides e dei twitt – maggiormente si era rivolto.
Ma la sconfitta di Renzi è solo un primo passo, seppur fondamentale per interrompere un ciclo che solo tre anni fa sembrava inarrestabile.
La società italiana, che con il voto referendario lo ha finalmente mandato a casa, è la stessa che in questi anni ha subito il Jobs Act, la Buona Scuola, lo Sblocca Italia e una cultura politico-economica interamente impostata sulla trappola del debito, sulle politiche monetariste imposte dalla Ue e sulla progressiva consegna dei diritti e dei beni comuni ai grandi interessi delle lobby finanziarie e bancarie.
Tutto questo è ancora in campo, come dimostrano le prime dichiarazioni da Bruxelles, che annunciano richieste aggiuntive di austerità e rigore per l’Italia: una puerile vendetta verso il voto democratico dei cittadini italiani, che richiama l’arguta critica al socialismo reale di Bertolt Brecht, quando diceva: «Il popolo ha votato contro il Comitato Centrale. Cambiamo il popolo».
La vittoria referendaria può dunque divenire uno spartiacque e il primo segnale di un’inversione di rotta solo a tre importanti e complementari condizioni.
La prima è che il No delle urne passi da strumento di difesa e di «scampato pericolo» a fattore di propulsione per una nuova stagione di mobilitazione sociale contro tutte le politiche liberiste.
In questo senso e con le dovute proporzioni, la battaglia vinta per il ritiro del decreto Madia che voleva privatizzare definitivamente l’acqua e i servizi pubblici rappresenta un primo importante indicatore di percorso.
Renzi se ne sarà veramente andato solo quando si interromperà la precarietà del e sul lavoro, quando la scuola tornerà ad essere buona davvero, quando i territori potranno liberamente autodeterminare le scelte strategiche che li riguardano.
La seconda condizione è che il conflitto sociale risalga da valle a monte e metta radicalmente in discussione l’ideologia dell’economia a debito, con le sue trappole fatte di patto di stabilità e pareggio di bilancio, di rigore monetarista e di austerità senza fine, ponendo con forza il diritto all’insolvenza ogni qualvolta questa pregiudichi i diritti fondamentali individuali e sociali.
La terza condizione è che il sonoro No a Renzi si trasformi non nell’ennesima delega al prossimo prestigiatore (mestiere molto frequentato nel nostro Paese), bensì in una forte, radicata e reticolare battaglia per la riappropriazione della democrazia, dentro percorsi di autogoverno solidale delle città e dei territori, come in diverse realtà e conflitti sociali si sta cercando da tempo di sperimentare.
Lo straordinario voto referendario del 4 dicembre rappresenta un segnale importante: non solo perché dimostra ancora una volta la saggezza del popolo ogni volta che gli si permette di pronunuciarsi, bensì perché, interrompendo la narrazione dell’individualismo autoritario, può riaprire la strada della cooperazione solidale.
Ai movimenti sociali, ai comitati e alle persone il compito di agirla con determinazione per impedire che la domanda di cambiamento venga interrotta dall’ennesima illusione.
Fonte: Il manifesto
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