di Alfiero Grandi
I risultati del referendum costituzionale continuano ad essere ignorati o sottovalutati dal dibattito politico e partitico, oscurando progressivamente l’alta percentuale di votanti e la vittoria del No. Perfino tra chi si è dichiarato per il No sembra esserci se non la rimozione come fanno altri, una certa fretta di dimenticare il referendum del 4 dicembre. E’ una pratica pericolosa per la democrazia. Pericolosa perché se in questa fase di crescente astensione e di disaffezione politica dilagante, terreni di coltura del populismo, dovesse prevalere la rimozione del voto le elettrici e gli elettori si sentirebbero respinti, verso una radicalizzazione, qualunque forma possa assumere.
Sarebbe uno schiaffo alla voglia di partecipazione democratica, con conseguenze imprevedibili.
Sarebbe uno schiaffo alla voglia di partecipazione democratica, con conseguenze imprevedibili.
Piaccia o non piaccia il No si è raccolto attorno alla bandiera della difesa della Costituzione. Non era l’unica motivazione, ma è significativo che sia stata quella egemone, adottata da tutti, con maggiore o minore sincerità. Costituzionalizzare le opposizioni è stato in passato un obiettivo comune ad un ampio arco di forze, oggi sembra essersene persa la memoria.
Dopo tante chiacchiere sul cambiamento necessario, piaccia o meno, il 4 dicembre ha prevalso una forte volontà di cambiamento, a meno che non si confonda il cambiamento con il consenso.
Sta iniziando una stagione di congressi con al centro la rideterminazione della collocazione dei partiti, in vista della nuova legge elettorale, con la quale è sperabile si riesca ad eleggere un parlamento effettivamente rappresentativo, che possa contribuire a risalire la china della credibilità delle istituzioni, oggi al minimo. La legge elettorale è un banco di prova coerente con il referendum.
Per avere un parlamento credibile e rappresentativo occorre che gli elettori possano scegliere i loro rappresentanti, in cui possano riconoscersi.
Le liste bloccate, tutte o in gran parte, sono la scelta più grave, perché prefigurano dei nominati dall’alto anziché degli eletti dai cittadini, quindi condizionabili, debitori al capo della loro elezione, senza alcuna autonomia e soprattutto distanti da quelli che dovrebbero rappresentare e sempre più reclusi in un recinto autoreferenziale.
Le liste bloccate sono un colpo mortale alla partecipazione democratica. Scegliere con le preferenze comporta problemi di cui si è persa in parte la memoria, ma se si guarda ai collegi del Senato, composti da milioni di elettori, è evidente che il costo di una campagna elettorale sarebbe proibitivo, quindi selettivo per censo, inoltre le preferenze potrebbero portare a fenomeni di inquinamento del voto. Meglio i collegi uninominali.
Il proporzionale oggi è un correttivo inevitabile dopo un maggioritario pasticciato e impresentabile, prima con il porcellum poi con l’Italicum. Il proporzionale può avere gradi diversi di correzione del maggioritario, ad esempio con le soglie di accesso, pur diverse, previste dalle sentenze della Corte.
La combinazione del proporzionale con i collegi uninominali è del tutto possibile, come è già avvenuto in passato. La via più semplice è che i candidati collegati ad una lista entrino in proporzione ai voti oppure alla percentuale ottenuta, nella misura dei voti ottenuti dalla lista.
E’ possibile che dopo le elezioni non ci sia un unico vincitore e sia necessario affrontare la costruzione di una coalizione di governo. Il che non è affatto una bestemmia. Quante volte il governo Renzi ha giustificato le non scelte con l’esigenza dell’accordo con gli alleati ? Vero o falso che fosse, è la conferma che gli accordi sono necessari. La vocazione maggioritaria può poco se i voti non ci sono, e se solo gli artifici elettorali fanno diventare maggioranza una minoranza politica.
Il vero problema è che gli accordi, se non sono compromessi impresentabili, debbono avvenire tra soggetti che hanno una loro identità ed essere trasparenti, discussi ed accettati, cercando consenso nel paese. In sostanza richiedono la presenza della politica, dei partiti. Oggi partito è un termine desueto, eppure è proprio questo che è necessario.
I partiti come possono ricostituirsi? Difficile ricostruirli senza fondamenti importanti, idealità, perfino discrimini. Le diversità non sono un danno, se si muovono entro regole comuni come la Costituzione, oggi per fortuna confermata, e perfino destra e sinistra possono tornare ad essere termini con significato. Per questo il risultato del 4 dicembre non è archiviabile, anzi è un discrimine. Nessuno pensa che ci siano elettori di serie A e di serie B, ma il problema di fondo è partire dalla vittoria del No per costruire i fondamenti della propria identità. Non basta ma è un punto forte. Le alleanze, le convergenze, le formazioni politiche non possono che essere costruite partendo da questo punto che delinea diverse, se non opposte, concezioni della democrazia e del governo, da cui derivano altre conseguenze come il rapporto con l’Europa e la globalizzazione, il ruolo del lavoro, partendo dai referendum cgil, la coesione sociale fondata sull’attuazione dei diritti fondamentali.
Ce n’è abbastanza per costruire partiti e motivare la partecipazione. Se invece prevale la palude, l’assorbimento per stanchezza, peggio la restaurazione incurante delle pulsioni di rinnovamento, il risultato sarà una crisi di credibilità della democrazia che può assumere forme più o meno gravi, di cui risultati elettorali come quello di Trump sono un segnale d’allarme di proporzioni enormi, ma non è l’unico.
La sinistra ritiene che questo discorso non la riguarda ? Chi pensa così sbaglia, è esattamente rivolto a lei e il primo banco di prova sarà proprio la legge elettorale, a partire dalla raccolta delle firme già iniziata.
Fonte: Il manifesto
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