di Salvo Vaccaro
La recente riscoperta curda del municipalismo libertario ha rianimato il dibattito sul valore teorico e pratico dell'ultima proposta bookchiniana per dare concretezza e progettualità all'anarchismo. Una riflessione al contempo stimolante e contraddittoria. Con la quale, comunque, è necessario fare i conti. Murray Bookchin è stato un intellettuale-militante del XX secolo, attraversando numerosi conflitti sociali e politici, mutando sensibilità ideologiche, maturando una posizione teorica di notevole segno libertario, inaugurando un filone di ricerca ambientale e urbanistica di grande spessore. E tuttavia la recente riscoperta di Bookchin in Europa la si deve a qualche paradosso curioso cui la storia spesso ci abitua.
Un mancato incontro, una lettura attenta della sua opera in cui risaltano vistosamente le assenze di citazioni, uno slogan che traduce la celebre formula del municipalismo libertario in confederalismo democratico – il che non sarebbe la stessa cosa.
Un mancato incontro, una lettura attenta della sua opera in cui risaltano vistosamente le assenze di citazioni, uno slogan che traduce la celebre formula del municipalismo libertario in confederalismo democratico – il che non sarebbe la stessa cosa.
Mi riferisco, come è ovvio, all'esperimento in Rojava in cui le best practicesevocate negli scritti di Bookchin sono testate sul campo e adattate nonostante circostanze avverse e non certo idonee per esperienze innovative sul piano politico, partecipativo, sociale e persino istituzionale. «La richiesta di uno stato curdo indipendente è stata sostituita dal rifiuto dello stato in quanto tale per abbracciare il principio del confederalismo democratico, fondato su una sintesi delle idee dell'anarchico ed ecologista sociale americano Murray Bookchin e di altri autori con la tradizione curda nonché con esperimenti di ampia portata tipici della pragmatica organizzazione rivoluzionaria»1.
Öcalan e Bookchin non si sono mai incontrati né, a quanto sembra, esiste un carteggio reale, al di là di uno scambio di lettere tra maggio e l'estate del 2004; Öcalan ha approfittato della presenza culturale di Bookchin in Turchia, e quindi della disponibilità di alcune sue opere in traduzione turca, per leggere avidamente e tradurre a suo modo la proposta di municipalismo libertario, cambiando definizione e ponendola come pietra miliare per i suoi seguaci, ancora oggi animati da un culto della personalità leggermente fuori registro per libertari e anarchici. Ma comunque senza mai citare direttamente una sola frase di Bookchin, se leggiamo gli scritti in carcere di Öcalan disponibili in lingua inglese o italiana. Qualcosa potrebbe essermi sfuggita, però.
Elementi di autogoverno in senso orizzontale
La proposta di Bookchin del municipalismo libertario rappresenta una strategia politica tesa a uscire dalla stagnazione di uno stile antagonista del fare politica collettivamente, che sistematicamente respinge ogni ipotesi di autogoverno se prima non si avvera l'evento rivoluzionario. Ma tale evento può divenire praticabile solo se i suoi protagonisti, oltre a combattere contro i sistemi di dominio, si rendano capaci, si allenino, comincino sin da subito a praticare elementi di autogoverno dei territori in senso orizzontale e partecipativo, offrendosi quindi come proposta politica non riformista nel senso grezzamente parlamentare, ma nemmeno puramente (e falsamente) esterna e estranea ad ogni lotta politica e sociale che abbia al proprio centro l'autogestione conflittuale del fatto politico, della convivenza politica su un dato territorio. E questa porzione di territorio Bookchin la individua nel microcosmo della città e delle sue istituzioni fortemente permeabili a modi di essere condotte diversamente.
Là dove il rapporto tra governanti e governati è più prossimo fisicamente, diviene possibile erodere la verticalità condizionando il potere politico con un controllo dal basso o addirittura con un autogoverno dal basso. «Egli distingue la statualità, entro la quale gli individui hanno una ridotta influenza sulle questioni politiche dati i limiti del governo rappresentativo, dalla politica in cui i cittadini hanno un controllo diretto e partecipativo sui loro governi e comuni»2. Certo, Bookchin ha in mente le piccole città del suo Vermont, un paese del New England statunitense in cui i nessi tra potere centrale e poteri decentrati sono molto laschi, in cui non esiste alcuna figura riconducibile a quella del nostrano Prefetto, alto rappresentante del governo sul territorio locale, in cui gli echi di Washington arrivano deboli, in cui quotidianamente contano cose concrete piuttosto che le strategie dell'establishment finanziario di Wall Street o delle lobbies politiche-affariste-militari del Pentagono.
Bookchin tuttavia non arriva a tale proposta solo per épater (meravigliare, ndr) la sonnolenta coscienza di una prassi libertaria spesso avvitata su se stessa, appagata del proprio percorso storico, compiaciuta di una sua pretesa purezza e incontaminatezza dalle porcherie della politica politicante. No, Bookchin vi arriva anche attraverso una ricognizione storica e urbanistica della nascita della città, della formazione del municipio italiano in epoca post-medievale e rinascimentale, sapendo cogliere con estrema finezza analitica i punti forti di una gestione collettiva del territorio da parte di segmenti sempre più consistenti di persone coinvolte in prima persona e autorganizzate in gilde, reti consortili e altre forme sperimentali in cui la politica di autogoverno si distanzia mille anni luce dai giochi del potere per il mero potere.
Il municipalismo libertario non è solo una palestra di pratiche libertarie in conflitto con istituzioni accentrate, con partiti politici tradizionali, con formazioni sovrane extra-politiche come le imprese del capitale. È anche il terreno di conflitto da cui muovere verso una trasformazione qualitativa dell'esistenza che, in una parte ben precisa del mondo occidentale, ha abbandonato il fulcro centrale dell'industria operaia per ridislocarsi a tutto campo sul territorio in senso lato, e non solo nella ristretta configurazione dell'ente locale.
Infatti Bookchin analizza il territorio sotto molteplici aspetti, primo dei quali quello ambientale, individuando innanzitutto nel mito politico ed economico della scarsità il perno dello sfruttamento del pianeta da parte di formazioni dominanti. Solo abbandonando questo falso paradigma antropico, così come fecero Clastres e Sahlins su registri etnografici, possiamo comprendere la giusta misura dell'impronta umana sulla terra, la prima delle quali è la cifra del dominio dell'umano sull'umano.
Contro il primitivismo, per un anarchismo sociale
L'ecologia della libertà non è perciò solo il titolo del suo testo più celebre, non è solo il manifesto di un nuovo ambientalismo radicale, ma è l'exemplum del nesso tra ambiente e libertà declinato virtuosamente in senso dialettico, come rovesciamento quindi dei rapporti di dominio e di sfruttamento dell'uomo sull'uomo (e sulla donna) che sono alla radice delle questioni più strettamente ecologiche e ambientaliste. Un rovesciamento che si fonda su uno sforzo critico in cui l'analisi del presente tiene conto del reale non come esso è, bensì come potrebbe divenire.
Ecco l'impatto della sua posizione anarchica maturata nel corso di decenni in cui il suo pensiero non solo evolve, come è naturale per chiunque, ma delinea stratificazione sopra stratificazione, spiazzamento dopo spiazzamento, una cornice teorica anarchica al cui interno ricollocare, in modo rielaborato, i principali assi filosofici del '900, primo tra tutti la Teoria critica della famosa Scuola di Francoforte declinata in senso libertario e non solo marxista (ambito teorico da cui pur proveniva il giovane Bookchin, da ragazzo stalinista e trotzkista come tutti i marxisti degli anni '30 e '40).
È il dominio politico alla radice di ogni sfruttamento mondano, dall'estrazione del plusvalore al degrado del clima della terra, dalla discriminazione di genere alla militarizzazione delle relazioni sociali, e questa chiara rivendicazione anarchica viene diffusa da Bookchin a sfere sempre più allargate dell'esistenza quotidiana, arricchita da un profondo respiro di segno storico che lungo i secoli della modernità insegue tenacemente le avventure della libertà contro l'ipoteca del dominio. Sono queste avventure concrete, storiche, legate a territori, legate a istituzioni politiche innovative, legate a dimensioni culturali per nulla etichettabili come anarchiche perché ante litteram, ma comunque votate alla ricerca di una libertà radicale, a segnare l'approccio teorico di Bookchin.
Un respiro spesso denotato da una vena polemica fortemente vissuta anche verso i propri compagni più stretti, sino a sfidare la tolleranza verso posizioni di pensiero non sempre condivisibili, a maggior ragione allorquando la polemica si insinua dentro le fila dei libertari e degli anarchici.
Uno degli ultimi pamphlet di Bookchin ha fatto molto discutere in ambiente anglo-sassone, aprendo una spaccatura analitica e politica che addirittura sospinse Bookchin ad allontanarsi dal movimento anarchico, poco prima di morire nel 2006 all'età di 85 anni3. Mi riferisco al testo Social Anarchism or Lifestyle Anarchism: an Unbridgeable Chasm, pubblicato nel 1995.
Qui Bookchin attacca, talvolta in modo virulento come del resto praticano i suoi interlocutori, una esasperazione dell'individualismo anarchico quando esso si contrappone all'anarchismo sociale in cui l'elemento della pluralità collettiva della vita associata assume il ruolo di baricentro per ogni agire anarchico e libertario. Solo in tale condizione diviene possibile parlare di libertà – costitutivamente plurale -, laddove nella tipica postura individualista di derivazione liberale è l'autonomia a rivestire i panni principali del singolo individuo, tutto proteso a sé, alla propria autoformazione, alla propria pretesa di impermeabilità rispetto ad ogni penetrazione del potere nella sua identità. Bookchin non intende solo l'individualismo di fin de siècle che tanto sconquassò le fila del movimento anarchico a cavallo del secondo millennio, ma è inquieto di fronte alla risorgenza del primitivismo anticulturale, al rifiuto di ogni tecnologia umana, all'insurrezionalismo caotico e irrazionale, come lo definisce, in cui mettere assieme John Zerzan e Hakim Bey.
L'anarchismo come forma-di-vita, non solo pensiero e azione
Ai fini della trasformazione rivoluzionaria della società, tali posizioni vanno fermamente condannate perché distolgono forze e menti dall'agire entro le sfere della società per sincronizzarne un mutamento qualitativo di segno libertario, mentre l'arroccamento a sé dell'individualismo estetizzante significa un pericoloso allontanamento dall'obiettivo strategico della rivoluzione, per esaltare di contro il momento per il momento dell'atto ribelle, del beau geste esemplare e isolato, fine a se stesso, spesso incompreso se non da coloro che sono già sintonizzati sulla medesima onda del codice simbolico.
Bookchin sembra cogliere una forte pressione del neoliberalismo governamentale di oggi a estirpare del tutto ogni esperienza plurale e collettiva per esaltare e valorizzare al massimo il singolo individuo che può tutto perché è l'attore prioritario del contemporaneo, un attore che, come dice lo stesso termine, mette in scena liberamente se stesso tanto se conforme al sistema imperante, quanto se difforme, pur di stagliarsi come singolo di fronte ad una società che non esiste in quanto tale (Maggie Thatcher docet), ma solo se intesa come società di individui, singoli e liberi per definizione liberale e libertaria insieme.
È ovvio che per un anarchismo sociale di segno rivoluzionario, al cui interno attivare tattiche politiche quali il municipalismo libertario che obbliga l'anarchismo a misurarsi sulla gestione contraddittoria dell'autogoverno locale, esattamente come contraddittoria fu l'esperienza rivoluzionaria del 1936 in Spagna, l'individuo in sé è un'astrazione fittizia se pretesa incontaminata e pura da ogni forma di penetrazione del potere nel microcosmo della quotidianità. La sfida rivoluzionaria è giusto quella di accelerare in direzione libertaria un movimento di trasformazione collettiva che attraversa inesorabilmente ogni configurazione societaria, sempre dinamica e sempre in procinto di biforcarsi verso gli esiti più disparati, tanto reazionari quanto rivoluzionari.
Emancipazione dall'autorità costituita e autogoverno
Al contempo, però, Bookchin sembra non cogliere la grande valenza scardinante di un anarchismo che non è solo pensiero e azione, ma si fa vita, stile di vita non solo in senso estetizzante, ma che anzi assume la forma della vita stessa come agire rivoluzionario, come pensiero e azione sovversivo. Da Landauer a Foucault, lo stile di vita non è una astrazione estetica, bensì la precisa volontà singolare di legarsi collettivamente alla dimensione plurale attraverso una cura di sé che funge da collante con altri sé, al fine di modellare una condotta sovversiva, critica, avversa al potere che unisca ciò che la modernità ha scisso, ossia politica ed etica, agire sociale e modo di comportarsi tra sé e sé ma soprattutto tra i vari sé costituitisi come soggetti anarchici4.
Questa forma-di-vita anarchica, mai data ma sempre conquistata nel conflitto tra sé e mondo illibertario, ha una potenza inestimabile perché connette pensiero e azione, una scelta dottrinaria con una scelta vitale e esistenziale non di superficie, non generazionale. È una potenza etopolitica5 che costituisce ciascun sé nel legame associativo con altri sé – l'anarchismo lo designa come affinità, sulla scia delle affinità elettive di Goethe, a ben pensarci il crogiolo romantico cui devono molto Stirner e Bakunin pur nelle differenze di visioni – e che diviene capace, in tempi di effervescenza sociale, di scardinare forme tradizionali e contenuti consolidati sia di modi di pensare che di vivere. Nascono i movimenti degli ultimi decenni, nella loro traiettoria carsica che va da Seattle a Zuccotti Park, dagli zapatisti agli Indignados (nella loro avventura prepartitica rispetto a Podemos), dai vari Occupy a piazza Taksim (Turchia), dalle insorgenze nelle banlieux francesi alle periferie inglesi, e via continuando6.
Quel che Bookchin riteneva una frattura insanabile, irriducibile, suona invece come una ineludibile tensione tipica di un ethos anarchico che si fa fatto sociale, e proprio nella giunzione tra posizione radicale del singolo e suo legame organizzato nei vari segmenti del vivere associato rende possibile l'affermazione di uno stile politico drasticamente mutato rispetto alla degenerazione istituzionale che l'ha pervertito. Infatti, come ricorda Jacques Rancière, l'irruzione della politica come rivendicazione del controllo della propria esistenza plurale è senza dubbio an-archica in senso costitutivo, ferocemente conflittuale con ogni pretesa archica di dominio tradizionale risalente alla notte dei tempi, all'inizio della storia, al “così è perché così è sempre stato”. Emancipazione dall'autorità costituita, precludendole ogni riapparizione, e autogoverno della forma di vita in cui siamo immersi costituiscono il doppio volto con cui storicamente e teoricamente si presenta l'anarchismo.
Probabilmente, oggi, abbiamo un bagaglio concettuale più affinato che ci consente di declinare congiuntamente ciò che Bookchin riteneva una giuntura incolmabile.
Note
1 David Graeber, Foreword a Michael Knapp, Anja Flach and Ercan Ayboga, Revolution in Rojava. Democratic Autonomy and Women's Liberation in Syrian Kurdistan, Pluto Press, London, 2016, p. XV.
1 David Graeber, Foreword a Michael Knapp, Anja Flach and Ercan Ayboga, Revolution in Rojava. Democratic Autonomy and Women's Liberation in Syrian Kurdistan, Pluto Press, London, 2016, p. XV.
2 Debbie Bookchin and Blair Taylor, Introduction, a Murray Bookchin, The Third Revolution, Verso, London, 2015, p. XVIII. In italiano, cfr. Murray Bookchin, Democrazia diretta, eleuthera, Milano, 2015.
3 «Bookchin disse agli anarchici che il suo progetto di municipalismo libertario costituiva la loro vera politica, la loro naturale teoria rivoluzionaria. Lo ascoltarono con rispetto, ma poi gli replicarono che non gradivano il governo locale al pari di altre cose del genere; mossero poi obiezioni al principio di votazione per maggioranza perché la minoranza non avrebbe avuto spazio. Gli anarchici preferivano gruppi comunitari non politici, cooperative, librerie radicali, comuni. Bookchin riteneva che tali istituzioni andassero bene, ma che per fare una rivoluzione seriamente si ha necessità di avviare un percorso per conquistare un potere politico concreto, strutturale, legittimo, legale. Il municipalismo libertario era un modo per farlo, per avere un piccolo punto saldo contro lo stato nazionale. Bookchin sollecitò gli anarchici, li cercò, li implorò, provò a persuaderli, li pregò, li invocò, polemizzò con loro. Fece di tutto per convincerli che il municipalismo libertario era il modo per rendere politicamente rilevante l'anarchismo. Ma nel 1999 – più o meno quando venne arrestato Öcalan – confessò infine a se stesso il proprio fallimento e iniziò un percorso di allontanamento dall'anarchismo» (Janet Biehl, Bookchin, Öcalan, and the Dialectics of Democracy, “New Compass”, 16 febbraio 2012).
4 Reiner Schürmann, Costituire se stesso come soggetto anarchico, trad. it. in F. Riccio e S. Vaccaro (a cura di), “Soggetto” a variazione, BFS, Pisa, 2000, pp. 67-87.
5 Per una prima configurazione teorica, mi sia consentito rinviare a Salvo Vaccaro, Foucault: dall'etopoiesi all'etopolitica, in “materiali foucaultiani”, IV, n. 7-8, 2015.
6 Cfr. Ursula K. Le Guin, Foreword, a Murray Bookchin, The Third Revolution, cit., pp. IX-XI. Inoltre cfr. Salvo Vaccaro, Genealogia dell'ingovernabile, in S. Vaccaro (a cura di), Agire altrimenti. Anarchismo e movimenti radicali nel XXI secolo, Elèuthera, Milano, 2014.
Per una società libertaria e autogestita
di Luca Lapolla
Municipalismo libertario, comunalismo, unanimità, consenso, ecc. Una riflessione sulle modalità organizzative e decisionali.
Partendo da fatti di cronaca spesso mi viene chiesto – sia genuinamente che provocatoriamente – come reagirebbe una società anarchica. Per esempio, parlando con amici o parenti delle dilaganti manifestazioni di razzismo sociale e istituzionale si finisce a volte col discutere di nazionalismo e confini, e lì scatta la domanda: “Ma come farebbe uno stato (sic!) anarchico ad evitare di essere invaso da milioni di migranti?”. E così iniziano dibattiti che – a seconda del tipo di rapporto e del livello di alcol in corpo – possono trasformarsi in vere e proprie arringhe o furibonde litigate.
Comunità federate e il rischio di micro stati
Il riferimento allo “stato anarchico” dimostra quanto certe idee siano talmente radicate da impedire anche solo di contemplare un'alternativa. Eppure pensatori e militanti anarchici hanno prodotto sin dal diciannovesimo secolo innumerevoli esempi di società libertarie, sia nella teoria che nella pratica. Il modello più diffuso è quello della federazione di comunità o comuni, teorizzato già da pensatori come Bakunin, Kropotkin e Landauer, e rielaborato a partire dagli anni Cinquanta da Murray Bookchin col nome di municipalismo libertario all'interno di un più ampio progetto per adattare l'anarchismo alle sfide del mondo moderno.1Progetto che abbandonò negli ultimi anni di vita quando lasciò il movimento anarchico – ritenuto troppo individualista – per quello che definì “Comunalismo”.
Bookchin presentò il Comunalismo come “socialismo del ventunesimo secolo” basandosi su principi provenienti dalla tradizione dell'anarchismo, del marxismo e del sindacalismo rivoluzionario, e con una forte influenza ecologista.2 In particolare, Bookchin si soffermò a lungo sulla dimensione politica del Comunalismo che chiamò “municipalismo libertario”. Questo ha al suo centro l'idea di federazioni di comunità basate sulla distinzione tra policy-making (essenzialmente il potere legislativo) ed administration (una sorta di gestione amministrativa), affidando il primo ad assemblee locali composte da cittadini e la seconda a consigli federali con rappresentanti nominati – e revocabili – dalle stesse assemblee. Consigli federali che, nella visione di Bookchin, dovrebbero evitare che singole comunità tradiscano il patto federativo.3 Di certo un compito controverso che mi fa pensare alla repressione statale su piccola scala. Ma è davvero meglio tollerare – in nome di una presunta libertà – che una comunità confederata compia disastri ambientali o violi i diritti umani?
Consenso: dittatura della minoranza?
Altra questione spinosa è rappresentata dal processo decisionale all'interno di queste assemblee comunitarie. Oggigiorno il metodo più diffuso in organizzazioni e spazi di ispirazione libertaria è basato sul consenso perché ritenuto l'unico veramente democratico. Si tratta di un metodo che si è diffuso a partire dagli anni Settanta, quando gruppi femministi e quaccheri introdussero la pratica delle decisioni prese dopo aver ascoltato tutte le opinioni finché nessuno si dichiari apertamente contrario – diverso dunque dal voto all'unanimità.4 Anche nella comune pugliese di Urupia usano il metodo del consenso. Intervistando una comunarda nel 2014, lei ammise che il metodo “è complicato perché allunga i tempi, però” – aggiunse – “è importante perché dà spazio a tutti e a tutte di esprimersi [...] sping[e] ognuno ad ascoltare l'altro e magari a rivedere la propria posizione. [Così ci] si arricchisce tantissimo anche a livello individuale”.
Tuttavia Bookchin smascherò la presunta democraticità di questo metodo esclamando: “Ne ho avuto abbastanza delle decisioni per consenso, in cui una minoranza ha il bizzarro diritto di bloccare le decisioni della maggioranza diventando così una tirannide che fa ostruzionismo mentre accusa assurdamente la maggioranza di essere tirannica”.5 Difatti, quello che oggi il movimento libertario considera un tabù, prima era la norma. Ad esempio, in alcune interviste, dei libertari baresi mi hanno confermato che negli anni Settanta decidevano a maggioranza. Certamente entrambi i metodi presentano pro e contro, ma quanto è realistico pensare che centinaia di persone raggiungano il consenso su base quotidiana?
Verso la federazione di comunità autogestite
Alcuni di quegli anarchici baresi gestirono per anni un comitato di quartiere – in cui si votava a maggioranza – che riprodusse incosapevolmente la divisione suggerita da Bookchin tra un organo decisionale (l'assemblea aperta agli abitanti del quartiere) e uno esecutivo-amministrativo (l'assemblea degli attivisti).6 Molti centri sociali presentano tutt'oggi simili strutture confermando quindi la base pragmatica delle idee di Bookchin, anche se a volte scomode. Per questo meritano di essere riscoperte e dibattute, e magari sperimentate creando, ad esempio, una federazione di centri sociali autogestiti. Una rete che si faccia promotrice, col supporto del movimento anarchico e attraverso una pratica quotidiana, di un cambiamento della società in senso libertario.
D'altra parte “non si può separare il processo rivoluzionario dall'obiettivo rivoluzionario. Una società fondata sull'autogestione deve essere raggiunta attraverso lo strumento dell'autogestione”.7
Note
1 Biehl, Janet. «Introduction». In The Murray Bookchin reader. London: Cassell, 1997.
1 Biehl, Janet. «Introduction». In The Murray Bookchin reader. London: Cassell, 1997.
2 Bookchin, Murray. Social Ecology And Communalism. Oakland-Edinburgh: Ak Press, 2007.
3 Bookchin, Murray. «Libertarian Municipalism: An Overview». Green perspectives, n. 24, 1991.
4 Gordon, Uri. Anarchy alive! London, Ann Arbor: Pluto Press, 2008, pp. 36-70.
5 Bookchin, Murray. «Thoughts on Libertarian Municipalism». Institute for Social Ecology, 26 agosto 1999.
6 Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica. «Dibattito politico 1 - I Consigli di Quartiere».
7 Bookchin, Murrray. «The forms of freedom». In Post-scarcity anarchism. Berkeley: Ramparts, 1971, p. 167.
Quella transizione necessaria
di Giorgio Nebbia
Gli scritti di Bookchin mostrano che è possibile soddisfare le necessità di una popolazione umana crescente attraverso una tecnologia ecologica.
Murray Bookchin si avvicina all'ecologia nella seconda metà degli anni quaranta, poco più che ventenne, nell'ambito del movimento ispirato da Josef Weber.
Nel 1948 William Vogt aveva pubblicato il libro: Road to survival, la prima analisi popolare dei rapporti fra popolazione, risorse, consumi e ambiente; pur non condividendo la tesi neo-malthusiana, che lo sfruttamento e l'impoverimento delle risorse naturali sia dovuto alla “eccessiva” popolazione del pianeta, Bookchin concorda con Vogt che il vero responsabile dei guasti del pianeta è il capitalismo. Il quale usa, a fini di profitto, le tecnologie più avanzate, i progressi nella produzione di concimi, i pesticidi, i nuovi materiali sintetici, il piombo tetraetile come additivo delle benzine, gli ormoni con cui è possibile far aumentare il contenuto in acqua e il peso degli animali e far guadagnare di più gli allevatori: tutte sostanze che, direttamente o indirettamente, passano poi nel corpo degli ignari consumatori.
Un'appassionata denuncia delle violenze di tale tecnologia è presente già nel saggio: The problem of chemicals in food, del 1952, pubblicato con lo pseudonimo Lewis Herber che Bookchin userà in molte altre pubblicazioni. Alla critica della tecnologia al servizio del potere Bookchin era arrivato anche attraverso l'opera di Lewis Mumford, il cui libroTechnics and civilization, del 1934, era molto popolare negli Stati Uniti.
La consapevolezza ecologica di Bookchin cresce negli anni cinquanta del Novecento, segnati dalla contaminazione planetaria con i frammenti radioattivi sparsi nell'atmosfera da centinaia di esplosioni sperimentali di bombe atomiche, dalla diffusione dei rifiuti di materie plastiche e di detersivi persistenti, dagli effetti dei pesticidi sintetici sugli esseri viventi; l'avvelenamento non riguarda più soltanto gli alimenti ma l'intero ambiente un tema che Bookchin affronta nel libro Our synthetic environment del 1962, uscito pochi mesi prima della pubblicazione del libro di Rachel Carson, Primavera silenziosa. Bookchin denuncia gli effetti nocivi sugli esseri umani delle varie sostanze tossiche immesse nell'ambiente dalle attività militari e industriali e insiste nel riconoscere il modo capitalistico di produzione come vera causa di tale avvelenamento.
La salvezza può essere ottenuta soltanto con una visione rivoluzionaria dell'ecologia, con una “ecologia umana”, e Bookchin è forse il primo a usare questo termine. Non è un rifiuto della tecnologia, ma una proposta di orientare la tecnologia e le innovazioni al servizio dell'uomo e non del profitto e dei soldi. Sull'onda della ricerca di una “tecnologia sociale”, proposta da Mumford, Bookchin parla di una Tecnologia liberatoria: è il titolo del libro del 1965. E la cerca proprio in tutti gli scritti successivi, nell'analisi della crisi urbana, in nuovi rapporti fra città e campagna, nelle nuove forme di agricoltura ispirate dall'inglese Albert Howard; non si tratta di rifiutare la tecnica: gli esseri umani hanno dei bisogni materiali che condizionano anche il diritto alla libertà e la dignità, e per soddisfare tali bisogni occorre produrre dei beni materiali dalla natura con la tecnica e il lavoro.
Una visione originale e attualissima; da decenni, pur con alterne vicende, stiamo vivendo in un mondo che si sforza di aumentare la disponibilità di merci e macchine con un crescente sfruttamento delle risorse naturali. Le innovazioni tecniche consentono di avere crescenti e sempre nuovi oggetti, di moltiplicare i bisogni artificiali dei paesi opulenti, un modello che il libero mercato e la globalizzazione cercano di diffondere nei paesi emergenti e in quelli ex-comunisti. Ricchi e poveri schiavi di bisogni artificiali e complici nell'impoverimento e nell'inquinamento dei corpi inorganici e degli stessi viventi. Ne sono una riprova i mutamenti climatici dovuti all'aumento della concentrazione di alcuni gas nell'atmosfera, un fenomeno di cui parlava già mezzo secolo fa Bookchin. Più merci, più gas climalteranti, più siccità e desertificazione, più piogge improvvise che allagano la pianure e le città e fanno franare le valli e le colline in cui l'avidità e la speculazione private hanno ostruito le vie di scorrimento delle acque.
Gli scritti di Bookchin mostrano che è possibile soddisfare le necessità di una popolazione umana crescente attraverso una tecnologia ecologica. Si tratta di riprogettare le città e i dintorni, di diffondere abitazioni e servizi nel territorio, di ripensare i mezzi di trasporto, di progettare le merci sotto i vincoli di un minore consumo di acqua, di energia, di materie prime. Di ripensare l'agricoltura, unica fonte del cibo, superando l'agricoltura industriale, facendo evolvere l'agricoltura contadina in una nuova agricoltura, una “terza agricoltura” come propone Pier Paolo Poggio, capace di produrre sufficiente cibo per tutti con minore alterazione della natura e delle sue risorse.
Una transizione che richiede innovazioni e tecnologia. E che una tecnologia libertaria possa essere liberatoria è mostrato anche dal fatto che le opere di Bookchin oggi possono essere lette dovunque, anche a casa propria, grazie a Dana Ward, del Pitzer College di Claremont, California, fondatore degli Anarchy Archives telematici (www.dwardmac.pitzer.edu).
Un pensatore sottovalutato
di Ermanno Castanò
Dopo una giovanile militanza trotzkista, era diventato anarchico. Fondatore della social ecology, è stato uno dei pensatori più originali. All'incrocio tra anarchismo, ecologia e comunitarismo.
Murray Bookchin non è mai stato un intellettuale accademico. E questo non ha certamente favorito l'accostamento del suo nome a quello dei pensatori più noti del panorama americano recente come Noam Chomsky, John Searle o Richard Rorty. È raro, infatti, trovarlo menzionato in studi filosofici di un certo rilievo; ma spesso si sorvola con troppa facilità e un pizzico di snobismo sulle problematiche che Bookchin ha sollevato in una vita di ricerca intellettuale e militanza politica. Ed è proprio sull'importanza di tale intreccio che le righe che seguono si soffermeranno.
Michel Foucault, in un noto dibattito televisivo, accusò Noam Chomsky di separare nettamente la sua implacabile militanza dalla riflessione filosofica, come se le due appartenessero ad ambiti separati ed eterogenei fra loro. Al contrario i testi di Foucault si comprendono meglio se si guardano non solo come studi teorici innovativi, ma anche come attrezzi per scardinare certi rapporti di potere.
Ecco, pure se Bookchin non ha mai espresso simpatie per Foucault (ne ha anzi criticato la visione della storia come casuale e imprevedibile preferendo una razionale progettualità politica), si potrebbe dire che il filosofo francese non avrebbe potuto muovergli l'accusa rivolta a Chomsky. Tutti i testi di Bookchin, infatti, sono nati all'interno di percorsi di lotta ed elaborazione teorica volti a trasformare lo stato di cose presente. Sin dall'inizio, quando il pensatore americano era un marxista vicino al movimento operaio e iniziava a far circolare i primi opuscoli sotto pseudonimo.
Questa esperienza che lo portò ad avvicinarsi alla scuola di Francorte (che lasciò su di lui un'impronta durevole), produsse nel 1962 il primo testo bookchiniano di una certa importanza: Our Synthetic Environment. Il libro descrive un capitalismo capace ormai di manipolare completamente l'ambiente e di piegarlo ai propri interessi fino a generare una contraddizione profonda fra natura e umanità. Questo ambiente sintetico a disposizione dell'industria fa sì che tutta la natura venga ridotta a risorsa a uso della società consumistica. Ma la posizione di superiorità raggiunta in tal modo dall'uomo si rivela, a uno sguardo più attento, meno comoda di come possa apparire. Sottomettendo la natura a tale regime, l'uomo vi sottomette anche la propria, la quale diviene, per l'industria, semplice risorsa umana. Inoltre, a lungo andare, distruggendo le basi biologiche della vita, egli rischia addirittura di distruggere se stesso.
La cosa più strabiliante di questo libro, che per primo ha inteso sollevare la questione ambientale nei movimenti sociali, è che riesce a conciliare un'intenzione pratica (radicale) e un pensiero chiaramente ispirato a filosofi del calibro di Adorno o Heidegger.
Negli anni '70 esce una raccolta di brevi scritti e opuscoli intitolata Post-scarcity Anarchism che mette insieme l'impronta francofortese con un certo spirito situazionista. In questi testi Bookchin si distanzia nettamente dalle posizioni dei marxisti americani di allora per virare verso un utopismo libertario che non abbandonerà più. Il punto focale della polemica era la tecnologia di cui alcuni auspicavano la concentrazione nelle mani degli organismi rivoluzionari e altri invece la distruzione. Al di là di queste posizioni Bookchin sostenne l'esigenza di riconvertire la tecnologia (eolico, fotovoltaico, ecc.) in modo ecologico e locale e di usarla per gli scopi di una società libera ed egualitaria sottraendola sia allo sfruttamento capitalistico che alle gerarchie statali.
Nello stesso periodo I limiti della città descrive l'orizzonte asfittico delle metropoli contenporanee che, a differenza delle poleis greche e delle città rinascimentali, hanno espulso dal proprio spazio urbano tanto la vita animale dell'oikos quanto quella politica dell'agorà e, oggi, non sono altro che lo spazio della produzione e del consumo alienati in cui oikos e agoràscompaiono e si confondono.
Di lì a poco si inizieranno a diffondere in America e nel resto del mondo le idee dell'ecologia profonda e del neoprimitivismo con cui Bookchin non smetterà mai di polemizzare.
Il dominio e la libertà
Negli anni '90 l'elaborazione teorica si fa più rigorosa e ricca. Mentre Bookchin fonda l'Institute for Social Ecology, nel Vermont, escono libri come Filosofia dell'ecologia sociale, Democrazia diretta e L'ecologia della libertà. Quest'ultimo in particolare si presenta come un testo simile a Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt e a Dialettica dell'illuminismo di Adorno e Horkheimer, di cui eredita il metodo storico filosofico. Caratterizzato da una grande erudizione e dalla vastità delle fonti, il libro propone una ricostruzione della storia del dominio sulla natura che discende sino agli albori dell'umanità quando l'uomo inizia a costruire la civiltà sottomettendo a sè le forze naturali (esteriori e interiori) per ritrovarsi, nel corso del suo sviluppo, sempre più asservito alle stesse tecniche che lo “liberano” dalla necessità. Il perchè di un tale esito sta nel fatto che, insieme alla crescita della civiltà, sta anche quella di una società di classe che fa del dominio sull'uomo il proprio orizzonte invalicabile.
Il dominio non si limita al solo sfruttamento e sottomissione esteriori, ma è qualcosa di più profondo: è un modo di pensare (un'epistemologia) e un modo di concepire l'essere (un'ontologia) che fondano la pratica.
L'ecologia della libertà propone, però, (caso quasi unico insieme, oggi, all'ultimo capitolo di Homo sacer di Giorgio Agamben) non solo la ricostruzione dell'emergenza del dominio, ma anche di quella delle forze che gli si oppongono e che hanno aperto strade diverse, per quanto frammentarie. Dalla polis antica alle società tribali, dai comuni medievali alle lotte contro le enclosures (che opponevano l'uso alla proprietà), dalle rivolte operaie e contadine ai movimenti ecologisti, la libertà ha provato a percorrere strade inedite e, quando è stata radicale, a elaborare una propria epistemologia e una propria ontologia. E anche se queste hanno spesso perduto, i loro frammenti giacciono per essere raccolti e usati ancora contro il dominio.
Il dominio e la libertà nascono insieme e si fronteggiano lungo tutte le varie diramazioni della storia che altro non è che il risultato di queste lotte, delle vittorie, delle sconfitte, delle memorie e delle rimozioni. Per questo non esiste una posizione neutrale per gli intellettuali, poiché tale lotta ha anche una valenza culturale. O di qua o di là: l'intellettuale deve scegliere, in fondo, da che parte stare.
Oggi, secondo Bookchin, è la volta delle lotte ecologiste perché è sulla faglia fra il potere e la vita che si gioca il presente. La vita intera è esposta al pericolo della distruzione a causa delle devastazioni sociali e ambientali dello sfruttamento capitalistico. Ma qui i suoi oppositori devono fare attenzione: così come l'ontologia di fondo che vede la natura (i corpi) come inferiore e sottoposta alla ragione non è nata col capitalismo, ma molto tempo prima, allo stesso modo essa potrebbe sopravvivergli e rimodularsi in nuove forme, proprio come è successo nel cosiddetto socialismo reale. Gli attuali movimenti ecologisti, se vorranno essere veramente radicali e inaugurare una nuova forma di vita, dovranno essere capaci di destituire tale ontologia economica dalle radici lontane e di revocare la stessa divisione fra una vita razionale che comanda e una vita corporea che, per accedere alla civiltà, deve essere dominata.
L'irripetibile occasione che, secondo Bookchin, caratterizza la società odierna sta nel fatto che proprio laddove più cresce il pericolo della crisi ecologica, cresce pure la scienza (l'ecologia) capace di rovesciare tale situazione e favorire una società in cui la politica (l'autogestione della comunità per mezzo di assemblee) si sovrapponga alla vita naturale (l'animalità e la natura) senza residui.
Negli ultimi anni Bookchin si è dedicato a potenziare i mezzi di questa controstoria raccogliendo in grandi volumi la storia delle rivoluzioni del Novecento, in particolare della rivoluzione spagnola del '36.
I tanti volti dell'ecologismo
Qual è allora l'importanza di Murray Bookchin e perché sarebbe un pensatore sottovalutato? La risposta non può che essere molteplice. Come abbiamo visto egli ha portanto avanti una ricerca che non ha avuto solo una valenza teoretica, ma anche politica e sociale. Ma non basta. A partire da autori come, fra gli altri, Arendt o Marcuse egli ha studiato le connessioni fra il potere e la vita con esiti prossimi alla biopolitica di Foucault, ha usato un metodo archeologico che tiene assieme l'aspetto ideale e quello materiale, ha poi sviluppato tali elementi in una direzione paragonabile a quella attualmente percorsa da Agamben: dal governo dei viventi all'origine teologica dell'economia, dal dispositivo della crisi alla forma di vita.
La sua visione utopica di una società ecologica è un punto d'incontro fra la critica del capitalismo di Marx e la critica dello stato di Kropotkin e Fourier, in cui la vita non è più separata e amministrata dagli apparati di governo, ma ha riguadagnato la propria valenza politica, comunitaria e armonica con la natura. Una visione che si è disseminata nei più svariati movimenti ambientalisti: da Occupy Wall Street ai No Tav, dai centri sociali alle lotte contro il fracking (fratturazione idraulica, tecnica utilizzata per estrarre il gas naturale – n.d.r.).
Ma forse il caso più eclatante fra tutti questi è stato il fatto che le idee di Bookchin sono state riprese nel 2012 dai rivoluzionari dei cantoni curdi del Rojava (in Siria) che stanno provando a costruire un confederalismo democratico che si ispira direttamente al suo municipalismo libertario. Laddove lo stato siriano è imploso in una guerra civile alimentata dalla volontà capitalistica di saccheggio delle risorse, i rivoluzionari sono riusciti a mettere in piedi un paradigma di società alternativo tanto al fascismo integralista dell'Isis quanto al capitalismo liberale. Le comuni dei cantoni del Rojava (quella più famosa è Kobane) hanno, infatti, abolito la società di classe, il patriarcato, lo sfruttamento della natura e l'organizzazione statale per autogestire le comunità in modo assembleare e antiautoritario, interetnico ed ecologista (fino al punto di rifiutarsi di estrarre il petrolio) tentando di garantire pace e benessere alle popolazioni dell'area nel pieno rispetto della natura.
Insomma, il nuovo millennio non si è aperto sotto i migliori auspici e col tempo la situazione sembra peggiorare. Se il secolo sarà deleuziano, foucaultiano o altro, non lo sappiamo. Sta di fatto che certamente sarà anche un po' bookchiniano: poiché se l'oligarchia capitalistica distruggerà il mondo a forza di sfruttarlo o se al contrario l'umanità riuscirà a costruire una società ecologica e libertaria, in ogni caso Bookchin ve l'aveva detto.
Tecnologia e decentramento
di Murray Bookchin
A questa esigenza di creare un movimento municipalista libertario l'ecologia sociale ha portato una dimensione originale e nel contempo imperativa. La necessità di ridimensionare le comunità umane in modo da adeguarle alle risorse naturali del territorio in cui si trovano e di instaurare un nuovo equilibrio tra città e campagna (temi tradizionali del pensiero utopico e anarchico del diciannovesimo secolo) è diventata oggi ecologicamente imprescindibile. Non rappresenta soltanto il perdurare dell'utopismo di ieri o i sogni e i desideri di alcuni pensatori solitari, bensì è diventata la condizione necessaria perché la specie umana possa continuare a esistere, in armonia con un mondo naturale complesso e minacciato di distruzione. In effetti l'ecologia ha posto nettamente questa alternativa: o ci volgiamo alle soluzioni, solo apparentemente utopiche, basate sul decentramento, su un nuovo equilibrio con la natura e sull'instaurazione di rapporti armonici nella società, o dovremo affrontare Io sconvolgimento delle basi materiali e naturali della vita umana su questo pianeta.
L'urbanizzazione minaccia anche la campagna, non solo la città. Il famoso contrasto tra città e campagna che tanto rilievo ha avuto nella storia del pensiero sociale, è oggi del tutto privo di senso, superato dall'invasione del cemento anche in aree a vocazione agricola e in comunità rurali di grande valore storico. L'omogeneizzazione delle culture rurali a opera dei mezzi di comunicazione di massa, del diffondersi dei modelli esistenziali urbani e di una pervasiva mentalità consumistica minaccia non solo di distruggere modi di vivere peculiari con una lunga tradizione storica, ma di devastare completamente il panorama naturale. Ciò che l'agribusiness non ha ancora avvelenato con i suoi pesticidi e fertilizzanti o impoverito con i suoi macchinari che compattano il suolo, viene distrutto dalle piogge acide, dall'alterazione climatica di origine sociale, dal disboscamento e dalla crescente aridità. L'urbanizzazione del pianeta, eliminando strati di suolo che hanno richiesto millenni per formarsi, riducendo a una finzione la vita selvaggia e alterando in senso peggiorativo, anche se a volte indirettamente, il clima di interi territori, comporta infatti una drammatica semplificazione dei complessi ecosistemi esistenti.
La tecnologia ereditata dalle precedenti rivoluzioni industriali, l'uso insensato di veicoli a motore individuali, la concentrazione di strutture industriali gigantesche vicino ai corsi d'acqua, il continuo ricorso a combustibili fossili e nucleari e un sistema economico che ha per unica legge la crescita, tutto ciò non mancherà di produrre in pochi decenni un degrado ambientale mai visto prima. Quasi tutti i nostri corsi d'acqua sono stati trasformati in fogne, e persino negli oceani sono state scoperte «zone morte» che si estendono per centinaia di miglia. Non è il caso di insistere con questa fosca litania delle continue e forse mortali ferite inflitte ovunque al nostro pianeta, anche perché i danni perpetrati nell'atmosfera allo strato protettivo di ozono sono risaputi, al pari di quelli che colpiscono le aree più remote del globo, come l'Artico e l'Antartide, o le antiche foreste tanto delle zone temperate quanto di quelle equatoriali.
Congestione, rumore, stress
Al di là della nostra esigenza di vivere una vita pienamente umana in base alla visione libertaria che ci muove, è la stessa sopravvivenza umana che ci impone di rivedere il processo di urbanizzazione in atto, la relazione tra le città e il loro substrato ecologico, il rapporto tra la tecnologia e i beni che produce, e in definitiva la nostra stessa concezione di natura. Per realizzare le nostre concezioni libertarie, ma anche per garantire le esigenze più elementari di un'esistenza che sia in qualche modo in equilibrio con la natura, abbiamo bisogno di città più piccole. I giganteschi agglomerati urbani generano omogeneità culturale, anonimato individuale e potere centralizzato, e inoltre danneggiano insostenibilmente le risorse idriche, l'aria che respiriamo e tutte le caratteristiche naturali delle aree che occupano. Congestione, rumore e stress (tipico prodotto dalla vita urbana di oggi) stanno diventando sempre più intollerabili, a livello psichico oltre che fisico. Le città che un tempo riunivano sotto l'egida di una medesima solidarietà comunitaria individui di varia provenienza, oggi atomizzano i propri abitanti. La città contemporanea è un luogo nel quale nascondersi, non l'occasione per ricercare la vicinanza degli altri esseri umani. La paura tende a sostituirsi alla socialità, la scortesia inghiotte la solidarietà, l'ammassarsi della gente in edifici, mezzi di trasporto, uffici e ipermercati, sovverte il senso dell'individualità e porta all'indifferenza verso la condizione umana.
Il decentramento delle grandi città in comunità a misura umana non è dunque il sogno romantico di un solitario amante della natura, né un remoto ideale anarchico. È invece un obiettivo indispensabile per una società ecologicamente stabile. Bisogna scegliere tra un ambiente in rapido degrado, che finirà per compromettere l'integrità e la complessità delle forme di vita del pianeta, e una società capace di vivere in equilibrio con la natura.
Lo stesso può dirsi dell'esigenza di riconsiderare la base tecnologica della società attuale. La produzione non può più essere vista come una fonte di profitto o il conseguimento di interessi personali. I beni di cui gli esseri umani necessitano per la propria sopravvivenza, oltre che per il proprio benessere fisico e culturale, sono ben più importanti dei feticci mistificati con cui ci abbagliano le varie religioni e i tanti culti superstiziosi. Il pane è più «sacro» di una benedizione sacerdotale; i vestiti di tutti i giorni sono più «sacri» dei paramenti ecclesiastici; il luogo in cui si abita ha un significato spirituale più denso di qualsiasi chiesa o tempio; vivere bene su questa terra è più santificante che andare in paradiso. I mezzi di sussistenza devono essere considerati per quello che sono realmente: strumenti senza i quali la vita è impossibile. Negarli al popolo è più che un furto, per usare l'espressione di Proudhon, un omicidio. Nessuno ha il diritto - moralmente, socialmente o ecologicamente - di possedere beni dai quali dipende la vita altrui, né di imporre alla società tecnologie che danneggino la salute di altri esseri umani o del pianeta.
Ed è qui che l'ecologia si compenetra con la società per diventare ecologia sociale, sottolineando la stretta interdipendenza tra problemi sociali ed ecologici. La tecnologia, che dovrebbe essere usata per sostenere la vita umana e planetaria e che invece oggi mette in pericolo entrambe, costituisce uno dei più importanti punti di contatto tra valori sociali e valori ecologici. In un'epoca di degrado ecologico galoppante e diffuso, non è più accettabile mantenere tecniche che danneggiano spudoratamente gli esseri umani e il pianeta tutto.
Una delle maggiori tragedie della nostra epoca è che la tecnica non è più considerata da un punto di vista etico. Nel pensiero greco, produrre oggetti di qualità e di fattura artistica era un impegno morale che instaurava una speciale relazione tra l'artigiano e l'oggetto prodotto. Per molti popoli tribali, la manifattura di un oggetto corrispondeva alla messa in atto delle potenzialità insite nel materiale grezzo, dando così alla pietra, al marmo, al bronzo, una «voce» attraverso cui venivano espresse le latenti capacità estetiche della materia prima.
Egoismo illimitato
Il capitalismo ha completamente eliminato questo modo di pensare. Ha separato il produttore dal consumatore, cancellando ogni senso di responsabilità etica del primo nei confronti del secondo e mettendo da parte ogni altro tipo di considerazione morale. L'unica dimensione morale ammessa nella produzione capitalista è la presenza della cosiddetta «mano invisibile» del mercato, la quale guida l'interesse individuale in modo che la produzione a scopo di profitto finisca per generare il «bene comune». Ma anche tale miserabile giustificazione è del tutto scomparsa oggi. Un egoismo illimitato, altro esempio della presenza di un'etica del male, ha sostituito ogni rispetto per il bene pubblico. Sebbene possa apparire facile dare alla tecnologia colpe che vanno invece addebitate agli interessi delle élite dominanti, bisogna comunque ammettere che sotto il capitalismo anche la tecnica, liberata da ogni limitazione di tipo morale, può diventare demoniaca. Una centrale nucleare, ad esempio, è un male in sé, non ha alcuna giustificazione per la sua esistenza. E nessuno può più dubitare che la proliferazione di impianti nucleari - e quanto più ce ne sono, tanto più la probabilità di incidenti come quello di ernobyl' aumenta - può a un certo punto trasformare l'intero pianeta in una colossale bomba nucleare.
Oltretutto, la dislocazione di quelle che erano le lavorazioni industriali convenzionali ha ulteriormente aggravato il degrado ecologico. L'agribusiness, che un tempo era un'attività marginale rispetto alle aziende agricole di tipo familiare, si è talmente diffuso negli ultimi tempi da provocare seri problemi globali legati all'uso di pesticidi e fertilizzanti sintetici. La continua emissione di fumi industriali e l'uso sconsiderato delle automobili private stanno modificando l'intero equilibrio ecologico naturale, in particolare quello dell'atmosfera. Basta un rapido esame dell'attuale panorama tecnologico per rendersi conto di quanto sia acuta la necessità di una sua ristrutturazione. Interessi non solo ecologici ma di pura sopravvivenza umana impongono il ricorso a tecnologie compatibili che rendano il nostro rapporto con la natura creativo e non distruttivo.
Mi sia concesso ripetere ancora una volta che tale cambiamento non può prodursi senza che avvenga una concomitante mutazione nei rapporti umani, a partire dall'individuazione di un interesse generale che superi gli interessi particolari legati alla gerarchia, alla classe, al genere, all'etnia e alla nazione. I presupposti per un rapporto armonico con la natura sono di tipo sociale, ovvero implicano l'instaurazione di rapporti armonici tra gli esseri umani. Il che postula l'abolizione non solo della gerarchia in tutte le sue forme (anche psicologiche e culturali, oltre che sociali), ma anche delle classi, della proprietà privata e dello Stato.
Il passaggio da «qui» a «là» non avverrà certo grazie a un'improvvisa esplosione, ma implicherà una lunga preparazione intellettuale ed etica. C'è bisogno di un percorso di apprendimento approfondito se sono gli individui a dover cambiare la propria esistenza, in prima persona, senza più affidarsi a élite autonominatesi che tendono inevitabilmente a trasformarsi in oligarchie. La sensibilità, l'etica, il modo di vedere la realtà, il senso di sé devono cambiare attraverso modalità educative, argomentazioni razionali, sperimentazioni che mettono in conto la possibilità di imparare dai propri errori: solo questo consentirà all'umanità di raggiungere la coscienza necessaria per la propria autogestione.
È necessario creare una nuova politica
I movimenti radicali non possono più accontentarsi irriflessivamente di un'azione che è ormai fine a se stessa. Mai come oggi c'è bisogno di approfondimento teorico e di studio, proprio perché l'incultura politica ha raggiunto proporzioni spaventose e l'azione è ormai stata trasformata in un feticcio. Abbiamo anche bisogno di capacità organizzative, non di quel caos nichilista dove ogni tipo di struttura è liquidata come «elitaria» e «centralistica». La tenacia, il duro lavoro quotidiano necessario alla costruzione di un movimento, servono assai più che i gesti teatrali di certe primedonne, che aspirano a «morire» sulle barricate di una remotissima rivoluzione, ma che si reputano troppo duri e puri per dedicarsi al banale tran-tran di diffondere, le idee e tenere in piedi una rete organizzativa.
Passare da «qui» a «là» è un processo, non un'azione esemplare. E sarà sempre segnato da incertezze, fallimenti, deviazioni e dispute prima di trovare la sua direzione. Né è detto che lo spazio di una vita sia sufficiente perché si verifichi una mutazione radicale. I rivoluzionari di oggi devono trarre la propria ispirazione dai grandi idealisti del passato, in particolare della storia francese o russa, che pur sapendo di avere poche probabilità di assistere ai sommovimenti da loro auspicati, si sono comunque adoperati con tutto il loro impegno e convincimento per farli accadere. La volontà rivoluzionaria infatti non è solo un impegno per cambiare il mondo: è anche un imperativo interiore a salvaguardare la propria identità dalla corruzione di una società che degrada la personalità umana con la promessa di denaro e status in un mondo totalmente privo di senso.
È necessario creare una nuova politica che sappia sfuggire alle trappole del parlamentarismo e alle subdole gratificazioni offerte dai media. Movimenti come i Verdi tedeschi sono già saturi di vedettes che inseguono il successo personale, distruggendo l'integrità, l'etica e lo slancio dei loro tempi eroici. Questi nuovi programmi politici devono essere elaborati a partire dall'effettiva situazione ambientale in cui le persone vivono: la struttura abitativa, i problemi del quartiere, l'accessibilità ai trasporti, il tasso di inquinamento, le condizioni sul luogo di lavoro. Il potere deve essere continuamente restituito ai quartieri e alle municipalità, sotto forma di centri comunitari, cooperative, agenzie per l'occupazione e soprattutto assemblee cittadine.
Il successo non è da misurarsi in funzione del favore immediato che un movimento di questo tipo riesce a ottenere. Inizialmente solo un numero relativamente ridotto di persone lavorerà con un simile movimento, e pochi parteciperanno alle assemblee di quartiere e alle confederazioni municipali, eccetto forse quando si affrontano temi di particolare rilevanza pubblica. Le vecchie idee e i metodi interiorizzati nella vita di tutti i giorni sono lenti a morire, e i nuovi sono lenti a crescere. Può accadere che gruppi di iniziativa civica animati da grande fervore compaiano all'improvviso quando una comunità si trova ad affrontare problemi come l'installazione di una centrale nucleare o la scoperta di una discarica di materiale tossico. Ma un movimento municipalista a orientamento ecologico non deve mai illudersi che tali iniziative di massa siano necessariamente destinate a durare: possono infatti svanire altrettanto rapidamente di come sono comparse. L'unica speranza è che contribuiscano comunque a sedimentare una tradizione cui far riferimento in futuro e che l'attività educativa così svolta resti patrimonio della comunità.
Esplicitare i propri ideali
Contemporaneamente, i membri più impegnati di un tale movimento devono anche essere in grado di offrire una visione di ciò che la società potrebbe diventare in futuro. Ovvero devono non solo saper guardare lontano, in modo che altri siano spinti a realizzare quegli obiettivi, ma essere anche capaci di fornire soluzioni storicamente valide oltre che pratiche. È sempre la società a dettare le regole del gioco, alle quali anche i ribelli meglio intenzionati devono attenersi. Se non lo si tiene sempre ben presente, è più facile cadere in compromessi moralmente debilitanti, basati su una ricerca del male minore che conduce invece al male peggiore. Nessun movimento rivoluzionario può perdere di vista la sua visione ultima di una società ecologica, se non vuole perdere, un pezzetto alla volta, tutti gli elementi della sua stessa identità.
Una tale impostazione deve essere espressa in modo chiaro e inequivocabile in modo da non poter mai essere oggetto di compromessi. La fumosità della visione ultima di socialisti e marxisti ha apportato danni irreparabili permettendo che gli obiettivi finali di quella visione potessero essere piegati alle esigenze di una politica «pragmatica», fino alla rinuncia della stessa ragion d'essere di quei movimenti. Viceversa, ogni movimento deve chiaramente esplicitate i propri ideali, in modo che essi possano entrare a far parte di un nuovo immaginario politico e non si riducano a mere dichiarazioni programmatiche. Un approccio di questo tipo è stato attuato in passato, con discreto successo, da un gruppo come People's Architecture, che si è preso la briga di ripianificare interi quartieri di Berkeley, in California, dimostrando praticamente come potevano essere resi più abitabili, comunitari ed esteticamente attraenti.
Questo testo di Bookchin è un capitolo del volume Per una società ecologica edito da Elèuthera. Lo riproduciamo al termine di questo dossier, evidenziando ancora una volta la ricca problematicità della visione bookchiniana, tesa sempre a unire la riflessione teorica con la possibile soluzione dei mille problemi della società attuale.
Questo testo di Bookchin è un capitolo del volume Per una società ecologica edito da Elèuthera. Lo riproduciamo al termine di questo dossier, evidenziando ancora una volta la ricca problematicità della visione bookchiniana, tesa sempre a unire la riflessione teorica con la possibile soluzione dei mille problemi della società attuale.
Fonte: arivista.org
Originale: http://arivista.org/?nr=413&pag=104.htm#2
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