di Fabrizio Casari
Sono essere ore decisive per le decisioni in casa PD. La speranza della sinistra interna di trovare nel Renzi sconfitto disponibilità all’ascolto e autocritica, si è presto esaurita. Prevale infatti la consapevolezza di come il capo del PD intende rafforzare e non ridiscutere la morsa sua personale e del suo gruppo di fedelissimi su partito e governo. In direzione si è presentato come niente fosse, come se il referendum non l’avesse spedito all’angolo. Ha offerto una lettura politica elementare, priva di spessore analitico e, per giunta, arrogante e sfacciata nella rovesciamento della realtà e nel rimpallo delle responsabilità.
Ha imposto un congresso rapido, privandolo dei tempi necessari per la discussione di documenti alternativi in tutte le sedi di partito, proprio per evitare che il dissenso possa crescere e che il quadro interno possa ricomporsi privandolo del potere assoluto di cui oggi dispone. Infatti propone un congresso per modo di dire, una sorta di gazebata, una parata che ha come solo obiettivo costringere ad andarsene tutti coloro che non tollerano ulteriormente la gestione privata del PD.
Due i suoi obiettivi: uno dare il via alle manovre per cacciare Gentiloni da Palazzo Chigi, preoccupato dal crescente consenso che il suo ex ministro degli Esteri riscuote nei palazzi che contano, avendo svelenito il paese dalla rissa quotidiana che il giglio magico imponeva. Lasciarlo fino al 2018 potrebbe determinare l’erosione di Renzi e il rischio che molti nel partito pensino che Gentiloni possa essere un candidato più affidabile e meno divisivo. Il secondo, complementare, asfaltare definitivamente la sinistra del PD.
Quest’ultima, da parte sua, sebbene ancora incerta sulla tattica da adottare, è ormai consapevole di come i margini di dialogo interno siano esauriti. Manca tuttavia di capacità di comunicare le sue intenzioni. D'Alema, tra tutti, pare essere quello con le idee più chiare. Ma si registrano anche ambiguità da parte di alcuni (tra questi Pisapia) e così, tra pontieri improvvisati e l’assenza di una posizione comune nella sinistra, diventa più difficile la ricerca di un leader in grado di emergere.
Ma tutto sommato questo è un aspetto al momento secondario. Quello che invece per la sinistra del PD sarebbe necessario porre sul tavolo, qui ed ora, è se si vuole ricostruire un partito della Sinistra o no. L’Italia non ne ha e la deriva centrista del PD è ormai evidente.
Tanto le riflessioni di D’Alema, come quelle di Rossi e, anche se in modo più sfumato, quelle di Bersani, hanno posto la questione vera all’ordine del giorno: ovvero natura, identità e percorso del centrosinistra e, in maniera più precisa, della sinistra italiana. Indugiare serve a poco: la globalizzazione non ha mantenuto le sue promesse. La teoria economica sulla quale si è sostenuta, il neoliberismo monetarista, ha fallito, lasciando un campo di macerie. Mancata crescita economica e deflazione, distruzione di ogni forma di politiche pubbliche che hanno minato il senso stesso dell’organizzazione sociale, esiti rovinosi sulla stessa stabilità politica continentale, ne sono il portato.
Oggi, come già negli anni ’30, le risposte che sembrano sedurre centinaia di milioni di persone preoccupano, perché vedono il ritorno di una destra fascista e pericolosa, capace di attrarre un ceto medio impoverito e i ceti popolari schiacciati dalle politiche liberiste. Come poter fungere da argine a questa minaccia?
Il centrosinistra, purtroppo, non rappresenta l’alternativa, né sostiene e rappresenta le vittime di un modello di sviluppo che, per sua stessa genesi e conformazione, aumenta a dismisura ingiustizie e forbice sociale, concentrando ricchezze enormi in sempre meno mani e consegna alla povertà ed alla precarietà la gran parte delle nostre società. E’ quindi alla rifondazione della sinistra che si deve lavorare.
Qui e non altrove deve stare la discussione su scissione si o no: il PD a guida Renzi, che ha per modello i Marchionne, i Briatore e i Davide Serra, che come idea di governo insegue le suggestioni dell’uomo solo al comando può rappresentare quanto detto? Ovvero una cultura critica capace di riportare nell’agenda politica i temi dell’uguaglianza, dello sviluppo e della giustizia sociale?
Diceva Bersani, che la ditta la conosce, che il PD “è detestato”, che “la scissione con il nostro popolo c’è già stata”. Verissimo. E allora ci si deve chiedere senza reticenze o sconti: si può ricostruire una connessione sentimentale con un elettorato che si sente tradito e innescare su essa la battaglia per fermare la destra più rozza, ignorante e scalcinata (ma pericolosissima) mai vista negli ultimi 35 anni?
Allora sarebbe opportuno uno sforzo tutto politico e meno nominalistico, che dovrebbe prevedere un documento politico, un manifesto d’intenti nel quale possano riconoscersi i diversi luoghi di una sinistra ad oggi frammentata e dispersa che può evolversi in una unica voce solo cominciando a discutere insieme. L’unità si fa sui contenuti, l’aspetto organizzativo marcia di pari passo alla chiarezza degli obiettivi.
E se il timore è la presunta assenza di leadership, si tenga a mente il dato più evidente e, insieme, il più occultato: la maggioranza del partito è schierata con Renzi (per ora), ma fuori dal PD la situazione è completamente diversa. Renzi e l’uomo più detestato, trasversalmente, dall’elettorato che rappresenta la parte sociale che dovrebbe in primo luogo interessare il PD. Nessuno dei leader politici italiani in così poco tempo è riuscito a passare dall’illusione alla delusione e quindi al fastidio epidermico dell’elettorato. Una vera e propria crisi di rigetto verso un politico percepito come ambizioso ed assetato di denaro e potere, dedito unicamente a sistemare se stesso e il giglio magico nelle sfere che contano,a drenare influenze e interessi allo scopo di accrescere il peso della sua lobby.
E sullo sfondo emerge prepotentemente un tema collegato. In un sistema maggioritario, con tendenza bipolare, un processo come la fusione fredda che diede vita al PD aveva una sua logica. Ma in un paese tripolare, che produrrà una legge elettorale di tipo proporzionale, a cosa serve il PD? Confondere il grosso con il grande è già sintomo di confusione, ma scambiare il grosso con l’utile è davvero un errore esiziale.
Nel fuori onda di Del Rio si ascoltava che la scissione porterebbe ad un crollo; è vero, e non solo per perché con l’uscita della sinistra non avrebbe più senso nominalistico un partito di centrosinistra, ma anche perché il PD si rivelerebbe uno strumento utile solo al progetto di ricostruzione di un centro alleato con la destra, così come da progetto renziano. Siamo di fronte ad una fase politica nuova che abbisogna di nuove letture e nuovi strumenti, di nuovi soggetti politici calibrati sulle esigenze di rappresentanza e di governabilità.
L’uscita della sinistra dal PD sarebbe un deciso acceleratore del progetto di Renzi, ovvero l’ambizione di farne la DC 4.0. Progetto fondato sull’aggancio dell’elettorato di Forza Italia, inaugurato con il patto del Nazareno e proseguito con il governo insieme ad Alfano e Verdini. Ciò determinerà però un elemento di veridicità e semplificazione del sistema politico, ma le uscite diverrebbero valanghe, per stare alla metafora di Del Rio.
Non è la ricostruzione della sinistra che dovrà fare i conti con il consenso elettorale, bensì il PD senza più la sua sinistra. Non è quindi chi va via che ha da temere, bensì chi resta. Lo spazio politico per la sinistra, invece, c’è. Ma va occupato senza perdere altro tempo.
Fonte: fuoripagina.it
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