di Aldo Tortorella
Fino a poco tempo fa l’esigenza posta anche, ma non solo, da questa rivista, e cioè quella di rifare i fondamenti anche teorici di una possibile sinistra, era parsa a chi si occupa di queste cose una sollecitazione puramente astratta. Una sinistra maggioritaria c’è già in Italia e in Europa, si diceva, e fuori di quella sono possibili solo i rissosi gruppetti che si conoscono. Ma di fronte alle progressive disfatte delle destre socialdemocratiche qualcosa è cambiato anche in coloro che hanno fin qui sostenuto come vangelo la conversione al liberismo delle tendenze di sinistra. Diversi dei più noti editorialisti dei maggiori quotidiani italiani, infatti, si sono venuti accorgendo del volgere verso l’irrilevanza delle attuali socialdemocrazie in tutta Europa e, dunque, vengono alludendo a un bisogno di rifacimento.
D’altronde era divenuto difficile non vedere: il crollo di Hollande, i tedeschi al servizio della Merkel, gli spagnoli spaccati e in maggioranza per il governo centrista, le molteplici sconfitte nei paesi minori, l’avanzare ovunque nell’elettorato popolare, a loro danno, di movimenti di protesta o, peggio, delle destre nazionaliste.
D’altronde era divenuto difficile non vedere: il crollo di Hollande, i tedeschi al servizio della Merkel, gli spagnoli spaccati e in maggioranza per il governo centrista, le molteplici sconfitte nei paesi minori, l’avanzare ovunque nell’elettorato popolare, a loro danno, di movimenti di protesta o, peggio, delle destre nazionaliste.
L’ultimo tassello di questa catena di disastri è stato il crollo – nel referendum costituzionale – del corso politico e istituzionale seguito da quell’ex-sindaco di Firenze presentato, sin qui, come una sorta di ragazzo prodigio del moderno riformismo e in realtà ultimo ciarliero protagonista televisivo della compiuta metamorfosi della maggiore sinistra italiana (Pds, Ds, Pd) in qualcosa di lontanissimo dalla sinistra. E così, ora, vengono stese puntuali rassegne degli errori, resi evidenti dalla rovinosa sconfitta, commessi dai dirigenti di questo partito (ora definito un “gruppo di giovani di provincia” oppure una “consorteria toscana”, ecc.) e dal loro capo: la distanza dai problemi dei meno abbienti e dei diseredati, la lontananza dal Mezzogiorno, la vicinanza ai potenti del danaro, il metodo delle mance preelettorali, l’abuso di promesse vacue, l’eccesso mediatico, il propagandismo facile in luogo della serietà, la personalizzazione indebita, la scarsa qualità del personale politico (si veda Galli della Loggia, sul Corriere della sera del 5 dicembre).
Per la verità, anche prima della sconfitta referendaria qualcuno era andato oltre nell’analisi del Pd. Si era scoperto – Scalfari – che questa sinistra era ormai “senza anima” oppure che i sentimenti di sinistra esistono e sono radicati ma sono in larga misura frustrati dal contegno del partito che dovrebbe rappresentarli. Per arrivare a quest’ ultima conclusione un ex-direttore di Repubblica ha compiuto un’inchiesta alla vigilia del referendum viaggiando per tutta l’Italia. Da elogiare lo scrupolo, ma forse bastava guardarsi attorno anche prima. E un noto professore di filosofia e commentatore politico alfine ha giustamente sentenziato, con grande sforzo di pensiero, che la sinistra «deve smettere di imitare la destra». Meglio tardi che mai, ma sarebbe forse utile una qualche riflessione sulle proprie responsabilità in questa deriva. Molti degli attuali critici sono spesso i medesimi che hanno accompagnato con la massima benevolenza o con un imbarazzante ossequio tutta l’azione del gruppo dirigente Pd e del suo esponente principale da quando egli divenne capo del Governo a sorpresa, o, meglio, per un colpo di palazzo.
Prima e dopo l’avvento alla ribalta dell’ex-sindaco di Firenze, sono stati proprio i quotidiani italiani che più influenzano i benpensanti a spingere il Pd, che in Italia avrebbe dovuto fare le veci della socialdemocrazia, a far propria la ideologia e la politica abbracciate da Blair, da Schroeder e, con le ovvie differenze, da Clinton. Blair, o chi per lui, aveva teorizzato per il partito laburista una “terza via” che toglieva ogni centralità al lavoro in nome del credo liberista messo in pratica dalla Thatcher e mai più smentito. Schroeder era stato, in polemica con la sinistra del suo partito, il fautore della socialdemocrazia come “Nuovo centro”. E Clinton tra la fine del Novecento e l’inizio del Duemila pareva guidare la terza via della sinistra neoliberista mondiale.
Qualcuno forse ricorderà l’incontro di Firenze (era il novembre del 1999) del presidente americano, e signora Hillary, con Blair, Schroeder, Jospin, Prodi, D’Alema e relative consorti. Fu la gran festa mediatica di quella che pareva la sinistra del nuovo secolo – anzi, millennio – tutta al governo. Clinton arrivava a quell’incontro dopo la firma della legge, preparata dai repubblicani, osannata da Wall Street, che abrogava anche l’ultima delle regole di Roosevelt rimasta in vita sulle attività bancarie (lo Steagall Act, la separazione delle banche tradizionali da quelle d’investimento). Il più noto risultato fu la crisi dei subprime del 2007-2008, e il ricorso a montagne di soldi pubblici per evitare la catastrofe. E di rovina in rovina siamo arrivati a Trump, alla Brexit , ai sistemi parafascisti dell’est Europa, alla minaccia lepenista in Francia. La “sinistra” liberista ha aperto la strada al peggio.
Non basta, però, la deplorazione. È doveroso chiedersi perché nei partiti tradizionali della sinistra novecentesca, compreso il Pci prima dello scioglimento, si diffuse la conversione al liberismo e iniziò una precipitosa corsa a destra. Certamente, il crollo del modello sovietico pesò su tutte le forze politiche di ispirazione socialista, comprese quelle che ne avevano prese le distanze o l’avevano apertamente combattuto in nome del metodo democratico. Ma non fu solo questo. Entro i sistemi capitalistici vincenti maturava un mutamento sostanziale. Proprio la vittoria su scala planetaria spalancava nuovi mercati, apriva le porte al mercato unico dei capitali, metteva a disposizione con la globalizzazione una immensa quantità di mano d’opera a basso prezzo. Contemporaneamente, la rivoluzione elettronica non solo mutava in modo sconvolgente il sistema della comunicazione e della informazione, ma veniva distruggendo nei paesi avanzati molti più posti di lavoro di quanti ne creasse. Il settore terziario diveniva sempre più elefantiaco. Mutavano gli equilibri tra i continenti e nei continenti. In Europa il disfacimento sovietico, la riunificazione della Germania e l’unità monetaria europea aprivano la strada all’egemonia tedesca mentre i rinati nazionalismi risistemavano le frontiere e rincominciavano a guerreggiare.
Qui in Italia, ancor peggio che altrove, lo Stato sociale era in larga misura sostenuto dal debito e il debito, a sua volta, assorbiva risorse crescenti. La lotta all’evasione fiscale, ignorata nei tempi dello sviluppo, diventava spietata al basso e vanificata all’alto dall’uso dei paradisi fiscali. L’introduzione del precariato (la prima legge che lo legittima è del centrosinistra alla fine dei Novanta) divise il mercato del lavoro e i lavoratori separando i giovani dagli anziani: in più l’espansione a nuovi paesi della comunità portava dall’est nuovi lavoratori a prezzo vile. L’ingresso nella moneta unica accettato acriticamente veniva a rendere sempre più difficile la competizione con i Paesi a più alta produttività (la Germania innanzitutto), mentre le guerre balcaniche e poi mediorientali (la prima in Irak è del 1990) iniziavano a creare masse di profughi.
È onesto dire, mi pare, che di fronte ai rivolgimenti politici internazionali e alle trasformazioni strutturali, di fronte a una realtà sociale in mutamento la sinistra d’ispirazione socialista, interna o esterna ai partiti socialdemocratici e assimilati, rimaneva, in Italia come altrove, arroccata nella difesa dei risultati e degli strumenti d’intervento che erano stati utili in una diversa situazione economica e politica, senza idee nuove e senza proposte. E la pur generosa fedeltà, che rimase in molti, alle idee di liberazione umana e sociale donde aveva preso le mosse il pensiero socialista era ormai priva della sua prospettiva di società, dato che la prima esperienza statale che avrebbe voluto fondarsi sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione e di scambio (quella sovietica) aveva contraddetto se stessa nonostante sacrifici e sofferenze e tragedie immani.
Dunque, si capisce bene perché la destra socialdemocratica, tradizionalmente vicina alla logica del sistema dato, scavalcò il fosso e pensò di diventare vincente dimostrandosi più efficente della destra moderata nelle medesime politiche (sino all’ultimo paradosso italiano di una riforma copiata largamente da quella proposta dal governo Berlusconi e bocciata dieci anni fa da un altro referendum). Quella destra socialdemocratica, però, in nome del realismo o del pragmatismo (chiamato in causa a dispetto dei suoi grandi maestri e confuso con il praticismo) stava mettendo in atto una fuga dalla realtà. Se la globalizzazione comportava l’ingresso di nuovi e grandi paesi tra i protagonisti dell’economia e della politica mondiale (ma a prezzo di forme di sfruttamento del lavoro spesso inaudite) contemporaneamente imponeva prezzi pesanti alle forze lavoratrici dei paesi più sviluppati, prezzi aggravati dalla crisi economica. E se la rivoluzione tecnologica poteva annunciare la nascita di un mondo di minori fatiche fisiche e di maggiore ricchezza materiale e culturale, la realtà diceva di una disoccupazione crescente e di una occupazione sempre meno qualificata a livello di massa (la prevalente offerta diventava quella dei servizi alle persone). Perciò la sinistra liberista, incapace di vedere e di fronteggiare le conseguenze sociali della sua stessa politica, sta fallendo ovunque. Ma la sinistra che vorrebbe essere alternativa, a sua volta, ha ampiamente dimostrato di non riuscire a rappresentare il disagio e la sofferenza sociale, che pure vedeva e denunciava. E ciò è accaduto innanzitutto, ci pareva e ci pare, per un inseguimento di tattiche spesso solo elettoralistiche, e cioè per l’assenza di un pensiero capace di stare in campo nel tempo nuovo.
Per tutti questi motivi questa rivista, sin dal suo risorgere, parlò della necessità di un rifacimento dalle fondamenta di una sinistra che volesse tener viva l’ispirazione socialista. La sconfitta di questa sinistra dinnanzi alle posizioni liberiste, pensavamo, dipendeva, certo, dalla difficoltà di proporre misure credibili diverse da quelle della deriva destrorsa, ma questa stessa difficoltà dipendeva a sua volta dal venir meno di una identità forte e riconoscibile. Se la sinistra liberista si veniva confondendo con la destra, l’altra sinistra rimaneva sostanzialmente impigliata in una trama concettuale dimostratasi infeconda. Anche la critica al rovesciamento dogmatico (quello della esperienza sovietica ma anche di molti suoi avversari) del pensiero di ispirazione marxiana non poteva bastare. Essa stessa chiedeva di essere spiegata nei suoi motivi teorici oltre che immediatamente politici. Ci pareva evidente che alle origini della sconfitta delle idee socialistiche stessero ragioni ben più profonde e lontane che la tragedia dello stalinismo, essa stessa non occasionale. E che la vittoria planetaria del modello capitalistico avesse radici in una visione ben più complessa da quella riassunta dall’esaltazione degli “spiriti animali”. Non si trattava più di ridefinire soltanto, com’è ovvio, le politiche, ma il significato stesso delle proprie ambizioni ovvero delle proprie finalità dato che le parole come “socialismo” o “sinistra” erano venute perdendo il senso intuitivo che sembravano avere nel Novecento e quindi esse stesse andavano ridefinite.
Perciò mettemmo al primo posto il ripensamento del rapporto tra libertà ed eguaglianza, partendo dall’assioma per cui da una condizione di libertà, per quanto ristretta, può nascere l’eguaglianza, mentre non è vero il contrario, non solo per la prova della esperienza ma perché l’eguaglianza è tale solo tra persone che si sentano libere. Ma la priorità dell’idea di libertà chiede di ripensare questa idea come un problema e non come accettazione della interpretazione data – cioè come strumento di competizione contro l’altro – nelle società capitalistiche in cui viviamo. Tutto ciò, ci è parso, rinviava e rinvia alla preminenza delle ragioni etiche per cui dovrebbe giustificarsi la sinistra e a cui rimanere fedeli – e dunque alla necessità di rivedere la distinzione tra l’etica dell’intenzione (confinata alla sfera privata) e l’etica della responsabilità (supposta come unica per la sfera pubblica), in nome della quale si sono compiute le peggiori nefandezze da ogni parte. Dobbiamo dire che la tendenza autoritaria presente in molti dei maggiori paesi capitalistici (o a capitalismo statale e privato commisti) indica bene che il tema della conquista o della difesa delle libertà, a partire dalle più elementari, è divenuto evidente.
Di conseguenza, suggerivamo, la pratica politica – cioè il costume e le regole dell’agire politico nel presente – precede ogni altra esigenza. La vicinanza attiva ai problemi che si pongono tra i lavoratori di ogni condizione ed entro gli strati diseredati sono parte costitutiva di una tale pratica. Ma è non meno essenziale la credibilità di chi pretenda di rappresentare gli uni e gli altri. Le stesse indicazioni, indispensabili, di “soluzioni concrete a problemi concreti” passa per la credibilità di chi le propone. I comunisti italiani avevano capito che non poteva bastare la predicazione del sole dell’avvenire, e che occorreva la capacità propositiva. Tuttavia c’era una premessa non detta: ed essa era la credibilità del gruppo dirigente, una credibilità provata dalla lotta antifascista e dalla Resistenza e poi, finché durò, da un modo di essere del personale politico legato alle condizioni popolari. La serietà e la forza di una visione del mondo e cioè una forte identità ideale e morale debbono essere garantite dai fatti. E solo in tal modo si può dare verosimiglianza alle enunciazioni programmatiche che altrimenti, per quanto ben studiate siano, restano una promessa tra le altre. E solo in tal modo diventano perseguibili le soluzioni concrete, sempre condizionate dallo stato di fatto, dai rapporti di forza e dalle intese con altri – necessarie, anzi indispensabili in un regime parlamentare per evitare il peggio.
In ogni caso, una forte identità di sinistra ha bisogno di verità. Dunque, ad esempio, l’esigenza di difendere i diritti sociali non coincide con la difesa dello Stato sociale così com’è, a partire dalla sua concezione pensata come appendice dello sviluppo capitalistico – e dunque funzione dei suoi cicli – e gestita talora (come nel caso della sanità) nell’interesse primario del sistema privato e del personale di comando. Oppure, per fare un altro esempio, nella gestione del dramma dell’immigrazione di chi fugge da guerre e carestie la solidarietà umana sacrosanta dovrebbe accompagnarsi alla denuncia della causa di tanti disastri e non dovrebbe nascondere il disagio e, anche, i problemi economici che nascono tra i lavoratori e nei quartieri popolari mostrando la capacità di affrontarli nell’immediato. E chiarendo che l’unica prospettiva per cui battersi è quella di una politica di pace e di un gigantesco sforzo dei paesi ricchi per il superamento del sottosviluppo.
Comunque, il tempo incalza. So bene che circola l’idea che solo un populismo di sinistra può battere un populismo di destra. Mi sembra una speranza illusoria. Direi piuttosto che il problema è di conquistare a una visione realmente trasformatrice tutte le forze disponibili ovunque collocate. Ma ciò implica, appunto, che un discorso di sinistra vi sia e sia tale da intendere e interpretare anche tutte le istanze umanamente e politicamente giuste che altri ha raccolto per primo: per esempio quelle espresse dalla rivolta sulla questione morale. Sarebbe un vero guaio per loro e per il paese se le forze (o le debolezze) della sinistra che tendono ad avvicinarsi tra di loro, come oggi pare possibile, non si convincessero della necessità di un ragionare comune sui loro errori, senza pregiudiziali e senza rancori, e sulla esigenza di esprimere una visione e una proposta comune non inficiate dal mero elettoralismo. Sostenemmo sempre, per quel poco che potevamo, i tentativi molteplici di unire le sinistre disperse, ma avvertendo che senza uno sforzo di pensiero solidamente fondato nessun soggetto politico né unitario né federato, né piccolo né grande potrà mai aver vita durevole. Era una facile profezia puntualmente avvalorata dai fatti. Bisognerebbe cercare di tenerne conto oggi, prima che sia troppo tardi.
Fonte: critica marxista
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