di Matteo Bortolon
Nonostante gli sforzi di attivisti e oppositori, il 15 febbraio il Parlamento europeo ha votato a favore del Ceta. L’accordo di libero mercato fra Unione europea e Canada entrarà in vigore, sia pur in forma azzoppata. La storia di tali trattati targati free market non presenta troppi equivoci. Si tratta di una trafila impressionante di negoziazioni in sedi riservate, lobbismo, privatizzazioni, deregolamentazioni, disastri ambientali, in barba alle istituzioni legittimate democraticamente. Governi che decidono alle spalle dei rispettivi Parlamenti salvo esigere l’allinearsi al testo raggiunto, da prendere a scatola chiusa. Senza poterlo modificare, emendare.
Dato che sarà difficile vedere le tv e i media ufficiali mettere in piedi un dibattito decentemente esauriente sui contenuti del Ceta (in tal caso alle sue quasi 1600 pagine toccherebbe dare quanto meno un’occhiata…) quasi sicuramente saranno le forze, assai meno foraggiate e in buona parte sostenute dall’idealismo volontario, dell’informazione critica a cercare di capire che cosa succederà in forza di esso e a fare divulgazione. Anche senza doversi sobbarcare la lettura di tante centinaia di pagine (dal linguaggio non particolarmente scorrevole) risulta evidente come non si tratti più (solo) di accordi di «libero scambio», che si presume debbano abbassare le tariffe e favorire così il commercio. Si tratta di trattati che incidono pesantemente sull’assetto interno degli Stati interessati, inclusa la regolamentazione di settori chiave.
Un interesse particolare può avere la parte dedicata ai servizi finanziari. Un settore che nel Ttip (trattato di libero mercato Ue-Usa), a giudicare dai documenti negoziali emersi, era piuttosto preoccupante. Cosa dice il Ceta al riguardo?
Va notato che il Canada è stato colpito molto meno di altri paesi dal contagio della crisi finanziaria del 2007-08 per le sue regolazioni ed un settore bancario meno permeabile all’investimento straniero ed alla competizione, come sostiene lo stesso Fmi.
Appare perciò paradossale che l’obiettivo di una maggiore apertura e liberalizzazione venga assunto come prioritario. L’articolo 13.6 («Accesso al mercato») proibisce di adottare misure che limitino l’accesso di operatori esteri in ragione del loro numero, del valore delle loro transazioni, della percentuale di capitale estero, del numero delle loro operazioni – sarebbero cassate in tal modo tutte le misure mirate a evitare bolle speculative e banche «troppo grandi per fallire». Se l’intento corrisponde a quello di tutelare la stabilità finanziaria sarebbero tuttavia teoricamente concesse. Ma se non sono di tal genere (definite «prudenziali») allora non vanno bene. E chi lo decide? Secondo l’allegato 13-B dovrebbe deciderlo un Comitato dei Servizi Finanziari, organo stabilito dall’art. 26.2, di cui non è specificato nel dettaglio il funzionamento o la composizione (dire come fa l’art. 13.18 che è «composto da rappresentanti delle autorità incaricate della politica dei servizi finanziari in possesso di competenze nei settori disciplinati dal presente capo» non è molto dettagliato: quanti? Avranno l’obbligo di motivare i propri pareri vincolanti? Le minute verranno rese pubbliche? Mistero…)
L’art. 28.4 consente misure contrarie alla libera circolazione dei capitali qualora «causino o minaccino di causare gravi difficoltà al funzionamento dell’unione economica e monetaria»; ma non più che per 180 giorni, dando tempestiva comunicazione alla controparte e «non appena possibile, un calendario per la loro soppressione».
Che non sia mai che una più pesante limitazione della libertà dei capitali debba durare un minuto più dello stretto necessario, mi raccomando.
Fonte: Il manifesto
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