di Leopoldo Grosso
Che senso ha che per qualche grammo di hashish alcuni ragazzi, travolti dai conflitti con i loro genitori, arrivino fino al punto di farla finita in preda a un atto di disperazione che rappresenta, sul momento, l'unica via di uscita autopunitiva, ma anche la terribile accusa di non essere stati capiti e ascoltati? Da anni ormai, e dappertutto, si sottolineano le difficoltà e la delicatezza della crescita di tanti preadolescenti e adolescenti che fanno più fatica di altri a stare bene con se stessi, a capire chi sono, a essere accettati, a collocarsi in maniera soddisfacente tra famiglia, scuola e gruppo dei compagni.
Gli spinelli a portata di mano, resi più affascinanti e trasgressivi dalla illiceità del consumo e dallo sconsiderato gioco a "guardie e ladri" che si apre con le forze dell'ordine, per la maggior parte di loro costituiscono un passatempo a cui non si sa dire di no, per non sentirsi tagliati fuori dal gruppo dei compagni, e faranno presto il loro tempo, spodestati da altri interessi e relazioni che subentreranno col compimento della crescita.
Per alcuni (una minoranza, ma che coinvolge i ragazzi più fragili per contesto familiare, personalità, ambiente sociale) gli spinelli costituiscono una formidabile "protesi" identitaria: forniscono un ruolo a chi li procura non facendoli mai mancare agli amici per le serate "giuste", e soprattutto (per quelli che ne fanno uso quotidiano e pluriquotidiano) fanno sentire più leggeri e spensierati, riducono gli affanni psicologici, allentano le inibizioni relazionali, "guariscono" momentaneamente da rabbie ricorrenti, rancori sedimentati, "complessi" non risolti, angosce che possono risalire a tempi non sospetti.
Tutti questi problemi, che la sostanza copre e soffoca, non si risolvono con blitz e cani poliziotto. Sono problemi che per essere affrontati, fatti emergere, trattati con la competenza richiesta, richiedono pazienza, discrezione, comunicazione adeguata, avvicinamento prudente dei genitori, coordinamento tra gli insegnanti, gli operatori del settore e, ovviamente, la famiglia.
Il ruolo della scuola è fondamentale. Intendo di quelle scuole che - per fortuna, in mezzo al mare di difficoltà in cui spesso operano, comunque ci sono - non avallano per quieto vivere il consumo minorile facendo finta di non vederlo per poi - a volte succede - chiamare Polizia e Guardia di Finanza, far fiutare gli zainetti degli studenti ai cani poliziotto, creare il "caso" e mettere alla gogna i "cattivi" quando il problema scoppia tra le mani e non si può più nascondere sotto il tappeto.
La strada è un'altra: avvicinare i ragazzi, ribadire la regola che a scuola né si consuma né si portano sostanze psicoattive per altri compagni, cercare di capire le motivazioni dei comportamenti, fornire ascolto alle problematiche retrostanti, farsi spiegare il rapporto coi genitori, valutare con attenzione come intervenire, chiedere aiuto al personale specialistico quando non ci si raccapezza su come fare.
Il tutto con molta discrezione, perché l'obiettivo è triplice: fermare il consumo a scuola, aiutare i ragazzi, evitare che si aggiungano danni con interventi maldestri e stigmatizzanti. Bisogna proteggere i non consumatori, ma anche i consumatori, sapendo che in ogni scuola gli "utilizzatori pesanti di droghe leggere" possono anche essere fino al 10% della popolazione scolastica complessiva: 2-3 in ogni classe di scuola superiore.
Non è accettabile che solo con le tragedie si riapra un dibattito di civiltà. Come Gruppo Abele, insieme a tante altre associazioni, sosteniamo da anni che la lotta al narcotraffico non si fa con la repressione al primo e all'ultimo anello della catena (cioè i contadini da una parte, pressoché costretti a coltivare la droga in Bolivia come in Afghanistan, vittime delle fumigazioni dei veleni sparsi dagli aerei per sradicare le coltivazioni, e i giovani consumatori delle società occidentali dall'altra, in genere poco consapevoli di ciò che stanno realmente facendo,tutti presi dalle problematiche proprie dell'età, che hanno l'inevitabile sopravvento).
Non è mai stato tempo e non lo è oggi, per la "tolleranza zero". Da Reagan a Trump un'onda lunga ha contagiato l'Europa, e anche l'Italia, ostinandosi in una guerra alla droga che non riesce neanche a fare più distinzione tra minorenni e maggiorenni. Con la legge del 1990 Craxi volle l'inasprimento delle norme sul consumo di droga. Un referendum 3 anni dopo fece giustizia di quei non pochi giovani-adulti che, incarcerati per qualche grammo di hashish, si erano tolti la vita in carcere.
Otto anni ci sono voluti perché la Corte dichiarasse incostituzionale la legge Fini-Giovanardi del 2006, l'inasprimento delle pene, l'equiparazione tra droghe pesanti e leggere. Nel frattempo l'intolleranza ha fatto cultura. Ed è paradossale che una "prescrizione invariabile", coniata negli anni '80 nel trattamento della tossicodipendenza da eroina, che richiedeva di "far toccare il fondo" alle persone vittime dell'addiction perché si motivassero alla riabilitazione (e che tanti danni aggiuntivi ha comportato!) venga riciclata oggi, in ambito preventivo, e per di più con i minori.
Mi chiedo quante prove ancora servano per sradicare la convinzione di poter contrastare il consumo di sostanze stupefacenti non con la prevenzione e l'educazione, ma con la forza e gli interventi esemplari?
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore
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