di Lorenzo Monfregola
Quello che era l’iper-regolato mondo del lavoro tedesco è sempre più diviso tra residui di vecchie garanzie e zone che sfuggono alla strategia sindacale. Dagli scioperi con potere contrattuale, come nei trasporti e nell’educazione, a quelli di cui non si accorge quasi nessuno, come nel caso dei lavoratori del colosso digitale Amazon. Intanto, Martin Schulz, sfidante di Angela Merkel nelle elezioni del 2017, guadagna punti parlando di diritti e giustizia sociale. La disoccupazione in Germania è scesa sotto il 6%, ma questo non significa che il modello tedesco sia solido: tra working poor, nuovi squilibri internazionali e pericolo di etnicizzazione del conflitto sociale.
Quanto guadagnano gli autisti di Francoforte?
Lo scorso 16 gennaio una televisione locale, la Hessischer Rundfunks, pubblica su Facebook la notizia che lo sciopero degli autisti dei bus proseguirà un’altra settimana. Diversi cittadini della regione dell’Assia rispondono protestando. «Smettete di caricare la vostra insoddisfazione sulla schiena di chi dipende dagli autobus», scrive un utente. Si aggiungono altri commentatori, tra cui non manca chi solidarizza con gli scioperanti. Per smorzare i toni, la Hessischer Rundfunks pubblica anche un articolo che riassume le richieste degli autisti, a partire da quella principale: un aumento della retribuzione che vada dagli attuali 12 euro lordi orari a 13,50 euro l’ora.
A questi dati qualcuno risponde: «12 euro? E scioperano? Nel settore della vendita al dettaglio ce li sogniamo». Poco dopo una donna, autista di bus, replica: «Sto attenta ai vostri bambini, devo essere sempre concentrata al 100%, vi portiamo al sicuro al lavoro, a fare la spesa, a casa… Invece di restare tutti uniti, ci attaccate, perché c’è qualcuno che guadagna anche meno di 12 euro. Non c’è da stupirsi se tutto va a rotoli».
A partire dal 2017, il salario minimo in Germania è di 8,84 euro lordi. Questo significa che i tedeschi che guadagnano molto meno di 12 euro l’ora sono tanti, tantissimi. Al tempo stesso, le richieste degli autisti dell’Assia non sono esagerate, soprattutto se si considera che in diverse città della regione, ad esempio Francoforte, il costo della vita è tra i più alti del Paese.
Il 3 febbraio, la Lega che rappresenta le 20 aziende private che gestiscono i bus, ha accettato le richieste degli autisti, con un aumento fino a 13,50 euro l’ora entro il 2019. Quello degli autisti dell’Assia è solo il più recente esempio delle proteste di una parte dei lavoratori tedeschi che riescono ancora a scioperare in modo convenzionale, perché tuttora inseriti in una geometria di garanzie.
Chi sciopera senza paura
Nel luglio 2015 è stata approvata in Germania una legge contestata da molti: la Tarifeinheit, che prevede che a ciascuna contrattazione salariale con le aziende debba partecipare unicamente il sindacato con la maggioranza delle iscrizioni. Il meccanismo rientra nel solco della tradizione industriale tedesca, che, come prospettiva generale, evita il conflitto e cerca il consenso tra sindacati e aziende, in nome del sacro obiettivo della produttività. Lo stesso spirito in base al quale, da anni, esiste la “Mitbestimmung”, la cogestione, in cui le rappresentanze dei lavoratori possono partecipare ai processi decisionali delle aziende. Allo stesso tempo, però, in Germania è vietato lo sciopero politico; questo significa che nel paese si sciopera molto meno che in Francia o in Italia, ma significa anche che la contrattazione salariale è il momento di confronto assoluto tra le parti sociali.
L’introduzione della Tarifeinheit ha reso ancora più egemonici i grandi sindacati nazionali che aderiscono alla confederazione sindacale DGB. Realtà come la IG Metall, rappresentante dei metallurgici, o i Ver.di, il sindacato dei servizi che continua a perdere iscritti, ma che – forse proprio per rinnovarsi – cerca di essere sempre più attivo.
Dal 2001 al 2005, secondo i dati dell’Institut der deutschen Wirtschaft di Colonia, il 94% dei giorni di sciopero proveniva dal settore industriale, ma tra il 2011 e il 2015 la tendenza si è completamente capovolta, in maniera impressionante: il 95% dei giorni di sciopero è arrivato dal settore dei servizi.
Il picco di questo cambio di ritmo è stato certamente l’anno 2015: dopo diversi anni in cui la somma complessiva delle giornate di sciopero si era aggirata intorno a quota 150 mila, d’un tratto, sono stati raggiunti 1,1 milioni di giorni. Di questi, più di 945 mila giorni sono conseguenza di scioperi organizzati dal sindacato Ver.di. Decisivi sono stati due grandi conflitti: quello dei lavoratori delle poste e quello degli educatori degli asili. Questi ultimi hanno incrociato le braccia per settimane, chiedendo nuove retribuzioni e affermandosi come un gruppo professionale sorprendentemente consapevole della propria forza.
Nel 2016 il numero di giorni scioperati è tornato a livelli normali, ma questo non significa che le contrattazioni nelle varie aziende siano state semplici. Un caso emblematico è quello dei piloti della Lufthansa. Lo scorso novembre, la compagnia ha dovuto lasciare a terra circa 4500 aerei, creando il caos nei maggiori scali internazionali. Oggi, dopo ben 14 cicli di sciopero, la trattativa non si è ancora conclusa. Il sindacato di categoria dei piloti, Cockpit, chiede un incremento salariale che l’azienda non sembra disposta a dare, in uno stallo in cui l’equilibrio tra le due parti è stato da tempo eroso dalla concorrenza delle compagnie low-cost.
Con Amazon non funziona
Autisti di bus, lavoratori delle poste, educatori negli asili e piloti d’aereo sono, tuttavia, lavoratori che hanno notoriamente un elevato potere contrattuale. C’è però un altro mondo del lavoro in cui gli scioperi e le rivendicazioni sembrano regrediti di decenni, perché nessun passeggero o genitore sembra accorgersi delle proteste e perché i sindacati non riescono a intaccare la produttività. Un mondo in cui anche un sindacato ricco, istituzionalizzato e potente come i Ver.di non sembra particolarmente efficace. Una realtà di cui l’emblema sono diventati i lavoratori del colosso americano Amazon.
Fin dall’aprile 2013, Ver.di organizza scioperi all’interno dei 9 centri Amazon presenti sul territorio tedesco, sedi in cui sono impiegati quasi 12 mila persone. Le giornate di sciopero vengono sempre indette in prossimità del “black friday” o delle vacanze di Natale, nel tentativo, finora fallito, di mettere sotto pressione l’azienda nei giorni dello shopping online più intenso. Il vero problema per chi protesta ad Amazon è la capacità della multinazionale di bypassare senza conseguenze le proteste delle sedi tedesche, magari esternalizzando il processo logistico nei paesi confinanti, ad esempio la Polonia.
La sindacalizzazione degli impiegati Amazon è stata lenta e, al momento, si aggira attorno a ⅓ di tutta la forza lavoro. Da più di 4 anni, Ver.di chiede un contratto collettivo che si basi sull’usuale retribuzione per i lavoratori del settore della vendita al dettaglio. L’azienda, però, sembra non voler aprire alcun tipo di trattativa. Thomas Voß, rappresentante nazionale di Ver.di nel settore del commercio, spiega: “Fino a ora gli scioperi non sono stati utili per raggiungere l’obiettivo del contratto unico. Sapevamo fin dall’inizio che ci vorrà un’azione di lungo respiro. Gli scioperi sono però serviti a migliorare le condizioni di lavoro più usuranti e a far alzare le retribuzioni”. Tra i dati che il sindacato ha fatto notare in questi anni c’è quello secondo cui il tasso di malattia tra i lavoratori Amazon sarebbe circa il 20% più alto della media nazionale – una tendenza che deriverebbe dalla pressione fisica e psicologica a cui sono sottoposti i lavoratori della multinazionale del commercio elettronico.
Per riuscire nel proprio intento, dice Voß, il sindacato sta cercando di costruire una rete europea che coinvolga i centri Amazon degli altri paesi, per evitare che gli schemi di distribuzione internazionale vanifichino qualunque sciopero. Una cosa è certa, quello che succederà ad Amazon sarà decisivo nel definire il mercato del lavoro del futuro: «In questo momento tutti stanno a guardare – spiega il sindacato – per capire se Amazon riuscirà a neutralizzare il sindacato ed evitare contratti collettivi. Proprio per questo la battaglia è così importante».
Garantiti e non garantiti
Secondo il prof. Klaus Dörre, dell’Istituto di Sociologia dell’Università di Jena, quello di Amazon è un esempio di una progressiva divisione del mercato del lavoro tedesco in due differenti scenari. Dörre è autore, insieme ad altri tre colleghi, di un volume intitolato “Streikrepublik Deutschland?”, in cui viene identificata una profonda differenza tra un primo mondo del lavoro, dove il lavoratore può ancora contare sulle garanzie dell’economia sociale di mercato, e un secondo mondo, dove queste garanzie hanno perso ogni significato.
«Amazon è certo parte del secondo mondo che abbiamo individuato – spiega Dörre –, ci sono molte aziende in cui le condizioni di lavoro sono peggiori, ma di Amazon è significativa la gestione manageriale americana dal tono molto gioviale e non convenzionale, a cui si affianca però un rigido controllo dei processi produttivi. Un esempio sono i picker che smistano i pacchetti, lavoratori che sono soggetti a una costante misurazione della loro perfomance. Non solo, l’azienda cerca di non riconoscere il sindacato come controparte. Se confrontiamo questo aspetto con gli standard dell’economia sociale di mercato tedesca, siamo proprio in un’altra dimensione».
Tuttavia, è proprio in questo secondo mondo, fatto di minimo salariale, contratti temporanei e poche garanzie, che si stanno affermando nuove forme di conflittualità. «In tante situazioni che non vengono nemmeno calcolate dalle statistiche – continua l’esperto – ci sono sempre più micro-conflitti in cui si svolge quella che possiamo definire una lotta di classe frammentata».
Questo, ed è un’autentica novità, sembra essere vero anche nella ex DDR: «Abbiamo rilevato come, dopo anni, ci sia una nuova sindacalizzazione dei più giovani, anche tra i lavoratori precari – aggiunge Dörre – lavoratori che ora sono diventati più determinati nelle loro richieste. Vale anche per la Germania orientale, dove sta emergendo una nuova generazione che si muove in un mercato del lavoro con tasso di disoccupazione molto basso, una circostanza che rende alcuni giovani più determinati e più esigenti».
Il destino del modello tedesco
Con una disoccupazione che è scesa sotto il 6%, il tema del lavoro sembrava destinato a essere secondario nella campagna elettorale 2017. Ma, nelle ultime settimane, è proprio sulla giustizia sociale che sembra voler puntare Martin Schulz, candidato socialdemocratico che ha improvvisamente ravvivato lo scontro con Angela Merkel. In quel 6% di disoccupazione, del resto, non vengono mai contati milioni di cosiddetti working poor, inclusi donne e uomini che integrano spesso un lavoro temporaneo o sottopagato con forme di sussidio statale (non riuscendo mai a conquistare una reale autonomia economica). Senza il suo capillare e basilare sistema di welfare, infatti, la Germania avrebbe una pace sociale estremamente più fragile.
Nei prossimi mesi, intanto, non si interromperà la ritualità dei rinnovi contrattuali, che quest’anno interesseranno oltre 11,4 milioni di tedeschi: dagli operai del tessile a quelli della siderurgia, dai dipendenti pubblici dei vari länder ai lavoratori del settore energetico, fino ad arrivare ai macchinisti ferroviari e ai lavoratori del settore gastronomia, catering e hospitality.
Più difficile è comprendere se e dove, nel 2017, emergeranno conflitti nel cosiddetto secondo mondo. Che ne sarà delle proteste dei lavoratori Amazon? Ci saranno nuove vertenze in aziende fino a oggi poco o nulla sindacalizzate, magari proprio nel settore delle vendite online? Più ampiamente, bisognerà anche chiedersi se il famoso modello tedesco – fatto di cogestione, rappresentanza, cooperazione e produttività – sia destinato a esaurirsi o potrà continuare a funzionare.
Secondo Bernd Rütze, portavoce per le politiche sociali della SPD – partito di Andrea Nahles, attuale Ministra del Lavoro – quello classicamente tedesco continuerà a essere un modello di successo. Sarebbe stata proprio la collaborazione tra aziende e sindacati a permettere alla Germania di sorpassare la crisi del 2008-09. Come spiega il parlamentare socialdemocratico: «Grazie al funzionamento della partnership tra parti sociali si sono evitati crolli strutturali e licenziamenti di massa. Mentre l’industria ha potuto ritornare velocemente al livello di produttività precedente alla crisi».
Il meccanismo degli ultimi anni, però, è visto in modo molto più critico dall’altra sinistra tedesca, la Linke, una forza politica che continua a mantenere circa il 10% dei consensi su scala nazionale. In merito alla cogestione e al modello tedesco, Jutta Krellmann, portavoce parlamentare della Linke, sottolinea che in tempi di crisi si vive regolarmente un ritorno della cogestione: «Quando si tratta di socializzare le perdite, abbassare i salari e aumentare gli orari di lavoro, allora i lavoratori vengono di nuovo chiamati in causa per “salvare l’azienda”. Ma la partecipazione non dovrebbe essere a senso unico, il suo significato è che i lavoratori possano curare anche i propri diretti interessi».
Le differenti posizioni di SPD e Linke appartengono alla storica scissione tra una socialdemocrazia tedesca produttivista e una sinistra post-comunista e anti-capitalista. Tuttavia, piuttosto che a un dibattito interno alle sinistre, il futuro del modello tedesco sembra molto più legato alle complessive fortune economiche e geopolitiche della Germania.
Se è vero che le potenzialità del modello sociale tedesco continuano a essere visibili, resta forte l’interrogativo su quanto velocemente possano venire erosi i presupposti economici che le permettono. Erosione che può avvenire sotto la pressione di eventuali stravolgimenti dei rapporti internazionali della Germania, ad esempio sul piano degli esasperati equilibri/squilibri europei o dei sempre più ambigui rapporti transatlantici.
Il pericolo di etnicizzazione del conflitto sociale
In questo scenario, si aggiunge un ultimo elemento, che rischia di fare da ponte tra il mondo (o i mondi) del lavoro e alcuni dei temi che hanno monopolizzato per mesi la politica tedesca. A inizio anno si è di nuovo parlato della possibilità di sospendere le regole del salario minimo nazionale per i migranti e i rifugiati, in modo da favorire l’integrazione tramite l’occupazione. I maggiori media tedeschi hanno confermato che l’opzione rientra in una bozza comune dei ministeri di Finanza, Lavoro e Istruzione. L’eventualità trasferirebbe nel mondo del lavoro quelle che sono le attuali esacerbazioni sociali, tensioni in cui sta guadagnando terreno la destra populista anti-immigrati.
Sul tema ha le idee molto chiare anche il prof. Dörre: «Niente esclude che quegli stessi giovani che vediamo di nuovo partecipare agli scioperi e chiedere diritti vadano poi a marciare con Pegida o votino AfD. Queste forze si stanno presentando come realtà di difesa contro il mercato globale, ma lo fanno mettendo in atto un’etnicizzazione e una strumentalizzazione nazionalista delle rivendicazioni sociali». Mettere i rifugiati in competizione con chi vive con il salario minimo vuol dire creare una situazione esplosiva. Significherebbe spedire gli strati meno abbienti tra le braccia della destra populista.
Fonte: glistatigenerali.com
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