di Francesca Rigotti
Che cos’è la povertà? Bisogno, mancanza, privazione, lo sappiamo tutti. Che cosa precisamente sia la povertà, quali le cause e le forme in cui si manifesta, come sia possibile, se è possibile, debellarla, sono questioni ben più complesse; ad esse cerca di rispondere in maniera concisa e precisa la ricerca condotta ed esposta in questo testo dal giovane politologo tedesco Philipp Lepenies (Armut. Ursachen, Formen, Auswege, München, C.H. Beck 2017). Nella sua analisi sulla povertà Lepenies parte dal principio che per capire i fenomeni è bene conoscerne la storia: evocare eventi e idee del passato getta infatti luce sulle attuali posizioni, in questo caso sulla realtà della povertà e sul dibattito che la circonda.
E’ bene conoscere la storia ed è ancora meglio conoscere i dati precisi del fenomeno. L’ipotesi dell’autore che emerge dall’analisi storica della povertà e degli studi sulla povertà, è che la conoscenza e diffusione di dati precisi e attendibili sul fenomeno (della povertà o altri) sia il modo migliore per convincere le autorità ad affrontarlo e a porvi rimedio. Un esempio specifico al riguardo, richiamato da Lepenies, è quello dell’Inghilterra dell’Ottocento, nella quale anche altre voci, di altro tenore, si levavano, oltre a quelle degli studiosi sul campo: quella dei romanzi di Dickens e quella delle trattazioni economico-politiche di tipo ideologico di Marx e Engels. L’autore tuttavia sembra negare o per lo meno diminuire di molto il peso dell’influenza della sovrastruttura (per dirla in linguaggio marxiano) sulla struttura. Come dire che La capanna dello zio Tom non ebbe alcun peso, o ne ebbe uno scarso, nella campagna abolizionista della schiavitù negli Stati Uniti.
Lo studio parte dunque dall’immagine della povertà nel mondo antico, spesso dovuta a indebitamento e comunque ritenuta frutto del destino o di punizione divina; nel Medio Evo europeo, dominato dal pensiero cristiano incline sì all’assistenza ai poveri ma anche dominato dall’idea che la meta dell’uomo non abbia da essere il benessere sulla terra ma la salvezza dell’anima dalla morte eterna; nell’Inghilterra del Seicento, principalmente – ma non solo – con la creazione delle Poor Laws intese come misure di sostegno alla povertà, prima cellula del Welfare. Infine nel Novecento, con l’ideazione della cosiddetta «soglia di povertà» ancor oggi in uso; con la teoria della deprivazione relativa, negli anni ’60, fino alla recente capability theory di Sen (e Nussbaum, ma Lepenies cita soltanto Sen) fondata sull’idea innovativa – più generale ma rilevante anche per la povertà – che non deve essere la crescita l’obiettivo delle politiche ma la questione di come si può innalzare lo «star bene» delle persone (non il loro «benessere»); di come le persone possano fiorire e vivere una vita piena (o, con il termine greco antico, eudaimonia) essendo libere di compiere scelte. Con questa teoria Sen e Nussbaum raggiunsero una rappresentazione diversa dello sviluppo, legandolo all’espansione delle possibilità di scelta. Un aumento del reddito era sicuramente utile, per quanto niente più che uno strumento per la libertà e la fioritura della persona: la povertà diventava, per l’approccio delle capabilities, deprivazione di possibilità di condurre liberamente la vita secondo i propri piani. Con gli anni ’80 del Novecento si affaccia anche l’idea dello sviluppo sostenibile, il cui primo principio era la lotta alla povertà e la restrizione della povertà assoluta, che sarebbe potuta diventare realtà soltanto se le differenze di benessere all’interno e fra gli stati fossero state drasticamente ridotte. Fu in quel periodo che la somma di «un dollaro al giorno» divenne la misura della estrema povertà, oltre che una formula assai povera di contenuti, perché nulla dice su chi per esempio ha a disposizione il doppio della somma: «due dollari al giorno»: è povero, è ricco, ce la fa a campare? Oggi uno degli indicatori di povertà più utilizzati è percepire un reddito inferiore al 60% del reddito mediano.
Povertà: ideologia e ricerca empirica. Tornando alla relazione tra livello della soglia di povertà e dati sulla povertà medesima, determinanti per una efficace lotta alla povertà furono, a detta dell’Autore, non le teorie né le descrizioni strappalacrime e tanto meno le utopie sociali, quanto le ricerche empiriche basate sulla definizione e sulla quantificazione della povertà. Numeri e dati servirono infatti ad allontanare l’idea che la povertà sia un destino, come pure che derivi dalla «poca voglia di lavorare» delle persone, un mantra ripetuto allora come ora e che nasconde le cause reali: salari troppo bassi, assenza di tassazione adeguate per i benestanti. Furono insomma le nude cifre a portare i contributi più rilevanti per una lotta alla povertà basata sulla sua accurata analisi. Ma trattandosi di cifre relative al solo reddito, esse hanno finito per alimentare l’idea che il progresso si identifichi col progresso economico e con lo sviluppo industriale: la famosa e famigerata crescita come via regia al benessere. Ideologia discutibile, sappiamo, insieme all’altra nata da simile mentalità, e che suppone l’esistenza di una ipotetica «cultura della povertà» corrispondente alla razionalità specifica con la quale i poveri si adatterebbero alla loro condizione marginale esibendo inferiorità, fatalismo, dipendenza. Il tutto a braccetto con l’ideologia neoliberista che proclama i vantaggi della libera iniziativa, paradossalmente coadiuvata dal microcredito che sollecita «l’imprenditore che è in te».
Alla lunga Marx ebbe torto. Un altro punto chiave trattato dall’autore è se Marx avesse avuto ragione prevedendo un impoverimento generale della classe operaia al fiorire del modo di produzione capitalista. Con l’industrializzazione la povertà aveva ricevuto infatti un nuovo volto, che Marx cerca di spiegare, arrivando alla conclusione che col capitalismo industriale le masse si sarebbero decisamente impoverite. Se alla lunga Marx ebbe torto, non lo aveva alla breve, dal momento che la prima società industriale offriva l’immagine di poveri e miserabili che si moltiplicavano perché il benessere non era distribuito fra tutti ma concentrato in poche mani (come oggi in China? Vedi Operaie, di Leslie Chang, libro intervista sullo sfruttamento intensivo delle giovani operaie cinesi, paradossalmente felici, a detta dell’autrice, di abbandonare la vita tradizionale per tuffarsi nella modernità e prendere in mano la propria vita e per le quali la soddisfazione di abbandonare il paesino rurale e indossare abiti moderni passa sopra qualsiasi problema di sfruttamento economico e solitudine personale).
In nessuna parte dell’Europa dell’Ottocento il solco tra poveri e benestanti fu profondo come a Londra, dove persino la posizione dei quartieri, orientati sui venti, denunciava la posizione sociale: ricchi a occidente, poveri a oriente. Le zone povere dell’East End di Londra vennero chiamate terra incognita, continente nero (nero materialmente e moralmente in quanto sporco, vizioso e criminale); non si osava addentrarvisi, lasciandone le visite ai missionari. Alcuni scrivevano anche appassionati pamphlet ma nessuno comprendeva le cause. Finché un tale Booth cercò di esaminare il problema intraprendendo ricerche sociali per le quali dovette inventarsi i metodi di ricerca. Individuata la fonte privilegiata di informazione negli ispettori delle scuole dei quartieri poveri, seguirono interviste agli insegnanti, ai parroci, agli affittuari, agli impiegati degli uffici di assistenza: la ricerca di Booth era quantitativa, non sentimentale; una descrizione basata non sui buoni sentimenti ma sulla definizione e quantificazione scientifica. Solo dopo che l’inchiesta fu terminata Boooth si sentì in grado di asserire qualcosa di preciso sulla diffusione della povertà a Londra. Creò anche una Poverty Map nella quale erano rese a colori (dal più scuro al più chiaro) le distribuzioni e le gradazioni della povertà.
Sula scia dei numeri londinesi di Booth la ricerca si estese alla realtà sociale di altre città, per esempio a York; la intraprese l’imprenditore di cioccolato e dolciumi Benjamin Seebohn Rowntree, distinguendo tra povertà primaria e secondaria; sotto la prima ricadevano coloro che con il loro salario non coprivano il minimo per l’esistenza, sotto la seconda coloro che avrebbero potuto farlo ma ne erano ostacolati da spese talvolta inutili. Da queste inchieste emerge chiaramente che la povertà non deriva dalla poca voglia di lavorare ma dai troppo bassi salari, che gli imprenditori a loro volta giustificavano con l’esigenza di far fronte alla concorrenza. Il lavoro di Rowntree ebbe ripercussioni immediate perché il suo amico nonché ministro delle finanze Lloyd George, venuto a conoscenza delle conclusioni, intraprese riforme sociali anche per impedire rivolte a carattere socialista. Insomma, con le nude cifre e senza bisogno dell’ideologia di Marx e Engels ma anche del Marchese di Condorcet, che aveva messo a punto negli anni ’90 del settecento la sua idea sull’avanzamento dello spirito umano, creando la moderna idea di progresso.
Fonte: eticaeconomia.it
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.