di Aldo Garzia
I lettori dello spagnolo/messicano Paco Ignacio Taibo II conoscono e apprezzano la sua scrittura scoppiettante e da giallista affermato con cui ha conquistato fama internazionale. C’è anche un Taibo narratore di personaggi e storico. Sua è una biografia di Pancho Villa (Tropea, 2006) e sua è la monumentale biografia di Ernesto Guevara pubblicata nel 1996, che ora ritorna, rivista e aggiornata, in occasione dei cinquant’anni dalla uccisione del Che in Bolivia nel novembre 1967: Senza perdere la tenerezza (Il Saggiatore, pp. 1.116, euro 26).
IL RAPPORTO tra Taibo e Guevara ha un antefatto curioso. Nel 1994 uscì un suo libro con il titolo L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte (Newton Compton), in cui per la prima volta si faceva chiarezza su un passaggio della biografia guevariana relativo al 1965, data che precede la decisione della spedizione guerrigliera in Bolivia. Taibo, a cui per la prima volta vennero aperti gli archivi cubani (lui disse di aver potuto consultare solo per poche ore alcuni documenti riservati), fu il primo a scrivere di una missione internazionalista in Africa, specificamente in Congo, coordinata da Guevara proprio nel 1965. In seguito, si apprese dell’esistenza di un diario africano, che Guevara visse a Praga dopo l’Africa e poi fece ritorno in incognito a Cuba per addestrare il gruppo di guerriglieri che lo avrebbe accompagnato in Bolivia. Una consegna del silenzio e di riservatezza aveva circondato le vicende di Guevara dal 1964 – quando non comparirà più a Cuba – fino alla morte nel 1967.
DI UNA NUOVA EDIZIONE di questa biografia scritta da Taibo c’era indubbiamente necessità. Negli ultimi vent’anni il dibattito e la ricerca intorno al Che sono proseguiti incessantemente, come ricorda lo stesso autore nella sua nota introduttiva. Cuba ha fornito nuovi particolari biografici su quello che la storiografia ufficiale dell’isola definisce il «guerrigliero eroico».
Fidel Castro ha dato, inoltre, il nulla osta perché fossero pubblicati per la prima volta gli scritti di Guevara rimasti inconclusi e inediti, in particolare gli appunti filosofici e quelli di economia politica che rappresentano il lavoro più maturo della sua produzione teorica e quelli più polemici verso la modellistica sociale ed economica del «socialismo reale» di Mosca e dei paesi dell’Est.
Altri documenti parzialmente inediti sono stati pubblicati relativi al dibattito economico che divampò a L’Avana nei primi anni Sessanta e che vide il Che, pur nella sua carica di ministro dell’Industria, andare in minoranza sull’idea del progressivo abbandono della monocultura della canna da zucchero e di una rapida industrializzazione dell’isola per renderla il più possibile indipendente. Oggi, a differenza di due decenni fa, di Guevara sappiamo quasi tutto e gli inediti – se ce ne sono ancora – non sono fondamentali per un giudizio definitivo sulla sua personalità.
INTANTO – ricorda Taibo nella sua minuziosa ricostruzione biografica – non muore il mito Guevara. La sua icona ha tutti gli ingredienti per resistere al logorio del tempo: l’assassinio in Bolivia a 39 anni, l’abbandono dell’Avana quando era al culmine delle gratificazioni come leader della rivoluzione, la coerenza tra il dire e il fare portata alle estreme conseguenze (come annotava Eduardo Galeano), il volto bello e giovane ritratto in decine di fotografie (in particolare in quella di Alberto Korda che lo raffigura con basco e sguardo rivolto all’orizzonte), l’impossibilità di invecchiare sia nel fisico sia nelle idee, un viaggio giovanile in alcuni paesi latinoamericani a bordo di una moto come farebbe un ragazzo degli anni 2000, la laurea in medicina per rendersi socialmente utile. Grazie a questi ingredienti, Guevara è diventato uno dei riferimenti del 1968 e poi dei movimenti di rivolta successivi, fino a quello recente «no global».
È l’unico mito rivoluzionario che resiste sia in Europa sia in America Latina, dove dell’iconografia comunista non sono sopravvissuti né Lenin né Mao né Trotzsky e neppure Rosa Luxemburg. Per le nuove generazioni, anche se non hanno mai letto i suoi scritti e conoscono ben poco di lui, il Che resta sinonimo di ribellione al potere e di indissolubile rapporto coerente tra etica e politica.
QUELLO CHE PIACE nella lettura delle oltre mille pagine della biografia scritta da Taibo è il rifuggire da facili cliché per sgombrare il campo da interpretazioni un po’ agiografiche o semplicistiche. L’idea che Guevara sia una sorta di moderno Don Chisciotte guerrigliero non gli rende onore. Il Che non è stato soltanto uomo d’azione, ma anche statista (troppo spesso resta in ombra l’esperienza di ministro dal 1961 al 1963, anni decisivi nella transizione cubana) e autore di alcuni libri fondamentali sulla rivoluzione dei barbudos. Un altro errore – si evince dalla lettura di Taibo – è considerare il pensiero politico di Guevara come un nucleo teorico a tutto tondo, un marxismo libertario e umanista da contrapporre al marxismo autoritario ed economicista.
La sua biografia intellettuale è, invece, empiricamente caratterizzata da scelte che avvengono sulla scorta di esperienze, incontri, letture e maturazione politica indotta dall’esperienza a L’Avana. Il Che, all’inizio della sua avventura cubana, era un marxista dottrinario che guardava con favore alle esperienze del «socialismo reale». Poi matura progressivamente un distacco da quei modelli. Ci sono perciò nei suoi scritti intuizioni e spunti critici, non ancora una teoria alternativa al socialismo di Stato. La vita di Guevara si spezza per giunta mentre la sua riflessione è in evoluzione e non ha ancora preso la forma compiuta di un’alternativa al modello sovietico. In soli undici anni, da quando parte nel 1956 con Fidel Castro dal Messico alla volta di Cuba fino alla decisione di guidare la guerriglia in Bolivia, il Che condensa una serie straordinaria di esperienze e riflessioni politiche che lo trasformano in un personaggio assolutamente singolare.
Taibo rifugge pure dal cliché della «rottura» politica tra Castro e Guevara. Preferisce far parlare documenti e testimonianze sulla doccia fredda arrivata nel 1963, quando il Che sferra un attacco ai primi segnali di burocratismo e cerca di modificare il sistema di pianificazione. In quel cruciale 1963 si era aperto lo scontro al vertice del governo cubano a cui contribuiscono due economisti europei, presenti a L’Avana come consulenti: Ernest Mandel e Charles Bettelheim. Il primo sostiene le posizioni di Guevara, il secondo è d’accordo con quanti chiedono una rapida correzione di rotta per tornare al primato dell’agricoltura.
La sterzata finale arriva quando un documento del Consiglio dei ministri ufficializza che l’agricoltura e la canna da zucchero devono tornare il fulcro dell’economia dell’isola. Il Ministero dell’industria, di conseguenza, perde il controllo delle attività produttive. È in quel passaggio che Guevara matura la decisione definitiva di lasciare L’Avana su cui stava meditando da tempo. Taibo riporta una confidenza del Che fatta a un suo collaboratore già nel 1961: «Restiamo qui per cinque anni e poi ce ne andiamo. Anche più vecchi di cinque anni, potremo ancora fare una guerriglia». Poi verranno le missioni sfortunate in Africa e Bolivia, che Taibo ricostruisce puntigliosamente.
LA MORTE DI GUEVARA chiuderà un’epoca della rivoluzione cubana e della storia dell’America Latina. Cuba ripiega. Sfuma l’obiettivo guevariano di estendere la rivoluzione in altri paesi del continente (dove prevarranno spietate dittature militari) e di sottrarsi al dilemma o Stati Uniti o Unione sovietica. Implacabili ammonimenti sulle possibili alternative erano già venuti nel 1961 (la tentata invasione a Playa Girón finanziata da Washington) e nel 1962 (la «crisi dei missili», lo scontro Kennedy-Krusciov sull’installazione di ordigni nucleari a Cuba). La rivoluzione cubana in quei frangenti si istituzionalizza e imita, pur mantenendo indubbi margini di autonomia in politica estera e interna, gran parte delle malattie del «socialismo reale», soprattutto nel decennio settanta, definito dagli stessi intellettuali cubani «decade grigia»: burocrazia, inefficienza, partito unico. Solo nel 1987, a vent’anni dalla morte di Guevara, Castro tenterà il recupero delle riflessioni politiche del Che. Il contesto è quello delle riforme della perestrojka avviate da Mikhail Gorbaciov a Mosca. Cuba preferisce cercare altre alternative, scavando nelle origini della propria rivoluzione. Arriverà ben presto però la crisi economica seguita al crollo del «socialismo reale» a rendere più pragmatica la politica dell’Avana giunta con caparbietà e coraggio – non privi di contraddizioni e abbagli – fino al nostro 2017.
Fonte: Il manifesto
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