di Sergio Farris
Noto che da molti commenti sui giornali sprizza una certa misura di soddisfazione riguardo all'approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, di un Decreto facente parte della “riforma” Madia della Pubblica Amministrazione, quello sui cosiddetti “furbetti” del cartellino. Un provvedimento che, in tempi di populismo dispiegato longitudinalmente fra le forze politiche, nella concezione dei suoi autori dovrebbe assumere l'apparenza di una svolta a lungo attesa dal paese.
Premesso che il licenziamento per flagrante dichiarazione infedele rispetto alla presenza nel luogo di lavoro non è certo una novità normativa (ciò che cambia è solo la procedura, con una peraltro poco garantista sospensione dal servizio prima del processo disciplinare), ciò che sorprende è la miopia della stampa verso le condizioni in cui versa il pubblico impiego, così come esse risultano anche e soprattutto per effetto delle varie “riforme” che, da parecchio tempo, si susseguono schizofrenicamente.
In altri termini, i tre milioni dei lavoratori che si occupano onestamente dei servizi pubblici, avrebbero voluto constatare lo stesso sentimento di pubblico sdegno (con relativa amplificazione mediatica) quando è stato ad essi negato il fondamentale diritto democratico alla contrattazione delle proprie condizioni retributive (con l'implicazione di una netta decurtazione salariale) nonché, in generale, lavorative. Un diritto che ha continuato a venire negato nonostante la sonora pronuncia di illegittimità emessa dalla Corte Costituzionale, salvo poi venire ipocritamente riesumato da Renzi e Madia, a fini di consenso, pochi giorni prima del Referendum costituzionale.
Così come non suscita nessuno scandalo e non subisce esposizione alcuna al pubblico ludibrio la condizione di precariato (nelle forme sottopagate di voucher, praticantato, servizio civile, ecc.) che connota in modo oramai strutturale il funzionamento dei servizi pubblici.
Chi commette truffa ai danni dello Stato deve pagare. Ma il settore pubblico non ha bisogno di provvedimenti solo e sempre basati su una populista e pregiudiziale logica repressiva. Non ha bisogno di casi montati ad arte al fine di concentrare l'attenzione dell'opinione pubblica per indurla a credere che il maggior problema del settore pubblico sia l'assenteismo e, intanto, continuare con la politica delle riduzioni di spesa e della sottrazione alla contrattazione di essenziali materie, come ad esempio, l'organizzazione.
Il settore pubblico necessita di ben altro genere di provvedimenti.
Necessita anzitutto di investimenti in risorse umane stabilmente in organico, con una particolare cura alla motivazione (che dovrebbe tornare ad essere l'interesse della collettività) e all'aspetto formativo. E necessita poi di ingenti investimenti in risorse materiali.
Sono decenni che viene coltivata e alimentata, dalla politica e dai media, una mentalità che presuppone “il pubblico” quale mero sottrattore di risorse all'individuo privato. Un'impostazione fuorviante e fallace del ruolo dello Stato. Il settore pubblico non dovrebbe più essere visto come una macchina che drena risorse al settore privato (il quale, a ben vedere, raramente le impiega meglio), ma dovrebbe esso stesso essere visto come una risorsa.
In coerenza con la pervasiva filosofia dello stato minimo, la Pubblica Amministrazione è ormai ridotta ad ancella spesso ratificatrice (si pensi alla retorica sulla velocità nel rilascio di sempre più lasche autorizzazioni) di interessi del privato e, nel caso della prestazione di servizi come la sanità, l'istruzione o i servizi pubblici locali “a rete”, alla funzione di (re)distributore di risorse e vantaggi al privato. Il che avviene sia nella forma dei servizi pubblici privatizzati (magari devoluti in nome del principio di sussidiarietà) che nella forma della concessione supportata dalla “finanza di progetto”.
C'è nell'attuale panorama di forze politiche attuale una formazione disposta a riconoscere allo Stato il ruolo che gli è proprio e ad impegnarsi in un'inversione culturale e pedagogica di 180 gradi?
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