di Franco Palazzi
Non avrei voluto scrivere della storia di Michele Valentini, l’uomo che si è tolto la vita qualche giorno fa lasciando una lettera divenuta un caso mediatico. Il suicidio è sempre una richiesta estrema, magari illusoria ma non per questo meno radicale, di autonomia, e pensare di avere qualcosa da aggiungervi è spesso un atto di tracotanza. Il testo che lo accompagna rende questo specifico suicidio un gesto (anche) politico, è vero, ma il rischio di violentare la memoria della persona in questione proiettandole addosso i propri preconcetti è molto alto in situazioni del genere. È un rischio che ho deciso di correre dopo aver letto quello che la stampa italiana è riuscita a produrre su questa vicenda: una lunga sequela di banalizzazioni, giudizi farisaici, tesi sbilenche.
Non sarebbe inutile, allora, partire proprio dalle modalità con cui tentare di approssimarsi ad una storia così dolorosa.
Innanzitutto, non hanno senso gli approcci pseudo-psicologistici, quelli che tentano di dedurre un carattere da qualche decina di righe per agguantare non si sa bene quale verità sul soggetto – che ovviamente sarebbe stata celata al soggetto stesso. Questo esercizio non ha niente a che fare con la psicoanalisi e non ha nessuna base epistemica accettabile. Di fronte ad un documento come la lettera di Michele (della cui esistenza conosciamo pochissimi dettagli) davvero “non c’è fuori-testo”, e qualunque illazione sugli ulteriori pensieri che devono essergli passati per la testa, sulle esperienze avute, sulla sua visione del mondo, andrebbe bollata come tale.
In secondo luogo, non c’è niente di peggio da fare di fronte alla lettera di un suicida che mettersi a contro-argomentare. Non si ha davanti un saggio pensato per la pubblicazione, né la provocazione di qualcuno che avrà eventualmente modo di aggiustare il tiro, replicando alle nostre critiche. Voler lasciare una testimonianza, anche politica, della propria condizione, non significa avere intenzione di produrre una conoscenza scientifica – e nulla nelle parole di Michele lascia sospettare il contrario. Trattandosi, poi, di un documento scritto evidentemente in un momento di forte tensione biografica ed emotiva, si presta ancora meno ad un’analisi argomentativa: ci sono pochi dubbi sul fatto che la stessa persona, avesse svolto riflessioni di quel tipo in circostanze meno drammatiche, avrebbe potuto presentarle in forma diversa, forse più consona ad un dibattito.
Ma un messaggio d’addio non è un opera da dissezionare, valutandone la struttura o la coerenza interna, è un oggetto non ulteriormente scomponibile, un concentrato talmente denso e arbitrario dell’identità di chi lo ha composto che non si possono staccarne delle parti senza alterarne il tutto.
Un altro atteggiamento da censurare è sicuramente quello che prova ad accusare ex-post il suicida. Di solito, una prospettiva del genere si basa su due fallacie: la prima, secondo cui chi si uccide starebbe al contempo proponendo ad altri di imitarlo, sostenendo che non ci sia altra soluzione che la morte ad un dato stato di cose; la seconda, per la quale solo alcuni, di solito in condizioni ritenute sulla base di non si sa quale criterio peggiori rispetto a quelle del suicida, avrebbero il diritto (??) di togliersi la vita. Michele non si è fatto saltare in aria in un centro commerciale, non ha preso ostaggi, non si è atteggiato ad adepto di una qualche setta thanato-politica. Non ha neppure rivendicato l’esclusiva sulla sofferenza. Coloro che dicono che con la morte non si risolvono i problemi del mercato del lavoro, che non si vince la solitudine diffusa, ragionano già in una prospettiva ideologica, introiettando quella che Ulrich Beck indicava come una delle caratteristiche della modernità riflessiva: la richiesta di trovare soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche. Certo che la morte non risolve i problemi socio-economici, ma l’illusione sta proprio nel credere che una qualunque altra scelta personale, singolare – magari più smart, più talentuosa – possa riuscirci. Ritornerò su questo punto.
Alla luce di queste prime considerazioni, verrebbe forse da domandarsi se esistano modi legittimi di scrivere o parlare della storia di Michele, o se il massimo che si possa fare sia condividere le sue parole. Per provare a percorrere la prima strada, andrebbero anzitutto problematizzate le circostanze che hanno reso nota la vicenda: i genitori di un uomo che si è tolto la vita inviano il suo ultimo messaggio ad un giornale, che lo pubblica; molti altri media lo riprendono nelle ore successive e la discussione si espande in breve tempo sui social network.
Una cosa sorprendente in questo schema è che storie simili hanno di rado una tale diffusione. Non è difficile immaginare (basta provare a lanciare uno sguardo ai dati Istat) che di situazioni di precarietà economica ed esistenziale ne esistano molte nel nostro Paese, eppure di rado conquistano i titoli dei telegiornali o le pagine dei quotidiani. Al più, si possono trovare in qualche approfondimento di seconda serata, o in studi accademici letti (quando va bene) da poche migliaia di addetti ai lavori. Se Michele non si fosse ucciso, non staremmo qui a discuterne. Il modo in cui fruiamo e creiamo informazione ha una tendenza chiaramente necrofila – e un lavoro critico come questo articolo non è forse anche la conferma della difficoltà, per tutti noi, di uscire da tale dinamica? La cronaca segue (selettivamente) i decessi, e gli stessi che oggi spendono fiumi di parole in paternali indirizzate ex-post a Michele non avrebbero dedicato, la settimana prima, un minuto del proprio tempo a seguire una protesta di persone in condizioni simili a quelle del grafico friulano.
Sembra quasi che chi abita certe posizioni sociali trovi nel darsi (o dare) la morte l’unico modo per ergersi al di sopra della soglia di intelligibilità, per superare il rumore di fondo. Si tratta di un fenomeno osservato da tempo, di cui si potrebbero fare esempi ancora più drammatici di quello che stiamo discutendo qualora si considerino contesti in cui le stesse istituzioni politiche sono strutturalmente sorde alle richieste dei singoli – pensiamo a Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco nel dicembre 2010 a Sidi Bouzid dopo la confisca, arbitraria e inappellabile, della sua unica ricchezza, la merce che vendeva come ambulante (Uzzell 2012). Da un punto di vista informativo, la decisione di togliersi la vita può segnalare la gravità che un certo insieme di fattori (anche) politici e socio-economici ha assunto in un caso particolare, ma in nessun modo crea, o anche soltanto svela quei fattori (che erano lì da prima e che lì sarebbero rimasti anche senza una notizia eclatante). Né si può asserire che solo una morte possa segnalare il delicato impatto esistenziale di certe condizioni – anche perché il suicido non è l’epifania improvvisa di un malessere prima inesistente. Qualunque analisi di fatti simili non può esimersi dal considerare che le condizioni per l’ingresso di certe forme di sofferenza nella sfera pubblica sono attualmente queste.
(Anche a voler essere (colpevolmente) inconsapevoli di quanto detto sin qui, abbiamo – purtroppo – dati a sufficienza per sostenere, ad esempio, una correlazione significativa tra crisi economica, disoccupazione ed aumento del numero di suicidi -e.g. Madianos et al. 2014; Nordt et al. 2015; Oyesania et al. 2015).
Una volta fatto questo primo passo, si può provare a concentrarsi sul contenuto della lettera di Michele – non per starne pateticamente a segnalare questo o quel difetto, ma per alzare gli occhi su quella realtà verso la quale essa punta deliberatamente il dito.
Uno dei passaggi più criticati dai moralisti a buon mercato è quello in cui Michele scrive “non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione”. La cosa che mi sembra più lampante in questa frase è l’accento sulla quantificazione. Persino nel rifiutare radicalmente un sistema che pone sulle spalle dei singoli aspettative talmente onerose da essere manifestamente irrealizzabili per la gran parte, e che gli aveva negato lavoro e realizzazione, l’autore della lettera pare lottare costantemente con la logica di fondo di quel sistema, che vuole tutto misurabile, confrontabile – e quindi, in ultima analisi, comprabile.
La tendenza generale a quantificare, così come la monetizzazione dei rapporti sociali che ne è la dimostrazione forse più lampante, è una caratteristica del capitalismo che già Max Weber – che la chiamava Rechenhaftigkeit – aveva notato. Oltre un secolo dopo, la teoria economica continua ad ostinarsi, in molti casi, a considerare la massimizzazione dell’utilità come l’unica spiegazione del comportamento umano (e.g. Dosi e Roventini 2016). Il punto su cui soffermarsi, pertanto, non è, come notato da più di un commentatore, che un giovane uomo si è tolto la vita perché “non si è saputo accontentare”, perché voleva il massimo, ma il fatto che sia difficile, all’interno del nostro contesto, persino esprimere dei desideri in termini nettamente estranei all’ideologia dominante.
Mark Fisher, scomparso qualche settimana prima di Michele Valentini, definiva realismo capitalista “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico attuabile, ma anche che sia attualmente impossibile solo immaginare un’alternativa coerente ad esso” (2009: 2). Lo status quo ha ormai occupato “gli orizzonti di ciò che è pensabile” (8), compiendo una piena naturalizzazione di se stesso, impiantando con successo una ontologia del business in forza della quale è completamente ovvio che tutto nella società debba essere improntato al profitto (16). Fisher ha anche messo in luce come le notevoli ripercussioni psichiche del neoliberismo (quali livelli crescenti di stress ed una depressione sempre più diffusa) vengano perlopiù derubricate come problemi individuali, in una dinamica in cui la patologizzazione va di pari passo con la privatizzazione di certe condizioni (21) – che invece andrebbero politicizzate ricercandone gli inneschi sociali (37).
Sarebbe errato concepire i fenomeni appena delineati come il portato di una realtà esclusivamente economica – ed il riferimento al capitalismo come un orpello passatista sintomo di quella malinconia di sinistra che Walter Benjamin riscontrava in coloro che sono più interessati a determinate (perlopiù desuete) categorie analitiche che al cambiamento della società (Brown 1999).
Nella sua lettera, Michele chiama in causa, ora direttamente (menzionando il ministro Poletti), ora implicitamente (scrivendo di non sentirsi rappresentato da niente e da nessuno) quel potere politico che pure è corresponsabile dell’assetto dell’economia in generale e del mercato del lavoro in particolare. Nella drammatica immediatezza del commiato, le sue parole ci riportano al rapporto ineludibile tra le due dimensioni con più forza di tante analisi sofisticate.
Parlare del capitalismo come lo sfondo di quel documento, allora, non significa voler rinchiudere l’individualità di un uomo nell’applicazione del gergo asfittico del diciannovesimo secolo, ma piuttosto comprendere che il capitalismo oggi è un ordine sociale istituzionalizzato, che ha a che fare non solo con lo sfruttamento di chi un lavoro ce l’ha e l’emarginazione di chi non riesce a trovarlo, ma anche con le condizioni che rendono possibile una tale dinamica: determinate scelte politiche presentate puntualmente come le uniche percorribili in una profezia che si auto-avvera; la commercializzazione indiscriminata delle risorse naturali sulle cui conseguenze disastrose lo stesso Michele si soffermava; la sfera della riproduzione sociale e della cura, che crea e mantiene i rapporti indispensabili alla vita di qualunque comunità (Fraser 2014).
È forse della forzata contrazione, o comunque del riassetto di questa ultima componente che Michele Valentini ha sofferto di più, e c’è una parte di verità in quanto scriveva Franco Berardi Bifo qualche settimana fa: ad uccidere non è la disperazione che scaturisce da uno scenario politico senza apparenti vie d’uscita, ma la depressione – intesa, più che come condizione dell’intelletto, come uno stato del cuore e del corpo.
La sfida, allora, non è soltanto nel leggere criticamente il presente alla ricerca di nuove teorie e pratiche alternative, ma innanzitutto nel fronteggiare gli aspetti umanamente più disturbanti di questo presente, nel non abbandonare alla solitudine – all’intoccabilità corporea, come direbbe Berardi – coloro che ci stanno intorno.
Per chi svolge un lavoro intellettuale, in ambienti assediati dal produttivismo e simili, nella migliore delle ipotesi, a riserve indiane, si tratta forse del compito più difficile. Ai tanti Michele che incontriamo, magari inconsapevolmente, dobbiamo l’impegno a provarci con tutte le nostre forze, qualunque sarà la loro decisione finale, che deve rimanere insindacabile e non del tutto riducibile a nessuna riflessione esterna – nemmeno a questa.
Fonte: Effimera
Originale: http://effimera.org/michele-franco-palazzi/
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