di Luigi Pandolfi
Da un trentennio a questa parte, per effetto della globalizzazione economica e finanziaria e dei mutamenti nella struttura economica a essa riconducibili, stiamo assistendo a un progressivo declino delle periferie, a una lenta deriva delle aree interne. In Italia, dove per secoli l'elemento identitario, prima ancora che la nazione, è stato il Comune, tale declino assume un significato molto più profondo, produce maggiormente inquietudine e smarrimento. Non è una questione di numeri: in Europa il nostro Paese non è ai primissimi posti per numero di municipalità. In Francia, solo per fare un esempio, i communes sono ben 36.680 (uno ogni 1774), quattro volte tanto il numero dei nostri Comuni (poco più di 8 mila, uno ogni 7500 abitanti).
Ma la storia dei nostri comuni è diversa. È la storia di autonomie che per secoli hanno conteso il potere ai signori feudali, ai re, alla Chiesa, sulle quali poggiano i nostri principali legami comunitari. Non è un caso che nelle nostre città, finanche nei più piccoli borghi, il campanile e la torre civica sono quasi sempre dirimpettai, si contendono la piazza, l'agorà.
Tornando all'oggi, stiamo parlando di quel fenomeno che conosciamo con i nomi di desertificazione e spopolamento: "rinsecchimento" dei sistemi produttivi locali, tendenza allo svuotamento insediativo per effetto del saldo negativo tra morti ed emigrazione da un lato, nascite e immigrazione dall'altro.
Secondo un recente studio di Legambiente, i comuni italiani a rischio estinzione sarebbero ben 2.430, il 30 per cento. Se si considera che nel nostro Paese i comuni con meno di 2.000 abitanti sono ben 3532, il 43,8% del totale (il 70% è al di sotto dei 5.000 abitanti), non si può escludere che il fenomeno possa assumere proporzioni ancora più allarmanti nei prossimi anni, complice la persistente crisi economica che, dalle nostre parti, si è stabilizzata in una forma molto perniciosa di stagnazione.
A ben vedere si tratta di un fenomeno che travalica i confini della vecchia dicotomia Nord-Sud, se è vero, per esempio, che il numero maggiore di comuni a rischio è concentrato in Piemonte ed in Calabria, rispettivamente 284 e 300. C'entrano molto, invece, l'orografia e la distanza di questi piccoli centri dalle principali vie dello sviluppo regionale, come dimostra, per esempio, il caso della provincia bellunese in Veneto, e, di converso, la crescita, un po' ovunque, del numero di abitanti nei grossi centri, con tutti i problemi - sociali, ambientali, urbanistici, economici - che ne conseguono.
Si tratta di un fenomeno ineluttabile? Difficile fare previsioni. Certo, negli ultimi anni sono state adottate alcune strategie di contrasto, affinando le metodologie di indagine, isolando i principali elementi di criticità, investendo, con incentivi economici e finanziamenti mirati, sulle esperienze di resilienza territoriale. Parliamo di una progettualità che ha come fulcro la sfera economica e produttiva, il potenziamento dei servizi. In questo quadro si inserisce la "Strategia nazionale per le Aree interne", accordo di partenariato tra il nostro Paese e l'Europa nell'ambito della Programmazione 2014-2020 dei fondi comunitari.
Agricoltura, turismo e sistema ricettivo, accoglienza, recupero ambientale, valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, scuola, sanità, sport. Piccoli passi, ma c'è ancora molto, moltissimo, da fare. Anche perché tali decisioni, pur importanti, si scontrano con la scarsità di mezzi e risorse con cui i comuni, quotidianamente, sono costretti a fare i conti. Non dimentichiamo che negli ultimi anni i comuni sono stati colpiti pesantemente dalla cosiddetta spending review, espressione dolce, apparentemente neutra, per significare tagli orizzontali, indiscriminati, alla spesa pubblica.
Nel frattempo, si sta facendo strada un nuovo municipalismo. Questione democratica che, naturalmente, non riguarda solo il nostro Paese, né si può circoscrivere ai piccoli comuni. Anzi. Dentro l'attuale governance economica europea, parlamenti e governi nazionali sono stati pesantemente menomati nelle loro funzioni tradizionali, di rappresentanza e di indirizzo politico. Il cosiddetto "vincolo esterno" ha di fatto eroso l'autonomia degli Stati membri, senza un trasferimento della sovranità a un demos europeo. Sono poteri non eletti, a-democratici per definizione, totalmente indipendenti, impermeabili alle sollecitazioni della società, quelli che reggono le sorti dell'Europa.
Dalle periferie, intanto, cresce una domanda di partecipazione alla vita pubblica che non trova sfogo, né potrebbe trovarlo, nelle forme tradizionali di organizzazione della politica. Autorganizzazione, assemblearismo, riappropriazione di spazi pubblici, la città, il quartiere. Da grandi metropoli come Barcellona a piccoli borghi della periferia meridionale italiana, la città, il comune, il territorio, diventano luoghi d'elezione per una politica fondata sulla partecipazione diretta dei cittadini, se non altro per il rapporto di prossimità tra quest'ultimi e le istituzioni locali. In alcuni comuni fanno capolino i cosiddetti "patti di collaborazione" tra municipi e cittadini (e associazioni), per la cura del verde, la coesione sociale, la cultura, la salute, i beni culturali, la scuola. Cresce, un po' ovunque, la "cultura" dei beni comuni.
Beninteso: il municipio non potrà mai sostituire lo Stato nell'esercizio di determinate funzioni, di indirizzo, coordinamento, programmazione economica. Nondimeno, perché non trasferire agli enti locali poteri e competenze (e risorse adeguate) in materia di welfare, cura e recupero dell'ambiente, accoglienza, lotta alla povertà, al disagio abitativo, all'esclusione? Che poi, non sono proprio questi i temi (ed i problemi) che maggiormente interessano (e preoccupano) i cittadini? Non c'è dubbio.
Come non c'è dubbio che la partecipazione diretta alle decisioni, la condivisione delle scelte, il controllo sull'impiego delle risorse e sui risultati da parte dei cittadini garantirebbe maggiormente il rispetto dei principi di efficienza e di efficacia, ai quali l'azione amministrativa dovrebbe comunque ispirarsi.
Peraltro, non è più sostenibile un modello dove i comuni, senza poteri e risorse, sono costretti a raccogliere, filtrare, la disperazione di un numero sempre più ampio di indigenti, di chi non ha accesso alle cure, ai servizi di base. Troppo facile riconoscere che i sindaci oggi sono degli eroi civili ("Sventurato quel popolo che ha bisogno di eroi", fa dire Bertold Brecht a Galileo in una sua celebre opera). Sarebbe meglio metterli nelle condizioni di servire "normalmente" le proprie comunità.
Torniamo al punto. La lotta allo spopolamento, all'abbandono, delle aree e dei piccoli borghi interni, non può che passare attraverso una rivitalizzazione della loro vita democratica, accompagnata a un decentramento di funzioni e di risorse: partecipazione e welfare locale, i due corni della questione.
Non è impossibile invertire la tendenza: in Francia, ogni anno, più di centomila persone lasciano i grandi centri per trasferirsi in borghi di periferia. Secondo alcune stime, pubblicate recentemente dal quotidiano Le Monde, comuni che avevano perso fino al 90% della popolazione, ne hanno guadagnato negli ultimi anni fino al 30%. Il caso non c'entra, direttamente, con le questioni che abbiamo finora trattato, ma dimostra che, a determinate condizioni, molte persone potrebbero essere interessate a lasciarsi alle spalle la vita caotica delle città, ovvero rimanere nei borghi d'origine.
A proposito delle esperienze che si muovono nel solco di un nuovo municipalismo, si parla spesso di "città ribelli". Come non pensare, allora, alla storia, alle lotte dei "liberi comuni" medievali? Il moderno Barbarossa oggi è una governance comunitaria dentro la quale l'intera filiera democratica, dal più piccolo municipio allo Stato centrale, è strozzata dai limiti imposti all'autonomia decisionale e programmatica dei soggetti coinvolti. Un nuovo "movimento comunale" potrebbe essere, pertanto, una risposta ad alcuni problemi stringenti che abbiamo davanti. Ed anche un'occasione per ridare dignità alla politica.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autore
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