di Maurizio Lazzarato
Il bel libro di Davide Gallo Lassere mi sembra una buona occasione per una discussione sui “compiti dei comunisti” in questa fase (penso al convegno C17, visto – anche se poco – sul web). Un libro bello perché pone domande pertinenti. È a partire dalle risposte possibili che vorrei impostare un dialogo, piuttosto che scrivere una recensione tradizionale. Davide si domanda come sia stato possibile, dopo una stagione di vittorie culminate negli anni ‘70, aver subito una sconfitta strategica come quella che ci ha inflitto il neo-liberismo. Aggiungerei che occorre capire quali siano le ragioni delle più recenti sconfitte: quella subita dalle mobilitazioni contro la loi travail non è che l’ultima di una lunga serie.
È proprio dai concetti di “lavoro” e di “produzione” che vorrei partire. In realtà essi non sono concepibili (a partire dalla conquista delle Americhe) senza il lavoro degli schiavi nelle colonie, né senza il lavoro di riproduzione delle donne, cosa che il marxismo ha ignorato o difficilmente integrato politicamente (e comunque mai nella sua teoria del “valore”). Inoltre, mi sembra che le divisioni di classe, di razza e di sesso costituiscano la “natura” non solo economica, ma politica del capitalismo. Le gerarchie di classe, le gerarchie di colore e le gerarchie fondate sull’eterosessualità, comprensibili soltanto dal punto di vista dell’economia-mondo, sono anche quelle su cui si esercita la governamentalità e sulle quali il potere costruisce i suoi modelli di assoggettamento.
Queste divisioni sono in realtà tre diversi modi di condurre la guerra civile. In tutti i tournant della sua storia, il capitalismo riprende l’iniziativa politica “innovando”, ristrutturando, distruggendo uomini e cose, ma l’innovazione, la ristrutturazione e la distruzione sono sempre filtrate da queste divisioni. Quando tutto ciò è politicamente in pericolo, il capitalismo non esita a incoraggiare e a foraggiare forme di reazione che si manifestano e si consolidano a partire precisamente dall’affermazione di queste gerarchie e di queste “guerre civili”.
Il passaggio di cui parla Davide a proposito del neo-liberismo – dalle “armi della critica” (la “Societé du Mont Saint Pelerin”) alla “critica delle armi” (la rottura del compromesso fordista che porta il capitale a considerare il proletariato come un nemico da battere senza più mediazioni) – va inteso dunque fuor di metafora. I prodromi della guerra civile che si stanno scatenando negli Usa (una guerra civile che attraversa ormai anche le elite economiche e amministrative) sono fomentati dai neo-fascismi che designano il nemico di classe nel rifugiato, nell’immigrato, nel musulmano (i “negri” del post-colonialismo) e che vogliono ristabilire le gerarchie eterosessuali (la supremazia maschile).
L’intensità delle guerre civili in corso dipenderà solo dall’intensità dello scontro di classe. È solo la debolezza politica dei movimenti che permette a Trump di aggiungere un altro strato di neo-liberalismo (questa volta dalle tinte post-fasciste) a ciò che era già in corso. Roosevelt, invece, era stato obbligato, di fatto, a decretare l’eutanasia del “rentier”.
Il capitale non corre nessun vero pericolo, perché non c’è niente che assomigli, oggi, all’organizzazione politica e sociale, all’immaginazione politica delle lotte XIX secolo e all’esperienza della Comune di Parigi che chiuse quel ciclo. Ho avuto occasione di far notare a Christian Laval che la solidarietà e l’organizzazione del “comune” del mutualismo ha tutta un’altra portata politica rispetto a quella implicita nel logiciel libre (open source), in wikipedia e in altre mirabolanti dispositivi tecnico-scientifici. E non c’è nulla che possa rimandare al livello di autonomia e indipendenza affermato dalle rivoluzioni della prima metà del XX secolo. Le élites esitano contro Trump, non perché siano democratico-cognitive (la Silicon Valley), ma solo perché non hanno un vero nemico di fronte. Se ci fosse una capacità di critica reale, come quella sviluppata dalla composizione de classe “non cognitiva” tra il XIX e il XX secolo, i diversi poteri avrebbero già scatenato una “produzione della distruzione” paragonabile a quella che ha portato ai fascismi, alle guerre, civili o meno, e alla bomba atomica. Se è successo una volta, può succedere ancora, diceva Primo Levi, e la storia non ha mai insegnato niente a nessuno.
Queste divisioni cominciano a fessurarsi a partire già dal XIX. Si allargano durante le due guerre mondiali e nel Dopoguerra. Il ‘68 dichiara l’impossibilità di riprodurre la separazione tra Nord e Sud, tra colonizzati e colonizzatori, così come afferma la continuità tra lavoro di produzione e di riproduzione e nega radicalmente la naturalità dell’eterosessualità, minando le basi politiche del capitalismo mondiale. Le soggettivazioni delle “guerre civili” in corso anche in Europa, che da latenti si stanno manifestando apertamente, cercano di ristabilirle.
Questa doppia emancipazione dalla schiavitù, dal patriarcato e dalla norma eterosessuale che rappresenta la rottura delle due forme di sfruttamento e di dominio che hanno preceduto lo sfruttamento del salariato, mi sembra più importante dello sviluppo del General Intellect. O per dirla diversamente: quest’ultimo non può attualizzarsi che attraverso tali divisioni, mentre la sua critica non può organizzarsi che contro la macchina da guerra del capitale, costituita politicamente dalle gerarchie suddette. Sarebbe tempo di tematizzare non la potenza dei media, della rete, degli algoritmi (questa fantastica “bufala” della loro capacità di governance), ma la loro impotenza. La possibilità di controllo , di previsione, di formazione dei comportamenti da parte delle “piattaforme” si è miseramente infranta (e non da oggi), sullo sviluppo di soggettività post-fasciste, su cui non hanno alcuna presa.
L’energia soggettiva liberata dalla decolonizzazione e dal femminismo è incomparabilmente, politicamente, più potente che quella generata dal General Intellect. Sono due onde lunghe i cui effetti si faranno sentire molto a lungo e con cui è impossibile non fare i conti.
Il “riprendiamoci il denaro”, la proposta finale del libro – che ha senso solo se inteso come rifiuto del “lavoro” – dovrebbe essere articolato all’interno di queste divisioni che spaccano la composizione mondiale della forza-lavoro per poter avere come obiettivo quello di favorire le rotture soggettive contro lo sfruttamento e il dominio del capitale. Il discorso sul “reddito” rischia di diventare una nuova misura bio-politica di controllo della composizione di classe (Hamon), se non è portata avanti e investita dalle soggettivazioni che emergono dalle lotte contro le gerarchiche di classe, di razza e di sesso. Non c’è alternativa all’invenzione di una nuova trasversalità di un nuovo internazionalismo.
Davide ha ragione nel porre il problema della critica e dei suoi limiti (ma non capisco che cosa c’entrino Boltanski e Chiappello con la critica, visto che hanno ammesso loro stessi i loro evidentissimi limiti: punto di vista riconducibile a un improbabile operaismo socialdemocratico, centrato sulla Francia, che li ha resi ciechi alla globalizzazione e alla finanziarizzazione!).
I concetti che hanno cercato di rendere conto delle “molteplicità” emerse negli anni ‘60 e ‘70 (le minorités, la “popolazione” della biopolitica foucoltiana, la Moltitudine) hanno un doppio limite: sono troppo generici e troppo vaghi poiché non riescono a qualificare i conflitti, a nominare i luoghi della guerra civile in corso e danno per risolto – o non prendono in considerazione – il problema che dovrebbero tematizzare.
D’altro lato, le divisioni di classe, di razza e di sesso definiscono tempi e spazi di soggettivazioni, ma tra di esse si sviluppa una vera e propria “guerra di soggettività”. Il proliferare delle soggettivazioni che il femminismo ha reso possibile (generando comunque profondi dissensi tra femminismo bianco, black e queer), le soggettivazioni che la decolonizzazione ha partorito (di cui fanno parte anche tutti i neo-fascismi islamici), le soggettivazioni di classe (con i suoi conflitti interni tra precari e lavoratori stabili, in realtà sempre più mobili), non esprimono né gli stessi desideri, né gli stessi interessi. Anzi, all’interno di tali divisioni si sviluppano opposizioni che possono arrivare fino alle guerre civili (quelle che attualmente traversano i paesi musulmani e i paesi sottomessi al potere “estrattivo” post-coloniale).
In questo senso ci sono rinvii significativi anche nel testo di Davide. Il più importante, a mio avviso, è quello relativo agli endocolonizzati: le lotte contro la loi travail, “gli arabi e i neri” francesi le hanno per lo più guardate, pur costituendo la parte più povera del proletariato. “Tutti lavorano” diciamo come un mantra. Ma io sono un lavoratore bianco, tu nero, io un lavoratore maschio, tu una donna. Mi ripeto, ma vista la sufficienza con cui si evitano queste questioni vale la pena di ripetere che il razzismo e il sessismo, non sono fenomeni culturali, ma una delle massime espressioni della guerra civile di classe, come i post-fascisti sembrano capire meglio di noi.
Non saranno sicuramente i lavoratori cognitivi a organizzare queste guerre soggettive all’interno del proletariato. Perché allora ci troveremmo ancora dentro i limiti del paradigma marxista. La “classe in sé” (che lavora, produce, coopera cognitivamente prefigurando già il “comune”) che deve diventare la “classe per sé”. Più interessante e più problematico mi sembra il concetto di soggetto imprevisto di Carla Lonzi. Il soggetto non è già dato, va costruito trasversalmente rispetto ai desideri e agli interessi, anche violentemente contrastanti (questo lo aggiungo io). La macchina soggettiva va organizzata dall’interno delle guerre di soggettività che già ci sono, che già si organizzano. Con l’occasione di qualsiasi movimento di qualche rilevanza questi desideri e interessi divergenti si manifestano.
Subito dopo l’elezione di Trump, i diversi femminismi hanno reagito in tempo reale, con una formidabile manifestazione d’internazionalismo che ha però coinciso con i confini dei vari Nord del mondo, mentre ciò che resta del movimento operaio, chiuso nei confini nazionali, è pronto a qualsiasi compromesso trumpiano pur di garantirsi qualche sempre più improbabile posto di lavoro. I diversi Sud del mondo sono stati a guardare. L’internazionalismo che si sviluppa al loro interno è quello dei deliri neo-nazisti di sterminio per vendicarsi delle efferatezze del vecchio e nuovo colonialismo (non sono io a dirlo, ma Zbigniew Brzezinski).
La critica che Davide formula alle posizioni destituenti (che hanno sicuramente il favore della maggioranza dei giovani “rivoluzionari” francesi) e alle posizioni costituenti, la rimodulerei in questo semplice modo: Chi? Chi, davvero, opera la destituzione o la costituzione?
O non c’è risposta (i destituenti) o essa viene data per scontata (i costituenti)!
“Chi” è anche la domanda che bisognerebbe rivolgere a Laval e Dardot. Chi dovrebbe costruire il “comune”? L’istituzione del comune, a mio avviso, deve darsi trasversalmente alle soggettività che emergono dalla lotta contro le divisioni di classe, di sesso e di razza (che Nuit Debout è stata molto lontana, anche dall’anticipare), altrimenti tutto si risolve in un nuovo e impossibile riformismo.
La citazione di Tronti[1] che apre il libro è sintomatica dell’incapacità del marxismo europeo di cogliere, nel Dopoguerra, le dimensioni dei conflitti di razza e di sesso che il ‘68 avrebbe poi criticato.
La prima parte della citazione è semplicemente falsa, perché il punto di vista parziale della classe non permetteva già allora di cogliere il “tutto”. C’era e c’è, e in maniera irreversibile, anche il “punto di vista parziale” del colonizzato (o endocolonizzato) e il punto di vista, altrettanto parziale, della femminista: entrambi vedono in ciascuno di loro un “tutto”, assai differente.
Realtà prontamente verificata, perché, come scrive Rancière, il ‘68 fa esplodere il marxismo. Per Tronti la “grande politica” finisce qui (comincia, in effetti, quella piccolissima del suo partito, quello con cui ha votato il Job Act e la legge sulle unioni civili), mentre Althusser, altro grande marxista del Dopoguerra, sarà costretto a schierarsi contro ciò che vede senza poter capire. Di Adorno ha già detto il movimento studentesco tedesco dell’epoca.
Un po’ come ora, se mi permettete questo azzardo. Non mi sembra che il (nostro) post-operaismo sia armato teoricamente per cogliere quello che sta accadendo.
Abbiamo bisogno di una “lettura politica”, non economicista e non sociologica come dice la seconda parte della citazione, che deve però essere adattata alla nuova situazione, attraversata e caratterizzata da nuove soggettività. Per certi aspetti, ma soltanto per certi aspetti, la congiuntura contemporanea assomiglia all’epoca a cavallo del XIX e XX secolo. I movimenti politici e sociali, oggi come allora, passavano di sconfitta in sconfitta (di massacro in massacro sarebbe più corretto dire per il XIX secolo). Malgrado una capacità di organizzazione e di “creatività” politica (che i lavoratori cognitivi – con tutto il sapere che hanno incorporato – si sognano) venivano regolarmente e violentemente repressi.
Lenin pensa il partito (sul modello della fabbrica dirà Weber), un tipo di soggettività militante (il “rivoluzionario di professione”) un metodo (la coscienza di classe portata dall’esterno da un’avanguardia) etc., per cercare di porre fine alla serie di sanguinose sconfitte. Due sono i problemi principali, su cui i desideri, i sogni e i progetti di rivoluzione si infrangevano: il potere e la guerra. Lenin una risposta la dà ed è anche efficace: prendere il potere e trasformare la guerra imperialista in guerra di classe.
Ora, tra il 1917 e oggi, c’è di mezzo il ‘68 che ha completamento rimesso in discussione la strategia che aveva aperto il ciclo delle rivoluzioni “vittoriose”. Il partito, l’egemonia della classe operaia, l’avanguardia, eccetera non possono funzionare perché espressamente rifiutate dalle soggettività del Dopoguerra. Dal 68 in poi tutti i movimenti hanno rotto con il comunismo e il suo storico successo, come con il suo altrettanto storico fallimento. Ma le questioni del potere e della guerra restano: sono ancora attuali, basta guardarci intorno. Anzi, su questo il ritardo teorico e politico è enorme. Nessuno, negli anni ‘60 e ‘70 è stato in grado di trovare una risposta diversa da quella leninista e, adesso, nessuna sembra neanche preoccupato di cercarla.
La difficoltà dei movimenti contemporanei risiede nell’incapacità di elevarsi al livello dello scontro in corso e di quello che si prepara: la prossima e annunciata crisi finanziaria (tutte le condizioni sono già consolidate, resta de capire cosa farà esplodere le mille bolle che la crisi del 2008 ha fatto spuntare come funghi – Trump, forse?) e le cui conseguenze saranno ancora più drammatiche.
Se l’esperienza europea di Podemos è una risposta alla sconfitta di Syriza, il suo “populismo di sinistra” scoraggia anche i più ben intenzionati, perché non tiene conto né della natura dell’iniziativa capitalista, né della composizione di classe. Alle teorie neo “peroniste” di Laclau, s’è convertita anche Judith Butler, a testimonianza della debolezza del femminismo quando esce dal suo specifico ed è costretto ad affrontare la “lotta di classe” più in generale (vedi anche le banalità raccontate da Donna Haraway e Rosi Braidotti sulla congiuntura trumpista).
La forte mobilizzazione contro la loi travail non esce dai limiti qui velocemente tracciati. Ma nessuna disperazione. Anche il movimento operaio è dovuto passare per una lunga serie di sperimentazioni, di sconfitte e di vittorie parziali, prima di trovare, all’interno delle guerre civili, i metodi e le organizzazioni per resistere e attaccare. È possibile pensare e praticare un nuovo concetto di rottura e di rivoluzione senza i tempi, i metodi e le modalità di organizzazione della “classe” operaia ? È realistica la costruzione di una macchina da guerra riformulata dalle “molteplicità” dei conflitti di classe, di sesso e di razza che abbia la capacità di confrontarsi con le nuove dinamiche neo-fasciste del potere e delle guerre? Fuori da qui, non vedo molte altre strade.
NOTE
[1] Che cosa resta del primo operaismo, di cui Operai e capitale è solo un’espressione? Alcune cose le ho dette nell’introduzione dell’incontro di Nanterre: resta il punto di vista parziale da cui guardare il tutto, resta la concezione conflittuale del rapporto sociale, resta la soggettività delle lotte che impone all’avversario il terreno dell’iniziativa. Ma resta, per me, soprattutto la lettura politica della lotta di classe, l’antieconomicismo, l’antisociologismo, l’antideologismo. È quanto mi porta oggi a sostenere questa idea da pensiero estremo: che per abbattere la minaccia della centralità operaia il capitalismo ha dovuto abbattere la centralità dell’industria, con la conseguenza di questa nuova forma di ordine capitalistico basato sul disordine finanziario, dove non è più la crisi periodica che interrompe lo sviluppo permanente ma, al contrario, lo sviluppo periodico che interrompe la crisi permanente. Quando dico questo, vedo gli occhi sgranati degli economisti, neoliberisti, postkeynesiani o pseudomarxisti, che siano. È vera questa tesi? Non è vera? Non mi interessa. Non cerco la verità storica, oggettiva, buona per tutti gli intellettuali disorganici. Cerco un’idea-forza, politica, che mi serva per costruire un fronte di conflitto che vada alla radice delle divisioni sociali attuali.
Fonte: Effimera
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