di Alessandra Ciattini
La schiavitù del capitale (Bologna 2017) è il nuovo libro di Luciano Canfora, che stupisce sempre per l’ampiezza della sua cultura e per la lucidità delle sue analisi, le quali delineano un quadro complessivo e sintetico delle prospettive storiche che abbiamo davanti a noi. Inoltre, si può cogliere tra le righe il piacere che prova lo studioso italiano, svolgendo il suo attento lavoro di ricerca, anche se da esso emerge un disegno drammatico. La schiavitù del capitale è un saggio breve (111 pagine), nel quale vengono individuati in maniera precisa i gravissimi problemi della società contemporanea, che sarebbe caratterizzata dal “ritorno in grande stile del fenomeno della schiavitù come anello indispensabile del ‘cosiddetto capitalismo del Terzo Millennio’” (p. 69). Questo ritorno non deve meravigliarci, giacché conferma quanto sosteneva Aristotele: “la necessità e l’eternità della schiavitù” (p. 68).
Secondo Canfora la partita che è stata giocata nel corso del Novecento, iniziata con la Grande Guerra, è stata vinta da chi sfrutta e gli sconfitti sono stati gli sfruttati, ma è stato un grave errore credere che questa vicenda abbia posto fine alla storia. Che non fosse così ce lo ha fatto capire il “crollo del lungo, ostinato, alla fine insostenibile esperimento di ‘socialismo’”, evento dal quale possiamo ricavare una serie di osservazioni. Prima di tutto, che la partita è appena cominciata e che il modello capitalistico si è espanso in tutto il pianeta, conquistando anche la Russia e la Cina. A ciò dobbiamo aggiungere che solo oggi il capitalismo ha il dominio del mondo debolmente contrastato dai residui delle organizzazioni sindacali non collegate a livello internazionale, giacché gli sfruttati non sono in grado di compattarsi per ragioni religiose, etniche etc. Inoltre, per rendere efficace la sua espansione e seguendo la sua logica del profitto e dell’acquisizione di nuovi mercati, il capitalismo ha reintrodotto “forme di dipendenza di tipo schiavile” sia nel mondo sviluppato che in quello arretrato (pp. 10-11), in cui probabilmente – aggiungo io – non ha mai cessato di esistere. Tale reintroduzione ha comportato la perdita dei ‘diritti del lavoro’, ottenuti in Occidente grazie all’esistenza del blocco socialista, che costringeva il capitalismo ad essere più benevolo. Infine, Canfora sottolinea il ruolo determinante della malavita organizzata nella gestione delle varie forme di dipendenza oggi esistenti (pp. 11-12).
Un altro aspetto interessante della dinamica storica esaminato da Canfora è costituito da quella che chiama “svolta occidentalista” che ha portato l’ex Unione Sovietica ad adottare uno stile di vita americaneggiante, abbandonando la linea politica internazionale perseguita fino agli anni Settanta-Ottanta. Quest’ultima consisteva nell’appoggio anche materiale ai paesi ex coloniali per indirizzarli verso una prospettiva politica nazionalista-socialista, che si è dissolta provocando la fine del socialismo arabo e il trionfo del fondamentalismo religioso (pp. 20-21). Tale osservazione conferma quello che pochi hanno pensato prendendo atto della caduta del muro di Berlino, mentre i più esultavano: quali sconvolgimenti provocherà la dissoluzione del “socialismo reale”?
Che l’Unione Sovietica dovesse puntare sulla rivoluzione delle colonie, dopo che questa era stata sconfitta in Europa, lo aveva scritto Lenin, il quale attribuiva la causa di tale disastroso evento al comportamento delle “aristocrazie operaie” che avevano patteggiato con le rispettive borghesie. A suo parere solo la fine della colonizzazione e dello scambio ineguale avrebbe determinato un cambio di atteggiamento nelle prime non più privilegiate dalle briciole della rendita coloniale (pp. 25-26).
Il trionfo attuale del capitalismo è legato all’occidentalizzazione del mondo, anche se Canfora ci avverte che la parola “Occidente” non ha un significato univoco e per questa regione è anche di difficile localizzazione. Assai spesso – scrive – è stato identificato dai vari autori con una delle tendenze in esso presenti secondo un criterio arbitrario, ossia ciascuno ha scelto l’Occidente che preferiva (p. 35). La complessità delle relazioni che hanno unito e contrapposto i diversi paesi occidentali, rendono inaccettabili le sbrigative equazioni, che identificano l’Occidente con la democrazia e il cristianesimo (p. 37). Inoltre, bisogna tenere conto che l’Occidente affonda le sue radici nelle terre feconde della Mesopotamia, dalla quale ebrei e greci hanno attinto molti aspetti, integrandoli nella loro tradizione (p. 39). D’altra parte, la Grecia, ritenuta la culla della civiltà occidentale, è da tempo stata espulsa da questa comunità e considerata, invece, un paese “orientale”. Un destino diverso è toccato al Giappone, che è stato a pieno titolo incorporato dall’Occidente (pp. 38-39), ormai dominato dall’estremo Occidente, identificato invece con gli Stati Uniti, che impongono attraverso la NATO i loro voleri ai paesi europei, i quali li accettano masochisticamente. Un esempio di questo atteggiamento supino sta nell’imposizione delle sanzioni alla Russia, che danneggiano l’economia europea, solo per allinearsi con gli Stati Uniti, che mirano all’inserimento dell’Ucraina nella NATO (p. 25).
Secondo Canfora oggi non ha più senso la contrapposizione Oriente / Occidente, che deve essere sostituita da quella tra Nord e Sud del mondo, tenendo presente, tuttavia, che il secondo è presente anche da noi nelle zone marginali. Pertanto, a causa del massiccio fenomeno migratorio, Nord e Sud del mondo si penetrano reciprocamente ed inevitabilmente si scontreranno, giacché il Sud non può che richiedere una diversa distribuzione della ricchezza attualmente monopolizzata dal Nord (pp. 44-45). Lo studioso italiano cita alcuni documenti sul traffico degli esseri umani, che produce la costante violazione dei diritti umani e che è un fenomeno transnazionale, da cui scaturiscono le nuove modalità del lavoro schiavile, nel quale si ricicla il “denaro sporco” (71).
Riprendendo la riflessione di Arnold Toynbee, sviluppata in un piccolo libro intitolato Il mondo e l’Occidente, di cui Canfora ha curato la traduzione italiana per Sellerio (1991), egli delinea le tappe percorse da quest’ultimo per estendere il suo dominio mondiale, a partire dall’epoca delle grandi scoperte geografiche. Queste ultime, grazie all’evoluzione tecnica nella costruzione dei velieri e dei cannoni, si trasformarono ben presto nella costituzione di domini extracontinentali. Ma tale processo non è stato esente da contraddizioni, che hanno messo l’Occidente contro se stesso, come quando vinse la seconda guerra mondiale, nella quale erano state sconfitte Germania, Italia (e Giappone). Inoltre, aveva vinto a prezzo di allearsi con l’Unione Sovietica, ossia con il nemico dell’Occidente, trovandosi di fronte un mondo percorso da moti rivoluzionari (Cina) e instabile nel suo assetto per la costituzione di movimenti di liberazione in vari paesi (pp. 42-43).
Rotta quella scomoda alleanza, nel corso della lunga fase della cosiddetta Guerra Fredda, l’Occidente riprende il suo atteggiamento di sfida verso il mondo e, in particolare, verso l’Est. Se Toynbee, pur consapevole delle colpe consumate dall’Occidente verso il mondo, sperava che alla fine sarebbe di nuovo riuscito vittorioso, Canfora osserva, invece, che questo “si trova di fronte a controspinte molteplici, tutte gravide di conflitti e di tensioni” e proprio per questo rischia di perdere. E ciò perché – come mostra il risorgere della minaccia islamica -, le sue vittime non possono sopportare tale spietato dominio senza rispondere. In particolare, paradossalmente sono stati gli stessi Stati Uniti a fomentare e a sostenere i nemici dell’Occidente, schierandosi con l’estremismo islamico in maniera più o meno aperta e senza preoccuparsi della politica che potrebbe essere vantaggiosa per l’Europa (p. 44), non in grado di dare una risposta ai flussi migratori prodotti dalla politica del “caos creativo” in Medio Oriente. Questa scelta richiama alla mente quella riflessione contenuta nel “Manifesto”, un’opera non certo ottimistica, in cui si sviluppa una comparazione tra il potere trasformatore e distruttore del capitalismo e lo “stregone che non sa più controllare le potenze sotterranee da lui evocate” (p. 95).
Con l’abbattimento del muro di Berlino molti avevano vaticinato l’estensione del “mondo libero”, la fine della Guerra Fredda e un felice avvenire di pace; purtroppo, abbiamo avuto modo di sperimentare che le cose non stanno proprio così: il numero dei muri è cresciuto, aggiungendosi a quelli già esistenti, mentre altri sono stati costruiti come quello tra Macedonia e Grecia, tra Ungheria e Serbia e l’utopia del rinnovamento con il passaggio al nuovo secolo si è sbriciolata (pp. 85-86).
Ribadendo con Croce che “la storia è sempre un processo aperto”, Canfora si chiede cosa è restato delle utopie che si sono scontrate nel corso dei due ultimi secoli, da lui identificate con l’utopia dell’egoismo e con quella della fratellanza (p. 88).
La prima sarebbe ben espressa dalla politica dell’Unione Europea, la quale, arroccata su se stessa, persegue il suo disegno di tenere in piedi “una moneta inutilmente competitiva” e di fare a pezzi i diritti sociali conquistati nel corso del Novecento. E per conseguire questi obiettivi non si vergogna di regalare miliardi di euro al dittatore turco, perché crei un cordone contenitivo che difenda la “fortezza Europa” (pp. 89-90).
Purtroppo l’utopia della fratellanza, anche se ha radici antiche, oggi è assai debole e non può certo espandersi anche per il dominio indiscusso dei mezzi di comunicazione di massa, i quali cancellano dal reale tutto ciò che per loro è scomodo.
Nonostante ciò le conclusioni di Canfora non sono pessimistiche, giacché egli ritiene che “la storia procede a spirale. Dà l’impressione di tornare indietro anche quando, faticosamente, procede” (p. 97). Da questo punto vista, tutti gli eventi che hanno scandito la vittoria dell’utopia della fratellanza (dalla presa della Bastiglia, all’Ottobre rosso, alla liberazione di Saigon e di Cuba etc.) non sono occorsi invano (P. 97). Nonostante ciò, bisogna tenere conto del fatto che – come sta scritto nel “Manifesto” – la lotta tra le due classi in lotta, che si richiamano alle due diverse ideologie su menzionate, può anche generare la rovina di entrambe.
In appendice lo storico italiano pone il discorso radiofonico tenuto l’11 settembre 1973 da Salvador Allende, mentre il Palazzo presidenziale veniva bombardato, nel quale egli afferma di non morire invano e di nutrire speranze per il futuro. Al discorso di Allende segue quello pronunciato da Alexis Tsipras il 27 giugno 2015, nel quale si annuncia la prossima celebrazione di un referendum sulle misure imposte alla Grecia dalla UE. Come è noto, le misure vennero respinte con una larga maggioranza, ma l’esito del referendum non fu rispettato.
Fonte: lacittafutura.it
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.