La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 9 aprile 2017

L’innovazione e il suo azzardo

di Andrea Capocci
I progressi straordinari della conoscenza sono dovuti a donne e uomini di straordinario talento come Isaac Newton, Marie Curie o Albert Einstein. Ma persino loro non avrebbero potuto fare granché senza le conoscenze accumulate nei secoli precedenti e il continuo confronto con i colleghi contemporanei. «Ho visto più lontano perché stavo sulle spalle di giganti», scrisse Newton al collega-rivale Robert Hooke (non particolarmente alto di statura) che aveva avuto un ruolo decisivo nella scoperta della gravità. Il carattere collettivo e quello individuale dell’impresa scientifica sono dunque ineliminabili.
Finora, le «spalle dei giganti» hanno avuto contorni piuttosto vaghi. I contributi diretti e indiretti a una scoperta scientifica sono innumerevoli, perché nessuna teoria riscrive da zero la scienza precedente. I modelli sbagliati, gli esperimenti che non tornano, gli strumenti di analisi, persino dettagli insignificanti diventano spesso decisivi in studi apparentemente lontanissimi.
Ogni scoperta è un puzzle a cui l’autore ultimo aggiunge solo pochi tasselli. Che a loro volta sono gli ingredienti delle scoperte successive.
LA DIFFICOLTÀ di rintracciare le radici complicate e oscure di una scoperta scientifica ha fatto la fortuna degli scienziati più celebrati. Oggi, dunque, parliamo di «relatività di Einstein» o di «leggi di Newton» e in questo modo cancelliamo le premesse che le hanno rese possibili. Non è che manchino le informazioni: ogni ricerca o invenzione è documentata da una pubblicazione (un articolo scientifico o un brevetto) in cui sono citati i contributi precedenti. Basta seguire a ritroso le bibliografie per scoprire il processo generativo di una teoria scientifica o di una tecnologia. Ma è come risalire dalla foce di un fiume alle sorgenti dei suoi affluenti, e degli affluenti degli affluenti: la ricerca diventa presto improba, senza l’aiuto di una mappa satellitare dettagliata.
ORA LA MAPPA C’È: articoli e brevetti, infatti, sono archiviati in formato digitale in banche dati pubbliche, così come le citazioni che legano l’uno all’altro. Sono diventati, cioè, «big data», grandi moli di informazioni che possono essere analizzate al computer. Ricostruire i contributi a una scoperta è diventata una questione di pochi click anche per l’utente inesperto: basta visitare l’archivio di Google Scholar per rendersene conto. Lo stesso è avvenuto con il sistema dei finanziamenti alla ricerca: progetti e concorsi sono archiviati online, almeno per le istituzioni scientifiche più ricche e importanti.
Grazie alle tecnologie informatiche, dunque, «le spalle dei giganti» hanno smesso di essere un’espressione poetica e sono diventate un oggetto di indagine ben preciso. Attraverso la banca dati PubMed, per esempio, si può consultare la quasi totalità delle ricerche mondiali in campo biomedico.
È ciò che hanno fatto gli economisti Danielle Li (Harvard), Pierre Azoulay (Massachusetts Institute of Technology, MIT) e Bhaven Sampat (National Bureau of Economic Research e Harvard), tutti attivi a Boston. I ricercatori hanno incrociato centinaia di migliaia di articoli scientifici, brevetti (soprattutto farmaci e tecnologie diagnostiche) e finanziamenti per studiare in dettaglio come un’idea si sposti da un cervello all’altro fino a diventare una nuova tecnologia. Sotto la loro lente sono finiti 27 anni di attività svolta dai National Institutes of Health: è la rete di centri di ricerca biomedica statunitense che domina il campo a livello mondiale, grazie a un budget annuale di circa trenta miliardi di dollari. In totale, sono stati esaminati oltre 360 mila progetti di ricerca finanziati tra il 1980 e il 2007.
Il 1980 non è una data casuale: in quell’anno il Congresso approvò la legge Bayh-Dole, che permetteva (cioè invitava) i ricercatori a brevettare invenzioni realizzate grazie a finanziamenti pubblici. Fu una gigantesca privatizzazione della conoscenza, con cui gli Usa intendevano uscire dalla stagnazione degli anni ’70. I soldi pubblici investiti in ricerca si trasformavano in innovazioni tecnologiche che il titolare del brevetto (un ricercatore o, molto più spesso, una società privata creata appositamente dalle università) deteneva in monopolio per vent’anni. Per comprenderne gli effetti, basta osservare la battaglia brevettuale più importante degli ultimi anni: quella per la paternità della biotecnologia Crispr-Cas9, una tecnica rivoluzionaria che permette di accendere e spegnere i geni nelle cellule con una facilità che sta rivoluzionando il settore. Dopo anni in cui all’ufficio brevetti si scontravano soprattutto corporation come Apple, Samsung o Google, a litigare per il monopolio su Crispr-Cas9 sono stati due istituti di ricerca: l’università di Berkeley e il Broad Institute di Boston, una joint venture tra l’università di Harvard e il MIT. Con buona pace della libertà di ricerca e del diritto all’accesso alle cure.
ANALIZZANDO I DATI e i collegamenti tra i finanziamenti, le pubblicazioni e i brevetti, si scopre che circa il 30% dei progetti pubblici sfociano in un brevetto. Il canale tra ricerca pubblica e mercato creato dalla legge Bayh-Dole però ne è solo una piccola parte: è l’intero dominio pubblico delle conoscenze scientifiche a essere regolarmente saccheggiato, anche in assenza di un legame tra l’autore della ricerca e l’inventore del brevetto.
I ricercatori hanno utilizzato tecniche di analisi semantiche mutuate dall’informatica per classificare i progetti del periodo 1980-2007, dividendoli tra ricerche di base e ricerche applicate in parti quasi uguali. La classificazione non è solo una questione di vocabolario. L’assegnazione di fondi di ricerca europei, per esempio, enfatizza la ricaduta tecnologica diretta degli studi, e spinge i ricercatori accademici a collaborazioni sempre più strette (e spesso forzate) con le imprese. L’obiettivo dichiarato è lo stimolo alle attività di ricerca e sviluppo per recuperare il ritardo di produttività che l’Europa sconta soprattutto nei confronti di Usa, Cina, Giappone e Corea del Sud – con risultati piuttosto deludenti.
Forse i funzionari della Commissione Europea farebbero bene a leggere la ricerca di Li, Azoulay e Sampat, per liberarsi di qualche luogo comune.
I DATI MOSTRANO che tra i progetti di ricerca di base e quelli orientati alle applicazioni non c’è praticamente differenza in termini di impatto tecnologico. La probabilità che una ricerca «di base» o una ricerca «applicata» si trasformi in un brevetto è simile. Dunque, non è affatto vero che studi teorici, ricerca applicata e innovazione tecnologica siano collegati da una relazione lineare analoga a una catena di montaggio. Spesso le tecnologie precedono gli sviluppi teorici, che a loro volta trovano un’imprevista applicazione commerciale.
La cosiddetta «serendipity», cioè la scoperta non pianificata a livello burocratico, continua ad essere un fattore dominante nella produzione scientifica e a sfuggire a politiche della ricerca orientate al mercato. La tecnica Crispr-Cas9, ad esempio, fu inventata studiando i batteri dello yogurt. I «giganti» sulle cui spalle nascono le scoperte scientifiche possono essere dei semplici fermenti lattici. Che poi, quella frase, Newton mica l’aveva inventata: l’aveva copiata da Bernardo di Chartres, un filosofo francese del XII secolo. Se lo avesse saputo Hooke.

Fonte: Il manifesto 

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