di Chiara Giorgi
Il volume di Davide Conti (Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Einaudi, pp.271, euro 30) torna a interrogare uno dei passaggi storici più appassionanti e controversi della storia italiana, così come a riattualizzare uno dei motivi «classici» della storiografia della seconda metà del secolo scorso. Attraverso una ricca ricerca archivistica, il libro ricostruisce le meno note carriere e funzioni svolte dai «presunti» (in quanto mai processati) «criminali di guerra» nel neonato contesto democratico. Si tratta di uomini che, organici al fascismo e operanti in seno alle sue strutture più repressive, non solo non vennero sottoposti a processo o epurati o estradati, ma soprattutto vennero reinseriti negli apparati dello Stato postfascista, diventando questori, prefetti, capi dei servizi segreti, ministri della nuova Repubblica.
Le biografie prese in esame consentono di illuminare alcuni dei nodi più significativi della storia dell’immediato secondo dopoguerra e al contempo gettano una luce tanto inquietante, quanto significativa sulle vicende coeve e seguenti (dalla strage di Portella della Ginestra, alla riorganizzazione in senso anticomunista dei corpi di pubblica sicurezza tra la fine degli anni Quaranta e il decennio successivo, alle varie misure di sorveglianza e ordine pubblico adottate contro il movimento operaio e sfociate «nella repressione brutale e luttuosa dei conflitti sociali», ai golpe dei primi anni Settanta).
Sono dunque le vicissitudini di questo personale politico e militare a essere esemplificative, per quanto di certo non in modo assoluto e univoco, degli esiti «della transizione italiana sul piano della continuità degli apparati di forza dello Stato».
La chiave di lettura utilizzata e suffragata da un prezioso materiale documentario è infatti quella ruotante attorno al paradigma della continuità dello Stato. E, non a caso, è uno dei memorabili lasciti di Claudio Pavone a essere posto in esergo del volume. Scriveva questi nel 1974: «La fascistizzazione dell’apparato burocratico non fu dunque» di parata, dal momento che «il fascismo, come forma storicamente sperimentata di potere borghese, non si esaurisce nei quadri del partito fascista, ma è un sistema di dominio di classe in cui proprio gli apparati amministrativi tradizionalmente autoritari hanno parte rilevante. Di parata va piuttosto definita, dato il fallimento dell’epurazione, la democratizzazione post-resistenziale».
Da qui prende le mosse la ricostruzione di Conti, non trascurando l’importante contributo degli studi che da anni si concentrano sul fallimento del processo epurativo italiano, sul congelamento di alcuni istituti innovativi repubblicani, sul permanere di una certa cultura istituzionale (al pari della legislazione fascista) e contemporaneamente soffermandosi sui caratteri originali della «nazione repubblicana», sulle questioni di fondo relative al nesso nazionale-internazionale.
Molto ampie sono le problematiche che riemergono. Innanzitutto, metodologicamente, torna a dimostrarsi produttivo lo studio di singoli percorsi biografici letti come manifestazione di quel più complessivo processo «caratterizzato dalla reimmissione e dal reimpiego nei gangli istituzionali di un personale» organico al Ventennio. A nulla valse infatti per questi uomini l’essere inseriti nelle liste «War Crimes» delle Nazioni Unite, dinnanzi alla scelta di far passare una linea basata sulla ragion di Stato, sul presunto supremo interesse nazionale o, come fu per i funzionari coloniali, sui valori della neutralità dell’amministrazione e sul principio della obbedienza gerarchica, invocati come giustificazione di comportamenti individuali specifici, peraltro a dispetto di quello che sarebbe stato il monito arendtiano sulla «banalità del male».
C’è di più, accanto alla ricostruzione di queste vicende personali e professionali (di cui quella del noto generale Roatta sembra essere l’epilogo più emblematico), Conti ripropone all’attenzione del pubblico una lettura ben consapevole e generale del contesto internazionale, politico e sociale dell’Italia di quel decisivo passaggio storico. Ne esce confermata la centralità degli equilibri internazionali, ovvero l’appartenenza all’area occidentale come legittimazione sia del permanere di determinati gruppi di comando (si pensi all’intreccio tra Democrazia cristiana e Stato), sia del rafforzamento delle classi dominanti, sia del mantenimento di rapporti sociali e di produzione dati.
A lungo si è parlato per il caso italiano della prevalenza di un «modello militarizzato» volto a riprodurre le contrapposizioni internazionali, a depotenziare le istanze innovative provenienti a più livelli e presenti in molti principi della Costituzione, ad allontanare il pericolo di condizionamenti da parte di forze sociali organizzate. Modello peraltro capace di saldare determinate scelte fatte sul piano economico (l’opzione liberista nel permanere di una struttura di capitalismo di Stato) con la natura autoritaria dell’assetto politico (nella stessa forma assunta dalla «democrazia protetta»). Il contrasto che si diede tra amministrazione e politica democratica attesta quella che l’autore rievoca come la profonda rottura tra Stato e Resistenza. Piuttosto che con l’eredità del fascismo, cesura vi fu con le idee, l’orizzonte simbolico e l’ampio lascito resistenziale.
Sempre più studi negli ultimi anni hanno approfondito il contesto della transizione tra fascismo e Repubblica, i soggetti coinvolti e le complesse dinamiche. Le categorie interpretative sono andate in tal senso arricchendosi, sotto il profilo economico, sociale, politico e giuridico. Punto fermo resta, tuttavia, la fecondità di ricerche come questa in grado di intrecciare la ricostruzione di singole vicende (biografiche e istituzionali) con l’analisi dei rapporti sociali (di classe).
Così come resta necessaria un’analisi storica volta a individuare i punti di tensione tra l’elemento formale (la stessa riorganizzazione dello Stato) e quello materiale (in relazione alle lotte dei soggetti in carne e ossa). Letture come queste mostrano come sia fondamentale, oggi più che mai, un progetto di reinvenzione della democrazia a partire dal potenziale trasformativo del conflitto/i e da pratiche politiche capaci di sfidare l’ordine costituito.
Fonte: Il manifesto
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