di Gianpasquale Santomassimo
Pietro Ingrao era certamente una «brava persona». Come era una «brava persona» anche Berlinguer, e Jovanotti lo attesta. Entrambi erano anche simboli di moralità nella politica, e nessuno può metterlo in dubbio. Ma Ingrao era, come Berlinguer, un comunista italiano, del Pci era stato uno dei dirigenti più popolari, ed era stato anche un costruttore di democrazia nella civiltà repubblicana.
Oggi c’è molta ipocrisia nel nascondere o sminuire questo dato centrale della sua vita, nel ricondurlo a ennesimo santino della liturgia di una «società civile» sganciata dalla politica o addirittura ad essa contrapposta.
Fu certamente considerato – e lui stesso si considerò – «eretico»: ma all’interno di una comunità di donne e di uomini unita da ideali comuni, se pure declinati in forme diverse, di cui condivise fino alla fine (ed anche oltre per pochi anni, a comunità ormai dissolta) senso di appartenenza e obblighi, spesso gravosi, che lo portarono a compromessi e sacrifici che rappresentarono nel tempo un rovello mai interamente placato. Se si osserva con distacco la sua vicenda politica, di là dalle leggende e anche dalle autorappresentazioni, emergerà il profilo di un politico realistico, capace di porre problemi e proporre soluzioni. Dalla consapevolezza nei primi anni Sessanta di una nuova fase aperta dal miracolo economico e dal centrosinistra, che imponevano un ripensamento di tutti i termini della lotta politica e sociale del movimento operaio, alla battaglia del decennio successivo per un rinnovamento complessivo delle istituzioni, fondato sulla centralità del parlamento in vista di una nuova relazione fra Stato, popolo e trama delle assemblee elettive locali, in spirito di fedeltà alla Costituzione.
C’era in queste battaglie la consapevolezza che la democrazia parlamentare e costituzionale non era un dato acquisito per sempre, ma un patto tra istituzioni e popolo che andava rinnovato e rinsaldato mentre all’orizzonte si profilavano nuove insidie interne ed eterne che ne minavano il fondamento: «come se stessimo in bilico — avvertiva nel 1977 — tra un salto di qualità verso una civiltà superiore e il precipitare nella degenerazione».
Divenne col passare del tempo sempre più simbolo di qualcosa difficile da definire in termini univoci (ma comunque lievito e stimolo per molti).
Si innestò e si sovrappose alla sua vicenda storica una mitologia facile, fatta di luoghi comuni diffusi e da ultimo perfino interiorizzata da Ingrao medesimo nell’ultima fase della sua lunga vita: l’enfasi sull’utopia contrapposta alla realtà (che aveva invece studiato e analizzato con sguardo mai banale), la fama di «acchiappanuvole», di poeta e sognatore… Col che si rischiava di dimenticare che il suo andare «oltre» la politica, nel porre temi che essa abitualmente non si poneva, non voleva essere contrapposizione ma arricchimento, offerta di una dimensione non immediatamente visibile a uno sguardo distratto ma che si poteva e doveva cogliere con uno sguardo lungo.
Dimenticando che «scavare nella polvere» fra le rovine delle torri franate non può servire a baloccarsi modellando castelli di sabbia, che dal «gorgo» bisogna doverosamente farsi trascinare — ma senza affogare — per riemergere infine su nuove sponde. Guardare storicamente alla sua attività politica dovrebbe implicare anche evadere dalle nebbie dell’«ingraismo» divenuto gergo e maniera, della politica ridotta a stato d’animo, indeterminatezza programmatica, elogio del «dubbio» che non prelude a una nuova azione, ma si compiace e si paralizza in esso.
Nel modo corrente di ricordare Ingrao temo che oggi molta parte della sinistra stia celebrando e assolvendo anche la propria inconcludenza.
Fonte: il manifesto
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