di Mario Gregori
E’ difficilissimo (pare assurdo, ma è così) far passare nell’opinione pubblica un paio di concetti elementari quali:
a) il valore del capitale finanziario è un valore molto più grande di quello di ciò che viene prodotto nel mondo in un anno: c’è chi dice 10, chi 30, chi, addirittura, 100 volte;
b) il capitale finanziario, se, come è nella sua natura, deve distribuire un utile per accrescersi, può farlo non attingendo a se stesso, ma al prodotto mondiale.
Vediamone le implicazioni. Supponendo, per semplicità, che il capitale finanziario sia 20 volte il prodotto mondiale (ovvero quest’ultimo vale il 5% del primo) e il capitale finanziario si accontenti (nel suo insieme) di un misero dividendo del 2,5% annuo, ebbene la metà di quello che viene prodotto al mondo deve andare a remunerare il capitale finanziario, lasciando l’altra metà per sfamare i sette e passa miliardi di umani.
Evidentemente, la realtà non è così lineare, ma tali semplificazioni possono contribuire a rendere comprensibile ad esempio, perché un paese così virtuoso come l’Italia abbia un debito pubblico così elevato.
L’abbinamento tra le parole “Italia” e “virtuosa” è probabilmente, percepito dal lettore come un ossimoro, ma non è così. Ripeto: l’Italia è un paese oggettivamente virtuoso. Il sistema-paese ha affrontato, dal 1992, uno sforzo enorme per risanare i conti dello Stato.
Esso passa, da una parte, nella crescita della pressione fiscale e, dall’altra da una contrazione dei servizi e prestazioni offerti ai cittadini. La prima è sintetizzabile in un’unica cifra: tra il 1998 ed il 2013 la somma delle entrate fiscali è pari a quasi 10 bilioni (dieci migliaia di miliardi, o dieci milioni di milioni, come preferite) di euro. Un importo da Paperon de’ Paperoni! La seconda è sotto gli occhi di tutti: chiusure di reparti ospedalieri, dimezzamento del turn-over della polizia, richieste delle scuole ai genitori di provvedere alla carta da utilizzare nelle lezioni. E compagnia cantante. Cosicchè il valore della spesa pubblica totale per cittadino italiano espressa in termini reali è ormai largamente inferiore alla media europea.
Esso passa, da una parte, nella crescita della pressione fiscale e, dall’altra da una contrazione dei servizi e prestazioni offerti ai cittadini. La prima è sintetizzabile in un’unica cifra: tra il 1998 ed il 2013 la somma delle entrate fiscali è pari a quasi 10 bilioni (dieci migliaia di miliardi, o dieci milioni di milioni, come preferite) di euro. Un importo da Paperon de’ Paperoni! La seconda è sotto gli occhi di tutti: chiusure di reparti ospedalieri, dimezzamento del turn-over della polizia, richieste delle scuole ai genitori di provvedere alla carta da utilizzare nelle lezioni. E compagnia cantante. Cosicchè il valore della spesa pubblica totale per cittadino italiano espressa in termini reali è ormai largamente inferiore alla media europea.
Il risultato di tale sforzo è tutt’altro che irrilevante: la differenza tra le tasse prelevate ed il valore dei servizi erogati (tecnicamente avanzo di parte corrente primario) per gli stessi anni è anch’esso da Paperopoli e pari ad oltre un bilione. Eppure, nello stesso intervallo il valore del debito pubblico è cresciuto.
Come mai? C’è una ragione “piccola” ed una “grande”. La prima è data (si perdoni la pedanteria contabile, ma è indispensabile) dal disavanzo in conto capitale (ovvero dalla differenza tra uscite ed entrate relative i beni e le imprese di proprietà pubblica) è pari a circa 0,6 bilioni; la seconda è data dal costo del servizio del debito (familiarmente: il valore degli interessi pagati sul debito pubblico) pari ad oltre 1,1 bilioni di euro. In sintesi: tutto ciò che è stato accantonato negli anni aumentando le tasse e riducendo i servizi (e qualcosa in più) se ne è andato in interessi. La conclusione è sconfortante: l’enorme sforzo per contenere la crescita del debito pubblico è stato inutile. Il debito pubblico è cresciuto perché abbiamo dovuto indebitarci ulteriormente per pagare gli interessi sul debito preesistente. Siamo una nazione virtuosa, ma “incravattata”.
L’amministrazione statale è diventata l’esattore delle tasse per conto di chi detiene il debito pubblico: incassa imposte e paga interessi. E siccome questi crescono, per fronteggiarli bisogna ridurre altre voci di spesa pubblica: sanità welfare, istruzione, ricerca sono smantellate per pagare interessi.
L’amministrazione statale è diventata l’esattore delle tasse per conto di chi detiene il debito pubblico: incassa imposte e paga interessi. E siccome questi crescono, per fronteggiarli bisogna ridurre altre voci di spesa pubblica: sanità welfare, istruzione, ricerca sono smantellate per pagare interessi.
A chi vanno tali interessi? C’era una volta il Bot people, i cittadini italiani che detenevano Bot, Cct ed altri titoli di debito pubblico ed a cui andavano gli interessi. In sintesi, l’operazione era: tassare tutti i cittadini (o almeno le pensioni ed i redditi da lavoro dipendente….), per trasferire ricchezza a quelli che finanziavano il debito pubblico. Ma il Bot people è come il panda: in via d’estinzione, perché detiene ormai solo il 10% del debito pubblico italiano, mentre il resto è detenuto dal sistema finanziario (banche, assicurazioni, fondi di investimento…).
Come si finanzia il sistema bancario per acquistare titoli di debito pubblico?
Mediante (anche) il cosiddetto quantitative easing (e le altre linee di credito che l’hanno preceduto): essi forniscono al sistema bancario la possibilità di indebitarsi con la Banca Centrale Europea, cui paga un interesse dello 0,05%. Con tale credito può acquistare anche titoli di debito pubblico, ottenendo per lo stesso un tasso di interesse di mercato. Così (sempre semplificando) con un’operazione in dare (debito con la BCE) ed una in avere (acquisto di debito pubblico) le banche possono lucrare interessi medi che, negli anni migliori sono stati anche di 4 punti percentuali e pari, complessivamente, a circa 70 miliardi annui. In sintesi si è trattato di un enorme trasferimento di ricchezza dai cittadini al sistema finanziario, via Stato.
Trasferimento che non è stato solo inutile, ma anche dannoso per l’economia. Maggiori tasse, ovvero meno “soldi nelle tasche dei cittadini”, significano meno acquisti e, conseguentemente, meno domanda, come minor domanda è l’effetto del contenimento della spesa pubblica. Entrambe le cose non hanno fatto altro che aggravare la recessione economica che stiamo attraversando dal 2009.
Come mai è così difficile passare tali semplici concetti?
La prima ragione è che sono apparentemente ostici: l’astrattezza delle nozioni, la pedanteria terminologica ed il linguaggio specialistico (o gergale), annoiano e respingono. Per gran parte dei cittadini è più facile individuare come “sfruttatori” soggetti diversi: i rifugiati che sbarcano sulle coste o scavalcano le frontiere sia per fuggire da un mondo di guerra e miseria che per cercare un futuro migliore. Costano? Sì, costano. Ma, soprattutto, in termini di affitti ed ospitalità incassati da chi li ospita (mafia capitale compresa). E, soprattutto, costano nell’ordine dei milioni di euro, non dei miliardi.
Una seconda ragione sono le giustificazioni date a tali operazioni. Negli anni Novanta del secolo scorso, ampia eco era stata data alla tesi della austerità espansiva. In estrema sintesi, la tesi afferma che manovre finanziarie dirette a stabilizzare o abbassare il rapporto debito pubblico/Pil e realizzate attraverso tagli alla spesa pubblica, possano stimolare consumi e investimenti privati e, quindi, una ripresa economica. L’argomentazione a favore di questa sequenza tagli spesa pubblica/ incrementi spesa privata si gioca sul ruolo delleaspettative. Se i tagli di spesa vengono percepiti come segnali di un futuro abbassamento delle imposte, i consumatori si aspetteranno un più elevato reddito futuro, per cui tenderanno ad aumentare i consumi attuali. Cinque anni di pesante austerità senza alcuna espansione hanno dimostrato l’infondatezza di tale tesi, senza, del resto, indurre un’inversione di tendenza. Per cui Fondo monetario internazionale (FMI), Commissione UE e BCE continuano ad imporre sempre le medesime condizioni per la concessione degli aiuti ai paesi in difficoltà: tagli di spesa ed inasprimenti fiscali. I risultati sono, ahimè, noti: contrazione del prodotto reale; aumento del debito pubblico sia in rapporto al Pil, sia in valori assoluti; crescita della disoccupazione; diminuzione del tenore di vita e dei livelli medi di consumo.
C’è poi, probabilmente, una terza ragione: sino a che gli interessi sul debito pubblico sono pagati i risparmi dei cittadini sono al sicuro. Ed in nome della tutela di questi risparmi le misure di austerità vanno condivise. Perché ciò che viene perso in termini di recessione è distribuito tra tutta la popolazione e si configura come qualcosa che avrebbe dovuto esserci ma non c’è: più occupazione giovanile, incremento degli stipendi e dei salari, ecc. Mentre quello che viene preservato è personale e, comunque, c’è: (i miei risparmi). In sintesi, si rinuncia ad una ipotizzata gallina domani a favore di un uovo certo oggi. E’ un terribile errore prospettico (una patrimoniale sarebbe costata di meno di questi anni di inutile austerità), ma che nessuno, sinora è riuscito a sradicare.
Anche perché la grandissima parte del mondo dei media (e questa è la quarta ragione) ripete stancamente, ma acriticamente e sistematicamente il medesimo mantra: austerità, austerità, austerità.
Fonte: Scenari Mimesis
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