di Giulio De Angelis
Quando una organizzazione delle dimensioni e con la storia della Cgil decide di interrogarsi sul suo funzionamento interno e su come organizzarsi per affrontare le sfide del presente e del futuro, si mettono in moto azioni ed energie notevoli, anche se poco visibili all'esterno. Le organizzazioni sindacali normalmente discutono delle loro linee politiche al Congresso: lì si fanno le analisi approfondite, lì si formulano proposte per il futuro, lì si sceglie e si decide. La gran parte della discussione riguarda le politiche sindacali, una parte molto più limitata è spesa per le questioni interne.
Invece la Conferenza di Organizzazione incentra la discussione sul funzionamento interno del sindacato, sull'adeguamento delle macchina organizzativa e sui cambiamenti da apportare per meglio affrontare la fase che la politica e il mondo del lavoro stanno vivendo. Non solamente una sterile proposta limitata agli adeguamenti interni, quindi, ma soprattutto la sfida di rispondere nel miglior modo possibile alle richieste ed alle necessità degli iscritti e dei lavoratori, le quali cambiano per le continue mutazioni in atto nella società. Quindi la discussione politica e l'analisi di fase mantengono, come è ovvio, un'importanza basilare anche nella CdO.
La CdO della Cgil (indetta in ritardo di quattro anni rispetto alla sua scadenza naturale e conclusa con la fase nazionale del 18 e 19 settembre) si colloca nel bel mezzo di un attacco senza precedenti contro i sindacati confederali - ed in particolare contro la stessa Cgil - esercitato in contemporanea dal governo, da Confindustria e dalle principali testate giornalistiche italiane; da settimane assistiamo a notizie che riguardano di volta in volta la moria di iscritti, gli stipendi d'oro, le pensioni di favore, i presunti finanziamenti statali, notizie falsate o ingigantite quando non completamente senza fondamento. Per liberarsi da questo fuoco di fila la CdO poteva e doveva dare risposte di largo respiro, adeguate alla fase politica, volte a respingere gli attacchi e finalizzate ad un concreto rilancio della Cgil
Così non è stato.
La Cgil ha completamente evaso la discussione sulle condizioni che si vivono oggi sui posti di lavoro dopo gli attacchi del governo ai lavoratori (tutt'altro che terminati), ha chiuso gli occhi di fronte alle sue enormi responsabilità ed ha sapientemente evitato qualsiasi approccio autocritico, fallendo la sfida della sua autoriforma. La discussione è stata più che altro incentrata: sulla difesa dell'autonomia delle categorie rispetto al confederale (estremizzata fino al punto di diventare corporativa) e sui possibili accorpamenti di categorie diverse in caso di scarsità di iscritti sui territori; sulle modalità di elezione dei gruppi dirigenti e dei segretari generali (elemento importante ma non tanto da monopolizzare l'attenzione); sulla scarsità di risorse e sul sistema dei servizi (Caaf, uffici vertenze, patronato): tutti temi che interessano poco il corpo vivo di un sindacato - fatto di lavoratori e precari - e che meglio si attagliano a burocrazie vuote e arroccate. La CdO ha proclamato a parole maggiore democrazia insieme al decentramento di risorse e di potere decisionale, ed ha perseguito l'esatto opposto.
Dopo l'accordo del 10 gennaio 2014 tutta la Cgil era entrata nel purgatorio della cosiddetta esigibilità che la portava ad abbandonare la strada delle rivendicazioni e del conflitto, e il governo è pronto ad inserire gli stessi principi di quell'accordo - peggiorati come è facilmente prevedibile - in una legge che limiterà ancora di più la rappresentatività del sindacato e il diritto di sciopero.
Oggi, con l'approvazione del Jobs Act, sui posti di lavoro tornano le teste abbassate, le armi dei sindacati sono spuntate e spezzate, i bisogni dei lavoratori sono subordinati ai voleri dei padroni o sono cancellati, arriva di nuovo la repressione. Gli spazi di democrazia e di conflitto sono limitati e quasi annullati, le rivendicazioni sono soffocate dalla mancanza di tutele, gli accordi portano al peggioramento delle condizioni materiali dei lavoratori ed all'annullamento dei loro diritti. Per rilanciare il suo ruolo in difesa di lavoratori, precari, pensionati e ceti popolari la Cgil deve riprendere appieno il suo ruolo di sindacato dei diritti, democratico e conflittuale, a partire dal contrasto senza condizioni al Jobs Act e dalla disdetta formale dell'accordo del 10 gennaio; deve riconquistare il ruolo del Contratto nazionale senza deroghe e uguale per tutti; deve puntare al ruolo universale dello stato sociale ed abbandonare il contentino del welfare contrattuale il cui costo è scaricato sui lavoratori ed è riservato ai comparti più ricchi. Deve rimettere in campo a pieno titolo la richiesta di riduzione dell'orario di lavoro senza diminuzione di salario e la riconquista di una pensione dignitosa dopo un equo numero di anni di lavoro.
La Cgil deve tornare ad essere “dipendente” dagli iscritti: deve vivere delle risorse che gli iscritti le forniscono e deve tenere conto ed attuare le richieste che dagli stessi iscritti arrivano; oggi ci sono categorie nazionali della Cgil che potrebbero sopravvivere anche in caso di una forte diminuzione dei tesserati, dato che percentuali elevatissime del bilancio derivano da Enti Bilaterali, da quote di servizio e da conciliazioni e non direttamente dai lavoratori; il carattere originario della bilateralità ha subito una modifica pesante ed ha sostituito il ruolo del sindacato. Di fronte a questi pericolosi scivolamenti e mutazioni una delle proposte che si sta facendo sempre più prepotentemente avanti in Cgil va nella direzione opposta rispetto a quello che ci si aspetterebbe: da più parti viene avanzata la richiesta di dare vita alla partecipazione dei lavoratori alle scelte delle aziende tramite i comitati di partecipazione o la cogestione, da alcuni identificati con la cosiddetta democrazia economica arrivando persino a scomodare l'articolo 46 della Costituzione.
A parte le differenze tra le varie forme elencate, che non possono essere discusse qui, nella sostanza lo scopo è simile: inserire il sindacato all'interno dei meccanismi decisionali delle aziende, non di certo per ricevere informazioni, per condizionarne i processi, per incidere sull'organizzazione del lavoro, ma, come conseguenza di rapporti di forza messi in campo, in questo caso sarebbe un'azione positiva che lascerebbe il sindacato nel suo ruolo rivendicativo, ben distinto dall'azienda e collocato al suo esterno.
Piuttosto alcuni in Cgil intendono gestire quei processi assieme all'impresa, arrivando così a snaturare il sindacato e perfino a renderlo completamente coinvolto e collaterale rispetto alle esigenze ed alle volontà aziendali. In questo modo salterebbe la contrapposizione tra interessi diversi, che può trovare il suo equilibrio alla firma di un accordo, e ci troveremmo in una condizione indistinta in cui si fanno sempre meno visibili le differenze e il sindacato verrebbe risucchiato nel terreno minato del pensiero unico e del prevalere delle esigenze produttive. Ci troveremmo di fronte ad una forma estremizzata di bilateralità spinta, e viene il dubbio che lo scopo sia quello di reperire anche da qui risorse per le casse vuote dell'organizzazione sindacale, a discapito della tutela dei diritti. Serve a poco fare appello a forme simili da tempo praticate in alcune parti d'Europa: l'Italia non è la Germania, e questo vale dal punto di vista delle consuetudini tra le controparti, delle leggi, dei rapporti di forza in campo.
Il modo in cui si fa sindacato, le procedure della contrattazione, le leggi che insistono sul mondo del lavoro ridisegnano forma e sostanza del fare sindacato e rischiano, in assenza di proposte organizzative appropriate, di modificare dall'esterno la nostra stessa essenza: ci troveremmo così, nostro malgrado, di fronte ad una realtà modificata dalle altre forze in campo e ormai sfuggita al nostro controllo: una mutazione genetica irreversibile ed eterodiretta.
La lontananza dai posti di lavoro e dai lavoratori ha fatto perdere alla Cgil la bussola che in passato l'ha sempre guidata: occorre abbandonare le pratiche che la rendono agli occhi di tutti sempre più burocratica e preda di un sistema di potere che degenera di continuo, per tornare al rapporto diretto e vincolante coi lavoratori e coi loro bisogni ed istanze, a partire dalla votazione sul mandato prima della trattativa e sulle ipotesi di accordo dopo; occorre limitare lo strapotere dei segretari generali ed ampliare il ruolo dei direttivi e dei comitati degli iscritti, una linea ben diversa da quella voluta dal gruppo dirigente che ha addirittura introdotto il voto a distanza e per posta elettronica; occorre rafforzare l'incompatibilità tra incarichi politici e sindacali per liberarsi dai lacci che tengono la Cgil legata al PD ed alle sue scelte scellerate ed aumentare la presenza di funzionari e segretari sul territorio a livello diffuso, alleggerendo gli uffici regionali spesso inutilmente sovraccarichi. La trasparenza dei bilanci, notizie precise sui canali di finanziamento ed una pratica contrattuale radicale e democratica sono gli unici anticorpi alla degenerazione delle organizzazioni di massa che rischia di contaminare anche noi.
Le modalità di costruzione dei gruppi dirigenti devono essere modificate a partire da una politica dei quadri che punti a valorizzare chi esercita concretamente il conflitto e gestisce le vertenze nel posto di lavoro e sul territorio. Il recupero degli iscritti, il miglioramento delle condizioni di vita di lavoratori e cittadini e il rilancio della Cgil passano per queste vie, non certo per la discussione per nulla interessante sul dimensionamento dei direttivi nazionali.
Fonte La Città futura
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