di Alessandro Robecchi
In principio fu: “Arrivo, arrivo!”. Un tweet di burbanzosa, garrula, giovanile allegria lanciato dalle stanze del Quirinale, mentre stava ancora a colloquio con Giorgio Napolitano. Il paese fuori che aspetta, giornalisti e telecamere, lo sgarro a Enrico Letta appena consumato con abile manovra di Palazzo, e oplà: Matteo Renzi che fa il ragazzino. Visibilio. Da allora – era il 21 febbraio 2014 – l’immagine di Matteo ha fatto qualche giravolta, segnato qualche novità e tanti voti di fiducia senza che nessuno facesse un fiato, Napolitano, per dire, aveva sgridato Monti per molto meno. Mattarella non pervenuto.
Era un altro Renzi, lo dice lui stesso (giugno 2015) quando fa il discorsetto del “Renzi uno e Renzi due”, ma intanto sono cambiate molte cose, e tra queste l’ordine del discorso renziano: parole, trucchetti, pause, calembours, figure retoriche. Di gufi e rosiconi si è detto fino alla nausea: il buono che fa, i cattivi che remano contro, un dato saliente della narrazione renzista, l’anticamera dialettica del vecchio, caro “Non mi lasciano lavorare”, un allontanamento delle responsabilità da se stesso che ricorda Jessica Rabbit, “Io non sono cattiva, è che mi disegnano così”. Chi? I gufi.
Si perdoni la citazione “bassa”, ma, per così dire, mi adeguo al pop-speaking del premier frou-frou, quello che sulla legge elettorale diceva “Se non va bene chiamate Goldrake” (gennaio 2014), che citava Mazinga, che mischiava Tarantino e Disney (“Non penso di essere Mr. Wolf, ma neanche Paperoga”, ottobre 2014). Quello che, addirittura, se la prendeva con i Simpson (ottobre 2013) che parlavano di corruzione italiana, roba da matti, e questo ben due anni prima di attaccare i talk-show cinici e bari: Bart e Omer come Floris e Giannini.
E per chi non gradisce, o non capisce, il pop spinto dei cartoon c’è sempre l’uso à la carte della citazione raccattata qui e la, va bene tutto, La Pira e Samuele Bersani, Clint Eastwood e Giliola Cinquetti (citò “Non ho l’età…”, nel discorso di insediamento al Senato, il 24 febbraio 2014), o statisti, o filosofi, scelti alla bisogna, copiaincollati da Wikipedia.
Ma questa è la superficie. A scavare un po’ si arriva presto a quello che Pierre Bourdieu chiamava “linguaggio autoritario”, cioè parole che si impongono per la loro stessa forza, senza bisogno che i contenuti le confermino o le sorreggano. Frequente quindi l’uso della figura retorica della paronomasia. Tranquilli, niente di complesso: si tratta di accostare parole simili per fonetica e lontane per significato. “Un partito pensante e non pesante”, oppure “esistere, non resistere”, “La Ue non si può solo commuovere, si deve muovere”, fino al mirabolante “Non tramo ma non tremo”, spettacolare parodia involontaria (?) del mussoliniano “Marciare, non marcire”. Chapeau. Erano quelli che Maurizio Crozza, forse il più attento osservatore delle modalità del linguaggio renziano, chiamava “I renzini… le praline dell’ovvio”. Ma che tanto ovvie non sono.
C’è infatti, dietro quei giochi di parole degni di un enigmista pazzo, la volontà di lasciare un segno a prescindere dal contenuto. Un segno di forma, come il finale di una barzelletta. Perché con tutta la pretesa di “disintermediazione” (“Matteo parla al Paese, non ai giornali”) c’è invece la pretesa di fare addirittura i titoli, dei giornali, dettandoli con la frasetta a effetto, regalando quello che i vecchi cronisti chiamavano “il punto-titolo”. Una velina pubblica, insomma, parallela alle veline private che iniziano con “Renzi ai suoi…”.
E così si potrebbe continuare. Il “noi” ostentato e reiterato, anche se non si capisce mai bene noi chi (noi Pd? Noi ggiovani? Noi del governo? Boh…), purché ci sia un “loro” fatto di cattivi. E poi il vecchio giochetto di personalizzare il discorso, per cui non “gli insegnanti” o “i docenti” (generico, impersonale), ma “Chi quotidianamente va nelle nostre classi…”. I precari che diventano Marta… Insomma, trucchetti.
Ma poi si fa difficile, alla lunga, distinguere gli stilemi dalle ossessioni. E qui troviamo sempre più spesso un Renzi ultimativo e volitivo, burbero e decisionista: di Bettino gli mancano solo le mirabili pause nell’eloquio, e il resto c’è tutto. L’uso smodato del “mai più”, per esempio. Un punto esclamativo che sottolinea ora frementi ultimatum, ora semplici speranze. “Mai più inciuci o larghe intese” (detto da lui… giugno 2015). “Mai più rimborsopoli” (marzo). “Mai più ultimi nella cooperazione internazionale” (settembre). “Mai più cultura ostaggio dei sindacati” (attacco ai lavoratori del Colosseo). Sembra di vedere il mascellone che sporge dall’elmetto. Il che fa scopa, per dire, con l’uso dell’intimazione e dell’ordine imperativo: “Basta con…”. E anche qui è un florilegio notevole: “Basta con il derby ideologico sulla giustizia” (giugno 2015), “Basta con il ping-pong Camera-Senato” (aprile). “Basta con l’impunità negli stadi” (maggio), persino l’autografo a un esponente della Coldiretti, all’Expo: “Dal 2016 basta Imu!”. I media rilanciano estasiati. E poi, ovvio, tanto per tenere insieme l’imperativo categorico e i gufi: “Basta con chi protesta e non fa nulla per cambiare”.
E’ un gioco facile, un ribaltamento, perché siccome da che mondo è mondo a dire basta è chi si oppone, chi protesta, lui compie l’astuto testacoda: il responsabile del governo del paese dice un sacco di “basta!”, giocando così il ruolo del potere e, insieme, quello di intransigente oppositore. Essere al contempo quello che decide e quello che protesta, insomma: il suo sogno, il partito – o il leader – che tutto contiene, proposta e protesta, il discorso della Nazione prima ancora del Partito della nazione.
Ma qui arriva il culmine: cosa dà fastidio veramente? Cosa c’è nel mirino del discorso renziano? Semplice: la complessità. Il discutere, il riflettere, il pensarci, considerato un imbelle perder tempo. E’ qui che l’ordine del discorso renziano diventa, più che autoritario, quasi violento. “I professoroni” “I professionisti della tartina” (maggio 2014). E’ vero, c’è in queste frasi una vecchia tradizione del potere italiano, dal “culturame” evocato da Scelba agli “intellettuali dei miei stivali” di Bettino buonanima. Ma c’è anche di più: c’è l’insofferenza per il dialogo e la discussione. “Basta con i convegni sul lavoro, le cose da fare le sappiamo”, dice a Napoli in giugno; “Basta con le discussioni interne”, dice a Milano chiudendo la festa dell’Unità in settembre.
E’ un leit-motiv ricorrente che ha sempre – implicita o esplicita – la sua chiosa paternalista: discutiamo, va bene (detto con sopportazione), ma poi si decide (punto esclamativo). Che, tradotto, significa: discutiamo finché volete purché alla fine si faccia come dico io. Così sulla scuola: “Sentiremo tutti”, “Una grande campagna di ascolto” (poi pose la fiducia). Così sulle riforme: “Si dialoghi, ma alla fine vince il sì”. Fino a titoli esilaranti nella loro contorsione semantica come “Apre al dialogo ma esclude modifiche”, che è come dire: dammi cento euro, dialoghiamo, discutiamo, confrontiamoci, basta che alla fine mi dai cento euro.
Democrazia, per carità, ma non esageriamo, che si perde tempo.
Fonte: MicroMega online
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