La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

lunedì 7 marzo 2016

Agguato agli ideali di un kibbutz

di Massimiliano De Villa
Mezudat Ram, un immaginario kibbutz all’estremità nord-orientale di Israele, in fondo a una valle stretta e profonda, a ridosso del confine siriano. Anni imprecisati tra i cinquanta e i sessanta del Novecento. Un piccolo villaggio lontano dai grossi centri, dove, da almeno tre decenni, la vita sembra scorrere sui binari della normalità. Il ritmo è scandito da una rigida divisione del lavoro, ogni mansione distribuita tra coloni di origine tedesca o russa: chi coltiva, chi alleva, chi irriga, chi manovra il tosaerba. Chi fa la guardia alla vasca dei pesci, chi smista i prodotti verso Gerusalemme e Tel Aviv, chi tiene la contabilità. Proprietà e lavoro comune, nessuna deroga agli ideali del socialismo collettivista.
Intorno luce bianca e tagliente, calura di piombo, poi ondate improvvise di pioggia a far respirare la terra. Questo il contorno di Altrove, forse, primo romanzo di Amos Oz e, dopo mezzo secolo, disponibile anche al lettore italiano nella bella traduzione di Elena Loewenthal (Feltrinelli, pp. 343, euro 17,00).
Un quadro – un grande affresco, direbbe qualcuno – di un kibbutz fra tanti, a metà strada tra realtà e fantasia. A un primo sguardo – uno sguardo veloce, smentito già dopo poche pagine – un idillio di vita comune che ferma le insidie fuori dai suoi cancelli, dove l’ideale granitico imbriglia e addomestica le forze oscure. Fin qui, tutto bene: «Sarebbe bello fermare il tempo, lasciare questa scena così com’è e suggellare la nostra storia con un’alzata di spalle: e così vivono felici e contenti ancora oggi». Sarebbe bello, sì, non fosse per il confine e per la sua ombra.
Forse il vero protagonista della narrazione, il confine separa mentre istituisce la possibilità dell’andare oltre che è, insieme, valicare e trasgredire. Divieto, insidia e tentazione in uno, il confine è il monogramma che racchiude in sé il vissuto e il narrato, la dorsale lungo la quale il racconto si muove. Una faglia nella geografia e nell’esistenza che replica altre, più grandi, fenditure: «Questa valle non è altro che una minuscola crepa della più grande frattura geologica sulla faccia della Terra. Comincia a nord della Siria, scorre lungo crepacci di deserto, spacca pianori, separa i monti del Libano dalla catena di fronte (…) e arriva sul confine tra Libano e Siria (…), dove tre torrentelli si uniscono in un braccio solo e fanno nascere il santo Giordano».
Confine geografico dunque, per prima cosa, con le cupe montagne che sovrastano e premono addosso agli abitanti del kibbutz, disegnando ombre scure sulla valle e proiettando minaccia, più che protezione. Subito dopo confine politico, lì dove finiscono i campi coltivati e inizia la frontiera, la zona contesa da cui, ogni tanto, provengono spari e cannonate che fanno brillare l’aria notturna. Il nemico è senza nome e senza volto, costruisce trame che caricano l’atmosfera di attesa. Ma Altrove, forse – è lo stesso Oz a ricordarlo – non è un romanzo di guerra, nemmeno un romanzo politico. Più ancora che militare, l’agguato che si prepara è un agguato all’esistenza. E lo stesso confine è, sopra ogni altra cosa, confine esistenziale. Soglia che demarca, ma che – per sua stessa natura – spinge a procedere al di là.
Le tranquille geometrie del kibbutz, le linee pulite dei campi e dei frutteti, la rigorosa simmetria degli edifici – immagine dell’artificio e della costruzione – si incrinano all’insinuarsi del disordine. Una sottilissima crosta di civilizzazione sotto la quale si muovono, in tumulto, altre inarginabili forze.
La luminosa esistenza degli operosi coloni di Mezudat Ram – come quella di ciascuno di noi, sembra suggerire Oz – mostra dunque, fin da subito, una scucitura dove si annida l’ombra. Questa scucitura è il varco che rompe il confine, lasciando passare la contraddizione, l’istinto, il desiderio, la tentazione, la paura: «Un anello cinge il nostro abitato. Fuori di lì qualcosa ribolle. (…) Un’insidia inquietante ci accerchia e prova a sfondare la cinta per seminare il caos. Il tradimento ha già preso piede, laggiù in fondo».
I muti nemici che stringono il kibbutz dall’esterno e ne scrutano i movimenti dal dorso della collina antistante sono, dunque, figure dell’istintuale, dell’estraneo, del proibito. In una parola, del perturbante. Di ciò che dall’esterno, con il fascino dell’ombra, insidia la tenuta del confine fino a farlo saltare.
È questo lo spettro che si aggira per Mezudat Ram, seguito e raccontato da una voce fuori campo. La voce di un colono che, senza precisa identità, offre al lettore uno squarcio sulla segreta rete di relazioni che interseca la codificata prassi produttiva del kibbutz.
Al di là di ciò che si muove in superficie, la voce esterna sa tutto di tutti e inquadra, con sguardo smaliziato sulle cose del mondo, la commedia umana che anima la comunità. Con uno stile che alterna movimenti calmi, percorsi da una dolce malinconia, a tratti rapsodici, guizzanti, elettrici – passaggi nervosi, quasi monologhi interiori attraversati da citazioni bibliche – il narratore senza nome racconta il controtempo emozionale che taglia il tempo ordinario, con la sua cadenza di lavoro lento e ripetitivo. Un controtempo fatto di frenesie notturne, di scivolamenti, di appostamenti, di bisbigli. Di pettegolezzi, soprattutto. Di storie che «parlano di amore, odio, gelosia, passione, sterilità, astio».
Attraverso la lente del colono narratore, veniamo a conoscenza dei vari personaggi, alcuni stagliati con nitidezza, altri sullo sfondo, un poco fuori dal fuoco. Tra tutti, risalta la famiglia di Ruben Harish, insegnante, guida turistica e poeta, quasi un aedo del kibbutz e delle sue utopistiche virtù. Abbandonato dalla moglie Eva – fuggita per fulmineo desiderio di evasione al seguito di un cugino, verso la Germania degli aguzzini, a gestire un night – Ruben accorda la sua esistenza a una rassegnata accettazione e alla dedizione al lavoro. Unico risarcimento, la tiepida e stanca relazione con l’amica insegnante Bronka, donna sposata in cerca di sollievo alla noia e incapace di trattenere una giovinezza che scivola via. La loro segreta relazione, naturalmente, è saputa da tutti, e passa da labbra bisbiglianti a orecchie ansiose, tese all’ascolto.
C’è Noga, la figlia di Ruben, sedicenne a mezza via tra una silfide e una zingarella, la cui inquietudine sfacciata e ammiccante finisce per trarre a sé Ezra, marito di Bronka, salomonico camionista che va avanti a sigarette e citazioni bibliche, esprimendo un semplice e lineare desiderio di vita. C’è poi il personaggio esterno, l’ospite misterioso e affascinante che, in visita dalla Germania, sconvolge l’apparente ordine comunitario, dando all’idea di perturbante un corpo e una figura. Sopra tutti, c’è Fruma Rominov, vedova e madre in lutto – un figlio morto in guerra, l’altro a servizio militare.
Indurita dalla sofferenza, non immune da una segreta gioia per le disgrazie altrui, è lei, forse, il centro totemico della composizione. È lei che, per la via del pettegolezzo, scosta la cortina dell’efficienza comunitaria e mostra, appena dietro, il muoversi scomposto delle debolezze umane. L’eterno scontro tra «luce e tenebra, desolazione e fertilità, monte e valle». Una guerra eterna, «ma da essa» – suggerisce il narratore – «le storie attingono vita». L’ideale di purificazione e miglioramento proprio del kibbutz vale certo la pena, ma la natura umana è quel che è. È insopprimibile e prepotente, e mostra la fragilità di ogni costruzione teorica. Potrà esistere da qualche parte – sembra dire Oz – una dimensione edenica dove domini solo l’integrità cristallina di una convivenza chiara e illuminata, non mossa da altri impulsi. Può essere che esista, chissà. Altrove, forse, ma non qui.

Fonte: il manifesto 

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.