di Guido Caldiron
È uno dei frutti avvelenati che la lunga guerra civile dei Balcani ha lasciato agli stati nati dal collasso della ex Jugoslavia. Lo jihadismo, sbarcato nella regione, ed in particolare prima in Bosnia, dove unità speciali di “combattenti islamici” provenienti da tutto il mondo arabo ma anche da Pakistan e Afghanistan furono integrate nel 1993 nell’Armija BiH, l’esercito della repubblica guidata da Ali Izetbegovic, formando il reparto “El Mudjahedin” forte di circa 2000 effettivi, e quindi nel Kosovo, grazie alle associazioni caritatevoli wahabite e all’impegno economico diretto dell’Arabia saudita, ma anche paradossalmente dell’Iran sciita, non ha mai davvero deposto le armi. Al punto che la jihad balcanica riappare sistematicamente da oltre un decennio in tutte le indagini sulla rete terroristica globale, prima legata ad al Qaeda ed ora al sedicente Stato Islamico.
In particolare, anche in seguito alle stragi di Parigi e Bruxelles, i media internazionali hanno lanciato l’allarme sul gran numero di foreign fighters partiti da queste zone alla volta della Siria e poi tornati in patria. Attualmente oltre 800 volontari, in prevalenza provenienti da Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Albania, Macedonia e dalla regione del Sangiaccato nella Serbia meridionale, farebbero parte delle forze impegnate dall’Isis contro il regime di Assad. Tra i bosniaci, oltre la metà dei combattenti proverrebbe inoltre dalla sola zona di Sarajevo.
Per il rapporto dell’Onu 2015, sulla base delle informazioni fornite dall’intelligence di 27 paesi, che fissava in oltre 15 mila il numero dei «volontari» stranieri accorsi a sostenere le forze di al Baghdadi, cifra poi rivista al rialzo fino a far parlare di almeno 25 mila combattenti stranieri presenti tra Siria e Iraq, con un aumento di oltre il 70% rispeto al 2014, alcuni stati balcanici rientrano tra i primi 10 a livello internazionale per numero di foreign fighters forniti alla causa della jihad rispetto alla popolazione complessiva, Una inquientante classifica che vede Albania, Bosnia e Kosovo affiancare paesi come Tunisia, Marocco, Arabia Saudita, Giordania, Libano, Kazakhistan e Turkmenistan. E il problema, com’è noto, non riguarda tanto coloro che sono partiti, in particolare alla volta della Siria, quanto piuttosto chi da quel fronte ha fatto ritorno con il suo carico di esperienza bellica, odio e determinazione.
Dalle informazioni fornite sia dalla polizia locale che dalle forze della Kfor/Nato, solo in Kosovo, paese che non raggiunge i 2 milioni di abitanti, dal 2011 ad oggi avrebbero fatto ritorno dalle guerre del Medio Oriente oltre 120 jihadisti, mentre l’intero circuito del fondamentalismo radicale potrebbe contare su circa un migliaio di adepiti. Dei 140 sostenitori dell’Isis partiti negli ultimi anni alla volta della Siria, oltre una quarantina sarebbero invece rientrati in Albania, dove negli ultimi mesi sono stati effettuti numerosi arresti e perquisizioni negli ambienti integralisti.
Quanto alla Bosnia, quarto paese al mondo per numero di foreign fighters, un centinaio quelli partiti per la ridotta siriana nel solo 2015, la minaccia jihadista non ha mai cessato di farsi sentire nel corso dell’ultimo decennio. Dopo aver costituito delle comunità wahabite, inizialmente con l’appoggio delle autorità, come quella sorta nel villaggio di Gornja Maoca, nel nord del paese, intorno ad alcuni ex combattenti della guerra civile, tra i fondamentalisti locali sarebbero oggi presenti dei reclutatori dell’Isis e dei veri e propri centri di addestramento paramilitare. Per la stampa internazionale, è questa la nuova frontiera del network del terrore in Europa.
Fonte: il manifesto
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