di Thomas Fazi e Guido Iodice
L’origine stessa della crisi finanziaria del 2008 che risulta, a un’analisi meno superficiale, “liberista” e “interventista” allo stesso tempo. Dopo la fine del regime di Bretton Woods nel 1971, i paesi occidentali hanno progressivamente adottato i dettami di quello che viene chiamato neoliberismo. Seguono la liberalizzazione dei commerci, l’eliminazione di limiti ai movimenti di capitali, l’indipendenza delle banche centrali dai governi e così via. La fine dell’aggancio con l’oro e con il dollaro, lungi dal dare ai governi maggiore libertà nel gestire le politiche monetarie e fiscali, costringe a trovare una nuova “àncora” per il valore della moneta, complice l’alta inflazione degli anni Settanta provocata dalla spirale prezzi-salari innescata dall’esplosione del prezzo del petrolio. Il target inflazionistico, stabilito al 2 per cento, diviene il dogma di ogni banchiere centrale.
Gli economisti guidati da Milton Friedman si preoccupano di spiegare che non è vero quanto si era creduto fino ad allora, ovvero che perseguire la stabilità dei prezzi ha un costo in termini di occupazione, non almeno nel lungo periodo. Così, per combattere l’inflazione le banche centrali aumentano i tassi di interesse. La disoccupazione che ne consegue è il primo tassello di un processo che negli anni Ottanta porta alla drastica riduzione del potere dei sindacati in tutto il mondo occidentale. La conseguenza è che sì, l’inflazione si riduce, ma con essa anche la capacità dei lavoratori di conquistare salari più alti per godere anch’essi dei benefici dell’accresciuta produttività. Mentre quest’ultima continua a crescere, il potere d’acquisto dei lavoratori rimane indietro. Si può produrre sempre di più, ma non si ha il denaro per comprare.
Cosa tiene quindi in piedi questo sistema? Perché semplicemente non si innesca quella che gli economisti chiamano “crisi da sottoconsumo”? La risposta è che i liberisti sono sempre pronti a scendere a compromessi. Ronald Reagan, che era stato eletto con l’obiettivo di ridurre il deficit pubblico, lo lascia crescere a dismisura attraverso i tagli alle tasse, la corsa agli armamenti, ma anche la spesa sociale. Sarà invece “la sinistra”, quella di Bill Clinton, a dimostrarsi più coerente con la dottrina liberista, riportando il bilancio federale addirittura in attivo dopo molti decenni di deficit. Il disavanzo del settore pubblico viene sostituito da quello del settore privato. Se i redditi da lavoro non bastano, ecco che il credito e la finanza divengono la nuova fonte di domanda autonoma. La “new economy” è la nuova corsa all’oro. Tutti comprano azioni, il casinò dei mercati finanziari diviene popolare.
Quando la bolla delle dot.com scoppia, ecco pronto il suo sostituto, stavolta molto più tradizionale: la bolla immobiliare. Il debito privato diviene via via sempre più gigantesco, anche da questa parte dell’oceano, per non parlare delle cosiddette “tigri asiatiche” e del Giappone. Anche qui, il ruolo dello Stato è tutt’altro che marginale. La bolla immobiliare è stata infatti alimentata non solo e non tanto dai bassi tassi di interesse decisi dalla Federal Reserve, la banca centrale statunitense, ma soprattutto dalle politiche per la casa. Se il lavoro non è un diritto, se il salario non permette di accrescere il benessere familiare, allora il nuovo diritto diventa l’accesso al credito. Le classi sociali, nella narrativa dei liberisti “progressisti”, vengono sostituite da due categorie di agenti economici: quelli con un facile accesso al credito, capaci di programmare quindi la loro vita nel lungo periodo, e quelli vincolati dalla liquidità. Questi ultimi – i poveri, insomma – vanno aiutati non assicurando loro salari decenti, e neppure con la fornitura diretta di servizi sociali da parte dello Stato, ma con politiche che permettano loro di indebitarsi facilmente. Ne abbiamo sentito l’eco anche in Italia quando la sinistra, che aveva liberalizzato il mercato del lavoro con il pacchetto Treu, proponeva facilitazioni creditizie per i co.co.co. e i lavoratori interinali, piuttosto che porsi il problema di mettere un freno alla precarietà.
Articolo tratto dal libro “La battaglia contro l’Europa”
Fonte: Keynes blog
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