La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

domenica 8 maggio 2016

Libero accesso in libero stato

di Benedetto Vecchi
La proprietà intellettuale è quell’oggetto misterioso che accende l’immaginazione di giuristi, esponenti politici e grandi manager. A essa sono dedicate una organizzazione delle Nazioni Unite (la Wipo, con sede la neutrale Svizzera), leggi nazionali e normative internazionali, a partire dai trattati del Wto ad alcune direttive dell’Unione europea. Ci sono anche leggi che hanno portato ad accordi bilaterali tra Stati Uniti e altre nazioni. Infine, le imprese la custodiscono come un Santo Graal, arricchendo uno stuolo di avvocati per le controversie relative a brevetti e diritto d’autore più o meno violati dai concorrenti. Anche nel Ttip ce ne sono evidenti tracce, laddove l’oggetto da regolamentare tra vecchio continente e Nord America sono i Big data. Da quando è uscita dalla sua preistoria, le norme che regolano la proprietà intellettuale sono una forma di governance del mercato, nonché regolano i rapporti di lavoro nei settori high-tech.
La notizia che il rapper Fedez abbia deciso di lasciare la Siae italiana per affidare la difesa monetaria del suo diritto d’autore ha fatto scalpore. Da una parte i custodi del vecchio ordine, dall’altra autori, produttori e distributori di contenuti che indicano nella Rete un medium che costringe ad aggiornare continuamente i dispositivi giuridici, secondo le bronzee leggi del libero mercato. Al di là della retorica sulla concorrenza, c’è il rischio – come è accaduto in altri settori – che più che un libero mercato assisteremo la fine di un monopolio e l’ascesa di un altro monopolio, magari non targato made in Italy. La scelta, infatti, di Fedez ha messo in evidenza l’elefantiaca e sclerotizzata della Siae, anche se in molti hanno sottolineato che la società scelta dal rapper italiano non differisce molto dalla logica monetaria relativa al diritto d’autore.
Niente, dunque, di associabile ai Creative Commons messi a punto da Lawrence Lessig o alle licenze di Richard Stallman, dove il cuore delle norme stabiliva che i contenuti non sono proprietà di nessuno, ma debbono circolare liberamente, mentre i singoli autori possono certo vendere i loro prodotti, senza però che questo assegni a loro il potere di impedirne la riproduzione.
Da questo punto di vista, le licenze «non proprietarie» fanno leva su un antico concetto che vedeva nel diritto d’autore una sorta di strumento per stabilire una dimensione «morale» dell’autorialità, fonte di status sociale e di rispetto da parte di «pari». Ma di acqua ne è passata sotto i ponti e di quella dimensione etica rimane ben poco.
La proprietà intellettuale è semplicemente un diritto proprietario delle imprese: quando si firma un accordo con una casa editrice o una industria discografica, con una televisione, la certificazione monetaria dei diritti d’autore è di competenza delle imprese. All’autore solo la possibilità di avere i dati, senza possibilità di verifica. Sia ben chiaro, però, una cosa: la proprietà intellettuale regola i mercati del lavoro culturale o high-tech, nel senso che stabilisce precise gerarchie: chi è famoso, vedrà i suoi compensi garantiti, per gli altri valgono i rapporti di forza tra singoli e imprese, che sono quasi sempre a favore delle imprese. La logica è quella vigente nel mondo dello sport: chi è vincente si prende la maggior parte della torta; per gli altri solo le briciole.
Ma la rete e soprattutto la formazione di un mercato mondiale dei contenuti ha messo sottosopra un mondo con regole feroci che garantivano tuttavia un equilibrio tra tendenza al monopolio e concorrenza. In presenza di un mercato mondiale la proprietà intellettuale favorisce la tendenza a concentrazioni monopoliste, sbarrando la strada a possibili nuovi venuti. Questo è evidente per la produzione di software, di film. E tuttavia la Rete, per non si sa quale ironia della storia, ha coinciso con la diffusione virale prima e con un consolidamento successivo di una attitudine che considera l’accesso e il consumo «gratuito» e free di contenuti e manufatti digitali come un diritto non negoziabile. Da qui la difficoltà da parte delle imprese a vedere rispettato il loro diritto proprietario sui manufatti digitali.
Molto probabilmente il monopolio della Siae finirà. Al suo posto ci sarà una iniziale moltiplicazione di imprese che hanno come mission produttiva la riscossione di royalties. Per poi approdare a quelle forme giuridiche ibride che si stanno imponendo in tutto il mondo: diritto proprietario ma anche Creative Commons.
In fondo è l’indicazione data dalla World Intellectual Property Organization dell’Onu, la scelta di paesi significativi come la Cina, il Brasile, l’India. Un ibrido che tiene aperto il conflitto tra chi vuole libera e gratuita la conoscenza e chi invece vuole stabilire delle inattuali e parassitarie enclosures.

Fonte: il manifesto 

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