Intervista a Giuseppe Civati di Valerio Valentini
C’era una volta il partito dei sindaci. «Vogliamo rievocare un fatto vecchio di 25 anni? Pensavo di dover parlare del presente». Fa finta di non capire Pippo Civati, rievocando la stagione dei Bassolino e dei Cacciari, dei Rutelli e dei Formentini. O forse è naturale che Civati abbia voglia di scherzare, all’indomani della batosta elettorale subita da quel Partito democratico da cui l’attuale leader di Possibile decise di uscire nel maggio del 2015. No, onorevole Civati. Il riferimento era al partito dei sindaci di cui Matteo Renzi si è più volte proclamato paladino. Un partito che proprio in occasione di elezioni amministrative è uscito sconfitto. Come si spiega?
«Molto semplicemente. Innanzitutto dicendo che l’enfasi mostrata da Renzi per questo tipo di partito, fondato sull’autonomia delle amministrazioni locali, è sempre stata pura retorica. Nei fatti, la maggior parte dei provvedimenti adottati dall’attuale governo ha reso la vita dei sindaci molto più difficile. E non è un caso che proprio nei comuni si sia manifestata l’incapacità di Renzi di costruire una classe dirigente affidabile».
Eppure Fassino e Giachetti erano ritenuti da molti delle ottime candidature. E sono entrambi renziani.
«Renziani d’adozione, si badi bene. La loro carriera politica non nasce certo con l’ascesa dell’attuale premier. Sono stati entrambi affascinati dal renzismo, in un momento in cui era particolarmente conveniente farlo. Stesso discorso per Valeria Valente: ex “giovane turca” (minoranza interna che fa capo a Matteo Orfini), anche lei convertitasi al credo renziano, e anche lei uscita sconfitta da questa tornata elettorale».
A Milano però la scelta del premier ha retto, e ha vinto. Come mai?
«Innanzitutto, va detto che il successo di Beppe Sala è stato meno netto di quanti in molti si aspettassero. E in secondo luogo, tantissimi milanesi hanno votato per lui senza alcun entusiasmo, ma solo per evitare il ritorno della destra a Palazzo Marino. Sala ha potuto sfruttare l’eredità di Pisapia, uno degli autori dell’unica vera novità politica degli ultimi anni».
Si riferisce alla rivoluzione arancione. E cosa ne è rimasto, oggi?
«A me sembra significativo che tutte le giunte arancioni affermatesi nel 2011 siano state riconfermate. Non solo Milano, ma anche Cagliari con Zedda e Napoli con De Magistris. Quella è stata una grande occasione mancata: non si è voluto cogliere l’importanza di quella stagione di cambiamento e di attivismo civico, che avrebbe portato il centrosinistra su tutt’altre strade rispetto a quelle imboccate da Renzi negli ultimi anni. E queste elezioni ci dicono che la scelta del premier non è stata azzeccata».
Renzi però ha sempre ribadito che il voto locale non implica un giudizio sul governo nazionale. Lei non concorda?
«Assolutamente no. E la dimostrazione è proprio Torino, una città amministrata tutto sommato bene, che scaricando Fassino in realtà si esprime contro le scelte del governo Renzi, di cui Fassino è apparso come un’emanazione diretta».
Lo confessi, in fondo la sconfitta del Pd un po’ la rende contento.
«Più che altro direi stressato. È da ieri sera che continuo a ricevere telefonate di miei ex compagni di partito».
Esponenti della sinistra dem?
«Nomi non ne faccio. Ma diciamo che in quell’area sono improvvisamente tornato molto popolare».
Allora è vero che molti nel Pd in queste ore ne approfittano per contestare la leadership di Renzi e il suo doppio incarico di premier e segretario?
«Questo bisognerebbe chiederlo a quegli esponenti che sfruttano questa sconfitta per smarcarsi da Renzi. Una cosa molto italiana. Io ho rotto con lui nei mesi in cui tutto sembrava andare bene, dopo il trionfo delle Europee. Mi chiedo quanto siano credibili queste prese di distanza, oggi».
E se qualcuno dei suoi ex compagni della sinistra dem decidesse di seguirla, nel suo progetto di fondare una forza alternativa al Pd, lei lo respingerebbe?
«Non dico questo. Dico che bisogna essere decisi sul da farsi, di tempo se ne è già sprecato troppo. Primo obiettivo? Creare una sinistra di governo non settaria e non radicale. Io voglio costruire un soggetto che scalzi il PD come forza di riferimento del centrosinistra, non che punti al solito, inutile 5%».
E il secondo obiettivo?
«Capire che a Renzi non si può più dire di sì al mattino, per criticarlo al pomeriggio. Se gli si vota tutto, poi è inutile protestare».
Sta dicendo ai suoi ex colleghi che l’occasione da cogliere per sconfiggere Renzi è quella del NO al referendum costituzionale di ottobre?
«Esattamente. Quello sarà il vero banco di prova per chi vuole davvero sconfiggere politicamente l’attuale premier».
Quanto è possibile che la sua chiamata alle armi ottenga risposta dalla minoranza interna del Pd?
«Non sta a me dirlo. Mi permetto solo di far notare una cosa ai mei ex compagni: se collaborate per far vincere il Sì alla riforma Boschi, a quel punto accettate di tenervi Renzi a vita».
Ha cinque euro in mano. Li scommette sulla costruzione di questa piattaforma?
«Facciamo che ne punto due. Gli altri tre me li tengo per finanziare i comitati del NO».
Fonte: Reporter Nuovo
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