Intervista a Giorgio Nebbia di A Rivista
Non si tratta solo di pratiche individuali. Per affrontare la questione dei rifiuti serve uno sguardo ampio, che comprenda l'intero sistema capitalistico. Giorgio Nebbia (Bologna, 1926), professore di merceologia all'Università di Bari dal 1959 al 1995, si occupa da decenni di ecologia, rifiuti, ecc. Gli abbiamo posto due domande. Quando si afferma la necessità di ridurre la produzione di rifiuti, raramente si affronta la questione in modo più generale, guardando a quel modello economico e a quei sistemi di produzione che li generano.
Quanto la questione dei rifiuti può essere risolta tramite comportamenti personali “virtuosi“ e quanto invece deve essere fatto nell'ambito di un generale ripensamento dei sistemi di produzione e del modello economico attuale?
"Il prof. Joseph Spengler inaugurando nel 1965 il congresso della American Economic Association, disse che la nostra dovrebbe essere chiamata non società opulenta, ma società dei rifiuti. Nell'originale c'è un gioco di parole fra “affluent society“ (il titolo di un, allora, celebre libro di Galbraith, tradotto in italiano come “la società dei consumi“) e “effluent society“, appunto la società che fa uscire dal proprio corpo un profluvio di scorie.
Ogni essere umano ha dei bisogni: quello di nutrirsi, di difendere il corpo dal freddo, di muoversi, di comunicare con altri, e questi bisogni possono essere soddisfatti soltanto con beni fisici - pane, tessuti, mezzi di trasporto, mattoni, eccetera - tratti dalla natura.
Ci chiamano consumatori, ma noi non consumiamo niente e soltanto trasformiamo, dopo l'uso, gli oggetti in altri oggetti, “merci negative“, che finiscono nell'aria, nelle acque, nel suolo in quantità tanto maggiore quanto più una società è “avanzata“. La quantità dei rifiuti - solo i rifiuti solidi sono in Italia 150 milioni di tonnellate all'anno, circa 35 quelli “domestici e urbani“ - e la loro qualità dipendono quindi dal tipo di società in cui si vive.
Fra le società umane quella capitalistica produce denaro attraverso il commercio di questi oggetti e, per ottenere più denaro, impone agli esseri umani di soddisfare i bisogni possedendo e usando più merci; anzi il fabbricante e il venditore per avere il massimo profitto, progettano merci che durano poco, che devono essere continuamente rinnovate e buttate via, e “rifiutate“, generando così crescenti quantità di rifiuti, quei corpi estranei nocivi per la salute e per l'ambiente naturale.
A tal fine la società capitalistica usa il raffinato strumento della pubblicità per asservire i suoi sudditi alle merci, anzi li costringe fin dalla più tenera età a diventare generatori di rifiuti.
L'aveva ben capito oltre un secolo e mezzo fa Carlo Marx quando scrisse, nei “Manoscritti economico-filosofici del 1844“ che nella società borghese:“ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza."
Da un punto di vista concreto, quali sono i progetti che è urgente realizzare per risolvere la questione della gestione dei rifiuti, urbani e speciali?
"La stessa società capitalistica che si ingegna di fare soldi vendendo crescenti quantità di merci, si ingegna di fare soldi anche proponendo lo smaltimento dei rifiuti, con la sepoltura di quelli solidi in discariche, oppure con la combustione in inceneritori; quella anzi degli inceneritori (scusate: “termovalorizzatori“) è la soluzione più brillante perché permette ai gestori di ottenere “valore“, cioè soldi, grazie alle sovvenzioni pubbliche ottenute come premio per la vendita di elettricità contrabbandata come derivata da fonti “rinnovabili“.
Una qualche soluzione per diminuire la massa di rifiuti da seppellire o bruciare è offerta dai processi che consentono di ottenere nuove merci riciclando alcuni dei materiali presenti nei rifiuti, a condizione che siano raccolti separatamente, per categorie merceologiche simili. Senza dimenticare che non esistono “zero rifiuti“, che i processi di riciclo generano anche loro altri, sia pure in quantità inferiore, rifiuti.
Per fare qualche passo verso la “liberazione“, almeno parziale, dai rifiuti bisognerebbe cominciare a chiedersi: che cosa sto comprando - che sia conserva di pomodoro o un divano, gasolio o il sacchetto di plastica per la spesa - come è fatto? dove è stato fatto? con quali materie? dove finirà quando non servirà più? è strettamente necessario? ci sono alternative?
Non si tratta di auspicare una società povera, ma austera si, ispirata al valore politico della solidarietà di classe e internazionale. Le merci consumate sono fabbricate portando via dalla natura acqua, minerali, prodotti forestali, impoverendo la fertilità dei suoli, beni sottratti ad altri; molte merci e risorse che soddisfano la nostra insaziabile fame di “consumi“ sempre più mutevoli e superflui sono “rubate“ ad altri - che alla fine si arrabbiano.
Ma si arrabbia anche la natura perché i crescenti consumi e rifiuti alterano i suoi lenti, duraturi cicli naturali; quella natura in cui non esistono rifiuti perché è capace di rigenerare nuova vita dalle scorie della vita. La vera ricetta sta quindi nell'usare le conoscenze tecnico-scientifiche per conoscere meglio i cicli della natura e per richiudere, almeno in parte quelli più brutalmente rotti dall'avidità dei soldi.
A questo proposito si possono utilmente leggere i libri scritti negli anni sessanta del Novecento da Barry Commoner, “Closing circle“ (in italiano “Il cerchio da chiudere“) e da Murray Bookchin, “Our synthetic environment“ (non tradotto in italiano ma disponibile in internet qui."
Fonte: A Rivista
Originale: http://www.arivista.org/?nr=408&pag=55.htm
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