di Stefania Barca
Mi è stato chiesto di contribuire al dibattito a Sherwood sulla crisi climatica e vorrei farlo concentrandomi sulla questione: Come costruire una coscienza ecologica del lavoro, o meglio una coscienza ecologica di classe? Si tratta di una domanda che scaturisce in parte dalla storia politico culturale dell’ambientalismo italiano, dove giá negli anni 70 si parlava – con Virginio Bettini, Laura Conti, Giorgio Nebbia, e Dario Paccino - di una ecologia di classe, contrapponendola ad una ecologia di potere. Nello spiegare che cos’é l’ecologia, Laura Conti parlava del rapporto capitale-lavoro-natura a partire dai luoghi di produzione e allargando lo sguardo poi all’ambiente esterno: nella sua visione, l’ecologia politica era il modo in cui i rapporti sociali determinavano i rapporti tra la specie umana e le altre specie, anticipando temi che saranno poi propri dell’eco-marxismo americano.
Personalmente sono stata molto influenzata da questa definizione dell’ecologia, che mi ha portata a considerare la storia delle mobilitazioni ambientali come parte della storia politica piú generale, della storia dei rapporti tra le classi. In effetti, al di lá della retorica sul nostro futuro comune e sulla sostenibilitá come interesse generale, a ben guardare tanto i i movimenti che le politiche ambientali sono attraversati interamente dal conflitto di classe.
Personalmente sono stata molto influenzata da questa definizione dell’ecologia, che mi ha portata a considerare la storia delle mobilitazioni ambientali come parte della storia politica piú generale, della storia dei rapporti tra le classi. In effetti, al di lá della retorica sul nostro futuro comune e sulla sostenibilitá come interesse generale, a ben guardare tanto i i movimenti che le politiche ambientali sono attraversati interamente dal conflitto di classe.
Infatti l’ambientalismo come oggi lo conosciamo, cioè nella sua accezione piú comune, è stato fortemente caratterizzato da mobilitazioni, valori, e linguaggi delle classi medie. Questo non perché non siano esistite forme diverse di mobilitazione ecologica, quelle che Joan Martinez Alier chiama ambientalismo dei poveri, e che includono, mi pare, tutta una mobilitazione anche tipicamente operaia, working-class, contro la nocivitá industriale, o per il diritto di accesso alla natura contro recinzioni e privatizzazioni. Ma questi contributi e queste forme di mobilitazione ecologica sono stati a lungo ignorati o definiti in altro modo, mentre all’ambientalismo è stato dato un significato tipicamente borghese, come forma di lotta post-materialista non legata ai modi di produzione, al lavoro, alle condizioni di vita delle classi lavoratrici.
E tuttavia la crisi climatica globale mostra oggi che questa forma dominante di ambientalismo ha raggiunto i limiti delle sue possibilitá politiche, essendo stata in larga parte cooptata in schemi di capitalismo verde (da Rio 92 a Rio 2012) che non possono evidentemente scalfire le cause strutturali della crisi: il capitalismo, ma anche la pianificazione socialista e il paradigma della crescita economica in generale (il produttivismo), oltre a cause ancora piú profonde come colonialismo, razzismo e sessismo. Sono convinta peró che esista oggi una situazione potenzialmente rivoluzionaria (non a caso, è questa la tesi proposta da Naomi Klein nel suo ultimo libro, anche se questo non offre poi spunti sufficienti per elaborare una strategia rivoluzionaria). L’ambientalismo egemonico infatti è stato negli ultimi anni sfidato dall’emergere di una varietá di movimenti autonomi, localizzati ma quasi sempre collegati in reti di solidarietá e azione piú ampi, in larga parte espressi da settori di popolazione mondiale che non sono identificabili né con le classi medie né con il movimento operaio storicamente inteso, e che emergono piú chiaramente dalle ‘zone di sacrificio’ dell’economia politica globale, a partire dal Sud. Movimenti indigeni, movimenti eco-femministi, ecologia sociale, zapatismo, Via Campesina sono alcuni esempi piú noti. Questi movimenti fanno spesso riferimento ad un tipo specifico di ambientalismo che è denominato ‘giustizia ambientale’. Nato nel Sud degli USA alla fine degli anni 80, questo tipo di ambientalismo è caratterizzato da una esplicita contrapposizione all’ambientalismo di classe media, in quanto si basa sulla denuncia delle disuguaglianze sociali (e specialmente di classismo e razzismo) e sulla consapevolezza che la crisi ambientale è il risultato di strutture economiche e sociali basate sulla disuguaglianza, ovvero sulla possibilitá di scaricare i costi ambientali dello sviluppo capitalista verso settori specifici di popolazione e sui loro territori. Questo movimento ha permesso di capire che definire l’ambientalismo come un movimento post-materialista e post-politico fosse un abbaglio, una mistificazione ideologica che serviva a nascondere l’oppressione di classe, coloniale e di genere che é alla base delle disuguaglianze ambientali.
A partire dagli inizi del 2000 questa visione si è allargata al livello globale, identificando tra le cause della crisi ecologica il colonialismo (quello storico, e le sue forme attuali). La sua espressione globale oggi è la “giustizia climatica”, un termine ombrello che comprende una varietá di lotte e mobilitazioni unificate dal rifiuto della risposta neoliberista alla crisi climatica. L’abbiamo vista in azione in tutti i summit climatici globali da Copenhagen in poi, e in convergenza con il piú ampio movimento anti-globalizzazione del world social forum da Seattle in poi. Questo movimento globale si è formato e ha acquisito consapevolezza di sé sia in una serie di incontri alternativi, sia nelle strade e negli scontri con la polizia. La composizione sociale dei movimenti per la giustizia climatica è quanto mai varia e in flusso. Ne fanno parte tutti coloro che non si riconoscono nell’ambientalismo delle grandi ONG e fondazioni varie, che non credono alla favola del capitalismo verde, che vedono chiaramente le connessioni tra crisi ecologica e oppressione sociale, culturale, razziale, coloniale e di genere, dunque rifiutano la separazione dell’ambiente in quanto settore specifico di intervento, scollegato dalla struttura generale della societá e dell’economia mondiale. Rifiutano cioè una visione della crisi ecologica come qualcosa da affidare alla expertise tecnocratica in un contesto post-politico di fine della storia. Al contrario, questi movimenti affermano con forza che la questione ecologica è questione politica e va affrontata con la mobilitazione dal basso e la costruzione di strategie comuni di lotta a livello internazionale.
Il punto cruciale qui diventa, in un’ottica rivoluzionaria, come allargare il piú possibile la base sociale di questo movimento, coinvolgendo settori di popolazione che non hanno una visione chiara del loro ruolo nella lotta contro il cambiamento climatico, e che sono preda della propaganda governativa e dell’egemonia culturale neoliberista, che ha a lungo educato le masse sulla impossibilitá di alternative all’ordine esistente. Questi gruppi sociali non hanno chiara la visione di come il capitale globale li abbia cooptati dentro un sistema di produzione e consumo che li ha di fatto spossessati del proprio diritto di accesso alla natura come condizione di esistenza; essi non si percepiscono, in altri termini, come un proletariato ecologico globale. Perché una rivoluzione ecologica si realizzi, occorre che larghi strati sociali acquisiscano coscienza di classe ecologica. La questione dell’egemonia mi sembra dunque qualcosa su cui valga la pena riflettere.
La crisi di quello che eravamo abituati a chiamare il movimento operaio (sindacati e partiti di sinistra) – conseguenza della fine del modello fordista e della ristrutturazione globale del capitale – presenta paradossalmente un punto di apertura per nuove possibilitá di composizione di classe, e dunque per nuove forme di unificazione di lotte diverse, dentro una comune cornice anti-capitalista. Ma qual è il nome di questo progetto globale comune? Socialismo, Comunismo, Anarchia e persino Femminismo suonano come termini superati, incapaci di aggregare le masse politicizzate. Quello che rimane sono termini antagonisti, di rifiuto: anti-globalizzazione, anti-austherity, persino decrescita suona come un sacrosanto no, a cui peró manca il riflesso positivo, l’alternativa. Tuttavia a ben guardare questi movimenti offrono una molteplicitá di visioni e pratiche dell’alternativa, che prendono corpo in una serie di iniziative portate avanti in centri sociali e luoghi pubblici occupati, cooperative sociali, ecovillaggi, etc. Si tratta di individuare quale sia il comune denominatore. A me sembra che questo sia l’idea del Comune, ossia il Comune come principio politico, qualcosa per cui ci si mobilita e che si costruisce con la lotta e la negoziazione continua e paziente tra le diverse identitá insorgenti e le diverse istanze, e non un principio definito una volta per tutte, qualcosa da conquistare. Nell’ultimo decennio almeno, il principio del Comune si è incarnato in una serie di attivitá politiche e sociali e ha preso vari nomi: beni comuni, commoning, occupy, P2P, comunalismo, ma anche Pacha Mama, Buen Vivir, Ubuntu. Sul Comune come principio politico si incontrano diverse tradizioni di pensiero politico, giuridico, filosofico, dal marxismo (attraverso l’esperienza storica della Comune di Parigi) all’ecologia sociale di Murray Bookchin, ispiratrice della rivoluzione in Rojava, allo zapatismo, e alle diverse rivendicazioni territoriali delle comunitá indigene ai quattro angoli della terra. La lista potrebbe essere molto lunga: ció che conta è essere coscienti che esiste oggi a livello globale una diffusa coscienza del Comune, che è una coscienza sociale ed ecologica al tempo stesso, consapevolezza di quanto i rapporti sociali si inscrivano dentro reti di interdipendenza tra le diverse forme di vita e tra il vivente e l’ambiente fisico che lo sostiene. Secoli di capitalismo, colonialismo, sessismo, razzismo e ideologia dello ‘sviluppo’ hanno trasformato questa interdipendenza in rapporti di dominio, e dunque la mobilitazione ecologica si presenta oggi primariamente come lotta di liberazione, di emancipazione dal nodo congiunto dell’oppressione sociale e ambientale.
Dunque per concludere vorrei tornare di nuovo alla questione dell’egemonia, e in particolare alla questione: dove si colloca oggi il movimento operaio rispetto al principio del comune, e alle lotte per la giustizia ambientale? Questa domanda contiene in sé un presupposto, che non sará possibile affrontare in dettaglio, ma che dobbiamo tenere a mente per una discussione sull’egemonia. Il presupposto cioé che esista o che possa esistere oggi qualcosa di identificabile come un movimento operaio, inteso come l’insieme delle organizzazioni politiche e sindacali che rappresenterebbero le classi lavoratrici. Molti direbbero subito che no, questo non esiste piú, o meglio è stato sostituito da organizzazioni partitiche e sindacali svuotate di contenuti e votate alla conservazione dello status quo piú che al cambiamento. E tuttavia attenzione, perché le classi lavoratrici esistono ancora, cosí come esistono ancora lo sfruttamento e le disuguaglianze di tutti i tipi, incluse le disuguaglianze ambientali. Chiedetelo alla popolazione di Taranto, e soprattutto agli abitanti del rione Tamburi, che si ammalano di tumore il 50% in piú delle medie regionali. Chiedetelo soprattutto alle donne e ai bambini, i soggetti piú colpiti da varie forme tumorali conseguenti all’inquinamento ambientale da acciaieria obsoleta e fuori da qualsiasi norma.
Dunque c’è un vuoto di rappresentanza, un vuoto che va riempito con forme e contenuti politici capaci di dare vita alla rivoluzione ecologica di cui le classi lavoratrici hanno bisogno come e probabilmente anche piú di tutti. Mai come oggi questi contenuti devono affermare il rifiuto netto e categorico della monetizzazione del rischio, ossia del fatto i danni alla salute delle persone e del’ambiente abbiano un prezzo, possano essere scambiati contro altri beni e valori sociali ad essi sostituibili. Il rifiuto della monetizzazione del rischio fu una parola d’ordine nata nelle lotte degli anni ’70 contro quella che allora si chiamava la nocivitá industriale, e incarnava l’unitá organica tra lotte per la salute, l’ambiente e i diritti del lavoro. Quello che non si è riusciti a fare in quegli anni, per ragioni congiunturali ma anche ideologiche, è un passaggio fondamentale che va portato a compimento oggi: rifiutare cioè il ricatto occupazionale tout court, e mettere in discussione il dominio della produzione sulla riproduzione, la logica dell’accumulazione, il paradigma della crescita a tutti i costi, e la divisione sessuale del lavoro, che sono le cause profonde dell’ingiustizia ambientale. La battaglia per il reddito di cittadinanza è un momento importante in questa prospettiva, anche se va combattuta con piena consapevolezza dei rischi. Ma anche se non ci sono al momento risposte e soluzioni pronte a questa questione, si tratta tuttavia di un nodo centrale della lotta politico-ecologica in questa fase di crisi. Per questo c’è bisogno di una coscienza di classe ecologica, la consapevolezza cioè che le lotte ambientali sono lotte contro le disuguaglianze sociali a tutti i livelli, dal locale al globale, e dunque sono lotte anti-capitaliste, anti-razziste, anti-sessiste, anti-colonialiste e anti-produttiviste. Il principio del Comune è una cornice ideologica e di lotta adeguata alla posta in gioco, perché il Comune é un principio politico che riassume tutto ció che capitalismo, razzismo, sessismo, colonialismo e produttivismo hanno provato ad annientare da secoli a questa parte. Il principio del Comune perció è ció che puó ridare vita ad un movimento operaio capace di compiere il salto in avanti di cui c’è bisogno per fronteggiare il rischio ecologico e climatico globale in una direzione genuinamente e radicalmente rivoluzionaria.
Fonte: Global Project
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