di Maria Matteo
La cifra dei movimenti che negli ultimi quindici anni hanno attraversato carsicamente le piazze europee – ma non solo – pare condensarsi in due pratiche, spesso giocate mediaticamente in opposizione reciproca, sebbene nella magmaticità dei movimenti si diano forme spurie. Le piazze occupate da tende ed assemblee permanenti, luoghi dove la polis si emancipa dalla politica istituzionale, hanno rappresentato il cuore di movimenti, spesso diversi, ma uniti dalla tensione al dispiegarsi di una relazione discorsiva divaricata dalla ratio istituzionale. In queste piazze, con modalità post-novecentesche di aggregazione, si ridisegna una sorta di comunità che si riconosce nel metodo della partecipazione diretta, della ricerca dell'accordo, della sottrazione di uno spazio fisico e simbolico alla normatività statuale.
Queste piazze lontane dalla forma partito ma anche dalla spinta a modalità organizzative libertarie stabili o alla aggregazione di affini, diventano una sorta di comunità, che si riconosce nella volontà di prendere parola, di costruire un ordine del discorso che metta in campo soggettività silenti, costitutivamente espropriate dall'accesso alla politica.
In queste zone temporaneamente autonome convivono spinte più radicali alla costruzione di percorsi di sottrazione conflittuale dall'istituito, sia spinte a ridisegnare un nuovo ambito istituzionale.
Questi spazi liberati, che sembravano essersi esauriti nell'approdo elettorale delle piazze indignate spagnole, sono riemersi in Francia, nella lotta contro il nuovo codice del lavoro.
L'altra pratica che segna i movimenti di quest'epoca si da nello scontro di piazza, nella distruzione di auto e vetrine, che in se non avrebbe nulla di nuovo, se non nella pressoché assoluta tensione a bastare a se stessa e a trovare in se stessa il fine. Quando l'inimicizia verso l'ordine politico e sociale si esprime direttamente, senza porsi obiettivi estranei al proprio attraversare le strade, il presente si emancipa dal futuro, senza però mirare al processo che innesca la rottura, forse nella acuta consapevolezza che una prospettiva rivoluzionaria non pare attingibile. Qualche volta la tensione rivoluzionaria viene cancellata dal proprio orizzonte politico ed esistenziale.
Le piazze indignate come le pratiche di rivolta in strada durano sino all'esaurimento della spinta propulsiva o nella chiusa brusca determinata dalla repressione.
Sedimentano tuttavia un immaginario che si trasmette nelle foto iterate per anni dal web, nel racconto di una giornata, di un situazione, soprattutto in relazioni umane e politiche, che mantengono vivo un potente senso di comunità. Paradossalmente anche l'immagine distorta e criminalizzante dei media mainstream contribuisce a moltiplicare la fascinazione di alcuni momenti di rottura dell'ordine costituito.
Un movimento plurale
Ogni notte place de la République, diventa il teatro di una presa di parola collettiva, di partecipazione “democratica“, come a Puerta del Sol o a Occupy Wall Street.
Le Nuit Debout, le “notti in piedi“ dilagano per tutta la Francia.
Tutto è cominciato a marzo con le prime manifestazioni contro il nuovo codice del lavoro che il ministro Myriam El Khomri sembra aver scritto, mutuandolo dal job act di Matteo Renzi. Mentre scrivo, all'indomani di un Primo Maggio caldissimo, come non se ne vedevano da almeno trent'anni, il movimento contro la Loi Travail è ancora in crescita.
Difficile fare pronostici, sebbene sia ormai chiara la forte preoccupazione del governo Valls, che ha giocato questa carta un mese dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, confidando che il clima di unità nazionale suscitato dalle stragi jiadiste, sopisse sul nascere l'opposizione ad un piano di macelleria sociale, destinato a ridurre rapidamente le distanze tra chi non ha mai avuto diritti e i lavoratori che qualche tutela l'hanno mantenuta. I disoccupati ed i precari delle periferie e i lavoratori con il posto fisso scoprono che la strada in salita degli uni potrebbe essere ostruita dalla discesa precipitosa degli altri. Un tappo, un ingorgo, unbouchon sociale che qui in Italia ha funzionato sin troppo bene. Lo scivoloso declivio della guerra tra poveri ha consentito ai governi degli ultimi trent'anni di frantumare tutele e diritti, incontrando una resistenza sempre più debole.
Non solo. Il movimento è andato ben oltre l'opposizione alla nuova normativa sul lavoro, per assumere caratteristiche di critica più radicale. Le Nuit Debout ne sono il fulcro.
Il governo tenta di governare la situazione, bilanciando la repressione, e tentando di impedire che le piazze si trasformino in accampamenti permanenti, obbligando ogni notte a smontare impianti di amplificazione e cucine.
Le Nuit Debut in queste settimane sono state l'elemento di raccordo, il luogo pubblico di un movimento plurale, dove i temi del lavoro entrano a far parte di un mosaico che solo occasionalmente è rivendicativo, assumendo caratteri seccamente antisistemici.
Tante anime si intrecciano a Rèpublique, in un susseguirsi di assemblee, discussioni di gruppo, che moltiplicano i tempi e confrontano pratiche anche molto diverse.
Con esplicita semplificazione mi limito ad accendere i riflettori su due aspetti.
La spinta partecipativa, che scaturisce dall'insofferenza verso un sistema politico, che non offre spazi di intervento reale, ma si configura come sistema di ricambio tra élite sostanzialmente interscambiabili.
L'assemblea, le discussioni a tema, le commissioni bastano a se stesse. Sarà interessante vedere se questo laboratorio parigino avrà esiti diversi dall'approdo istituzionale che ha posto fine alle piazze indignate spagnole. Ma qualcosa di diverso c'é già.
Rèpublique è stata anche il punto di approdo e ripartenza di una generazione di giovani liceali, acutamente consapevoli di avere poche prospettive. Sono scesi in piazza contro il nuovo codice del lavoro, ma esprimono nei fatti una radicalità che va al di là dell'opposizione alla nuova legge per investire un intero sistema di relazioni sociali. I cortei selvaggi, gli attacchi alle banche, gli scontri con la polizia, materializzano un'insofferenza nei confronti del futuro che si profila per la gran parte di loro, che, sebbene non trovi sbocchi specifici, al di là di una generica spinta alla sottrazione all'esistente, risulta tuttavia incompatibile con le regole del gioco capitalista.
Il rifiuto dei compromessi
I casseur e gli indignati costituiscono la cifra degli ultimi dieci anni. La novità francese è nel loro apparire simultaneo. Assemblee di piazza e casseur si intrecciano negli stessi luoghi. In piazza si sperimenta una presa di parola collettiva, che, al di là delle assemblee generali, si concretizza intorno a specifiche aree tematiche. La piazza è anche il posto dove si preparano le incursioni in città, da dove si dipanano pratiche di scontro con la polizia e di assalto ad auto e negozi di lusso. La piazza non è immobile, perché si materializza altrove, secondo le necessità e circostanze.
Gli accampamenti di migranti sotto sgombero, i licei, i grandi magazzini dove la precarietà e già l'orizzonte normale del lavoro sono i luoghi di un movimento che ridisegna il territorio, individuando i luoghi del conflitto e quelli dove una comunità in lotta si incontra e si riconosce.
A Rennes, di fronte ad una barricata di cassonetti che blocca una grande strada del centro brucia un falò di cartoni. In prima fila un ragazzo esibisce un cartello con la scritta “Io sono pacifista, ma dietro di me il popolo rumoreggia“.
La polizia sgombera ogni notte la piazza, perché teme che si trasformi in un villaggio, in una Zona Temporaneamente Autonoma che allude alla possibilità di durare, di essere fragile ma stabile, capace di infettare le coscienze di una possibilità cruciale.
La piazza consente di ri-tessere una tela di relazioni solidali, spezzata da decenni, frammentata da una modalità di produzione leggera, difficile da attaccare e porre in scacco. Una tela che per i più giovani e per molti dell'età di mezzo non è che un mito del passato, un retaggio novecentesco, che pare(va) ormai inattingibile. Oggi queste piazze reinventano uno spazio pubblico non statale, un luogo di confronto, che si impasta nelle lotte, ma assume nel contempo una dignità propria, perché i vari comitati in cui si svolgono discussioni sui temi più disparati si alimentano di se stessi, della pratica del confronto in quanto tale. Si intrecciano tensioni diverse: c'è chi discute sui modi per riscrivere la costituzione e chi si confronta e si organizza contro il nucleare. Altri si riuniscono per programmare la prossima iniziativa di strada.
Una spinta di carattere cittadinista si interseca con chi considera irriformabile il mondo in cui è forzato a vivere. Sui cartelli viene scritto il rifiuto dei compromessi, perché sulla vita, il futuro, la dignità non si media, non si fanno passi indietro. Molti dichiarano senza troppi fronzoli che nessuno vuol tornare all'età delle socialdemocrazie, specie se si gioca costantemente al ribasso.
Altro elemento cardine della piazza è l'inimicizia contro la polizia, che lega chi tira i sassi e chi passeggia con un cartello in spalla, chi non disdegna di restituire alla polizia un po' della violenza che subisce e chi, pur non scegliendo l'autodifesa, si indigna per i manganelli, i gas e le pallottole di gomma, che soffocano, spezzano le ossa, accecano.
Sino a pochi mesi fa la Francia pareva avviata sulla via che segna tanti altri paesi europei, tra xenofobia, razzismo, nazionalismo esasperato, muri e seduzioni autoritarie. Il consenso crescente al Front National di Marine Le Pen disegnava un quadro decisamente inquietante. Le elezioni regionali avevano regalato poche poltrone ma grandi consensi ai (post)fascisti, specie al nord ed al sud del paese. Hollande e Valls, indeboliti nelle urne ed in calo verticale di popolarità, hanno giocato la loro carta, certi di vincere a man bassa, forti del potere che le leggi eccezionali contro il terrorismo avevano offerto su un piatto d'argento al ministro dell'interno e alla sua polizia.
Sondaggi e realtà sociale
Il movimento che da due mesi sta scuotendo la Francia è il segno che i sondaggi elettorali, cui partecipano sempre meno cittadini, non sono lo specchio della realtà sociale, o, meglio, ne riflettono solo uno spicchio.
In questi anni l'esaurirsi dei movimenti ha qualche volta sedimentato nuova linfa al milieu di attivisti radicali, fatto di gruppi anarchici, sindacati libertari, reti antirazziste, antisessiste, antimilitariste.
Altri però mantengono un atteggiamento più fluido, attraversano nuove lotte, senza fare la scelta di una adesione specifica ad un gruppo. Questa è sia la forza sia la debolezza delle piazze di questi anni, perché ne rispecchiano l'attitudine ad una critica radicale, senza tensione rivoluzionaria.
Una tensione che si rinnova tuttavia quando la presa di parola che spezza l'ordine costituito, negandogli legittimità, si interseca con la radicalità di piazza e con la pratica dell'autogestione e del mutuo appoggio.
Molti attivisti, specie i più giovani, si muovono molto, cercano altrove un rinnovarsi della comunità di lotta. Si ritrovano lungo le frontiere, dove si moltiplicano i muri e cresce il filo spinato, a Ventimiglia, a Idomeni, a Lampedusa; sui monti della Val Susa come nelle foreste tedesche, in Calcidica come a Rosia Montana.
Le piazze francesi, pur nell'innegabile continuità con il movimento altermondialista dei primi anni del secolo, nell'intersecarsi con le lotte dei migranti e nella pratica delle ZAD, le Zone da Difendere, occupate ed autogestite per bloccare una grande opera, pur nell'assonanza con i lavoratori che hanno lasciato in mutande l'AD di Air France, stanno sperimentando un complesso connubio tra momenti di sottrazione dall'istituito e barricate in strada, in questa forma inedito.
Fonte: A Rivista
Originale: http://www.arivista.org/?nr=408&pag=8.htm
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