di Dante Barontini
Due giorni dopo i ballottaggi che segnano l’inizio della fine per la stagione “renziana”, ci sembra utile vedere come “i mercati” intendono la politica. Utile per tutti, perché anche quando si arriva dentro le mitiche “stanze dei bottoni”, da cui si dovrebbe esercitare il potere, si scopre che in realtà sono stanze vuote. La testimonianza di Yanis Varoufakis, al suo primo giorno da ministro dell’economia greco, resta una pietra miliare per le illusioni riformiste (stupisce semmai che lui stesso non ne abbia tratto le necessarie conclusioni). L’articolo apparso non per caso sul giornale di Confindustria, Il Sole 24 Ore, è altrettanto illuminante. Esplicito in modo quasi imbarazzante, se pensiamo a quanto il potere sia in genere attento a non apparire troppo invadente e sprezzante nei confronti delle classi popolari.
Un florilegio di affermazioni “economiche” che trasudano fastidio per la democrazia – anche quella “parlamentare borghese” -, per i bisogni della “gente”, per tutto ciò che complica il perseguimento del guadagno facile, veloce, sicuro, prevedibile.
Si comincia citando Joseph A. Sullivan, chairman e ceo di Legg Mason (colosso globale con 700 miliardi di dollari in gestione), costretto ad inserire anche la vittoria dei Cinque Stelle tra le variabili politiche dei suoi calcoli, insieme al rischio Brexit, le elezioni spagnole e l’incognita Donad Trump. Come se non bastassero i “normali” problemi di un sistema economico globale imballato: “gli 8mila miliardi di dollari di bond a rendimenti negativi, l’impellente rivoluzione tecnologico-finanziaria, i crescenti vincoli di una regolamentazione sempre più invasiva, i rischi di deflazione e di stagnazione dilaganti nel mondo”. Roba creata da loro stessi, ma che guardano come un problema caduto dal cielo. In ogni caso, roba da sballare anche la rete di computer che deve tener sotto controllo tutti i fattori di rischio…
Peggio ancora, tutti questi fattori si presentano contemporaneamente, il che rende una scommessa folle qualsiasi mossa fatta razionalmente. «La politica resta centrale perché può portare a cambiamenti molto dirompenti, e per questo i nostri clienti sono preoccupati, ansiosi. Brexit, le elezioni negli Usa e in Europa, il terrorismo, sta accadendo tutto insieme e questa instabilità politica si aggiunge all’enorme incertezza generata dalle banche centrali e le loro politiche monetarie a tassi negativi, interventi non convenzionali che non hanno precedenti, esperimenti di cui non si conoscono gli esiti, non certo una panacea per i mercati».
Lo spirito generale degli operatori è decisamente ostile ai “problemi della gente”, che interferiscono con il business. Un anonimo “trader in Bonos” (i titoli di stato di Madrid) spiega che «La Spagna ha fatto le riforme strutturali, ma potrebbe smantellarle con un nuovo governo più sensibile ai problemi della gente, il tasso di disoccupazione resta alto e i salari per chi lavora sono bassi». Un vero incubo, per lui e i suoi, pensare che possa arrivare un governo preoccupato di alzare i salari, diminuire la disoccupazione e magari anche ripristinare – o smettere di smantellare – alcuni servizi pubblici essenziali o un po’ di welfare…
Si capisce dunque perché un altrettanto anonimo “trader in Btp” (uno dei tanti tipi di titoli di stato italiani) ritiene che sarebbe «Una bomba se Matteo Renzi dovesse dimettersi» in seguito alla ora possibile sconfitta nel referendum costituzionale di ottobre. Lo sipuò capire, “lo hanno messo lì loro”, come confessava due anni fa Sergio Marchionne…
Vero è che l’incubo più grande, per dimensioni, restano gli Stati Uniti: «Se Donald Trump dovesse diventare presidente degli Stati Uniti e mantenere le sue promesse elettorali per una sfrenata liberalizzazione, il dollaro schizzerebbe all’insù del 20% e gli Usa entrerebbero in recessione».
Tutto comprensibile, tutto logico. Ma con una conseguenza davvero fastidiosa: la politica, ossia la sfera delle decisioni che dipendono da un feedback positivo con le popolazioni, è di fatto incompatibile con il business. O perlomeno lo è quella politica che, riflettendo la variabilità degli umori popolari, e quindi il grado di soddisfazione o meno rispetto alle condizioni vita della “gente”, potrebbe prendere decisioni non perfettamente allineate con idesiderata del capitale finanziario globale.
Con la democrazia, insomma. E in effetti la riforma contro-costituzionale di Renzi, a leggerla per come è scritta, si propone di eliminarne i “difetti” principali, azzerando la possibilità di prendere decisioni sgradite. Come fa già l’Unione Europea, tra un trattato e l’altro.
Giova qui ricordare come la Commissaria al commercio, Cecilia Malmstroem, protagonista delle trattative sul Ttip, qualifica il trattato stesso: “sarà perfettamente democratico anche se i Parlamenti nazionali non saranno chiamati a votare per approvarlo”.
Rileggete con calma: un trattato internazionale – che decide di come potranno e dovranno esser regolati i mercati tra Ue e Usa, di quali schifezze potranno essere prodotte, di quali diritti dovranno essere sacrificati, di quali interessi andranno posti come prioritari (quelli delle imprese davanti a quelli degli Stati!) – viene preventivamente definito perfettamente democratico anche se non potrà essere sottoposto all’esame critico né delle popolazioni che dovranno subirlo e neanche dei Parlamenti nazionali.
Il “segreto” di questa affermazione? Semplice: “avete firmato un trattato che affida alla Commissione Europea – il “governo” della Ue – tutta questa materia”. Tradotto: avete rinunciato per sempre alla possibilità di esprimere un parere.
Questo sì che trasmette “sicurezza” ai mercati finanziari, altro che “la politica”…
Fonte: Contropiano
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