di Guido Viale
L’assassinio di Jo Cox ci dà una rappresentazione plastica della radicalizzazione a cui sta andando incontro la lotta politica. Da un lato abbiamo un assassino razzista e neo-nazista, legato a una rete internazionale (altro che Britain first!) di primatisti bianchi. Dall’altro, ancor prima che una parlamentare laburista, una esponente, da sempre, del volontariato, impegnata nel sostegno alle politiche di accoglienza dei profughi e migranti e di apertura verso le comunità di immigrati. Respingere contro accogliere. Delle possibili conseguenze della «brexit», l’uscita del Regno unito dalla Unione europea, sono piene le pagine dei giornali e i notiziari televisivi: accentuerà la crisi economica? Provocherà un caos nel mondo finanziario? Ridurrà, e di quanto, i Pil? Penalizzerà, e in che misura, il mondo del lavoro, il precariato, i disoccupati? E dove?
Solo nel Regno unito, se lascia, o anche nei paesi dell’Unione, se abbandonati? Sono tutte questioni della massima importanza; ma il voto del 23 giugno sulla brexit – leave or remain – non si svolgerà prioritariamente né in misura decisiva su questi temi ma su quello che l’assassinio di Jo Cox ha messo in evidenza: respingere o accogliere?
Solo nel Regno unito, se lascia, o anche nei paesi dell’Unione, se abbandonati? Sono tutte questioni della massima importanza; ma il voto del 23 giugno sulla brexit – leave or remain – non si svolgerà prioritariamente né in misura decisiva su questi temi ma su quello che l’assassinio di Jo Cox ha messo in evidenza: respingere o accogliere?
D’altronde è il tema su cui si sta avvitando e radicalizzando la lotta politica non solo in tutta Europa ma in tutti i paesi di forte immigrazione, volontaria o forzata, a partire dagli Stati uniti.
È il tema su cui si è votato nelle recenti elezioni presidenziali in Austria, che hanno visto la polarizzazione dell’elettorato intorno a due schieramenti contrapposti, con la dissoluzione dei due partiti centristi che avevano governato il paese, insieme o alternandosi, negli ultimi settant’anni.
È il tema che sta mettendo in crisi le maggioranze di tutti i paesi dell’Unione, che vedono nell’esito del voto austriaco l’alternativa tra la loro scomparsa e il loro allineamento con le posizioni xenofobe più estreme, solo in parte mascherate da iniziative come l’accordo con Erdogan o la proposta delMigration compact che non hanno futuro, ma che contribuiscono non poco alla moltiplicazione delle sofferenze di milioni di profughi e all’imbarbarimento della convivenza nei propri paesi.
Quando già non si sono decisamente spostate verso il primo di quei poli – respingere – con tutte le conseguenze di ordine politico che questo comporta, come è successo in molti dei paesi membri dell’Europa orientale.
Se l’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione rischia di aprire la strada ai molti governi già tentati di farlo per conto loro – Danimarca, Olanda, Svezia e poi, chissà? – questo non è certo per le assurde politiche economiche adottate dall’Unione, di cui quei governi sono grandi sostenitori, ma perché ormai «uscire» è diventato l’equivalente di respingere.
Ma è un tema che non sta mettendo sottosopra solo il posizionamento e l’esistenza stessa di forze politiche consolidate; divide e mette in discussione anche le fedi religiose. E non solo l’islam, tra integralisti radicalizzati e i cosiddetti «moderati», che altro non sono che coloro che vorrebbero praticare in santa pace il loro credo.
Ma anche, e in misura crescente, i cristiani: tra chi, come papa Francesco, ha messo il tema dell’accoglienza al centro di una pratica autentica della propria fede e chi nelle «radici cristiane» dell’Europa o dell’Occidente rivendica le ragioni del respingimento dei seguaci di altre religioni, quando non di un razzismo ormai scoperto, di cui non ci si deve più vergognare. Come mette in crisi le culture, scoprendo tanti sedicenti liberali apertamente schierati contro la libera circolazione delle persone tanto quanto sono favorevoli alla libera circolazione di merci e capitali; e tanti eredi di quello che fu l’internazionalismo proletario (che in verità non ha evitato, e spesso nemmeno sconfessato, un secolo di colonialismo e due guerre mondiali) impegnati a ripetere che «così son troppi» e che «così non si può andare avanti».
Ma il fatto è che la contrapposizione tra respingere e accogliere attraversa e divide verticalmente anche le classi sociali lungo linee che in nulla corrispondono alla visione tradizionale che per lo più se ne continua ad avere: operai e capitale, proletari e borghesi, basso e alto, 99 e 1 per cento.
Vuol forse dire, questo, che la lotta di classe è finita e bisogna attestarsi su altri fronti? Certo no. Ma vuol dire che le lotte sociali, anche le più radicali, come quelle che stanno attraversando la Francia, se non sapranno misurarsi con questo problema rischiano di portare acqua anche loro al fronte di chi punta a rifondare stati e governi su basi autoritarie, antidemocratiche, nazionaliste e razziste.
Dunque la partita decisiva è questa; bisognerebbe attrezzarsi in gran fretta se non per vincerla, perché un esito del genere appare al momento fuori portata, per lo meno per non farsene sopraffare.
Tenendo conto soprattutto di due elementi:
primo, se respingere è così popolare perché è semplice dirlo e sembra facile farlo, in realtà tutte le soluzioni proposte sono impraticabili; ma ricade sui suoi fautori la responsabilità di decine e decine di migliaia morti, di violenze senza fine sui corpi e sulle vite di milioni di esseri umani, dell’istituzione di veri e propri campi di sterminio che avvicina di molto l’esito pratico di questa scelta all’ideologia che ha armato la mano dell’assassino di Jo Cox.
Secondo, accogliere non vuol dire solo aprire le porte a chi cerca la propria salvezza nei nostri paesi, offrire loro tetto e cibo, e poi costringerli per anni a un ozio forzato mantenuti dallo stato, per poi abbandonarli alla clandestinità: cioè quello che tanto fa arrabbiare, e giustamente, chi accanto a loro fatica giorno per giorno a sbarcare il lunario.
Accogliere vuol dire anche includere, inserire i nuovi arrivati in una rete di rapporti sociali che li metta in condizione di rendersi autonomi, di lavorare, di andare a scuola, di imparare, ma anche di trasmettere e divulgare la loro cultura; e di organizzarsi per contribuire a creare le condizioni di un ritorno – per chi lo desidera, e sono molti! – nel paese da cui sono dovuti fuggire.
Profughi e migranti possono essere una risorsa straordinaria sia per l’Europa che per i loro paesi di origine. Ma bisogna capirlo, saperlo spiegare, e poi cominciare a tradurlo in pratica: con dei progetti, anche minimi, che aprano la strada a una diversa visione del problema.
Fonte: il manifesto
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