di Nicola Melloni
Il referendum riguardo la permanenza della Gran Bretagna all’interno dell’Unione Europea si sta avvicinando. Il risultato, al contrario di ogni pronostico, sembra incertissimo (anche se il barbaro omicidio di Jo Cox potrebbe far prevalere il fronte Remain), atterrendo i mercati e mettendo in allarme le istituzioni europee. Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Pierfranco Pellizzetti ha scritto un pezzo largamente condivisibile sul tema. La UE in questi anni ha fatto di tutto per screditarsi al cospetto dei suoi cittadini e un bello schiaffo da parte dei cittadini britannici potrebbe, in fondo, avere un effetto positivo – un segnale che mercati e burocrazia non sono superiori alla volontà popolare. Un messaggio che risuona forte anche nelle parole scritte da Dani Rodrik, un simpatizzante dell’Unione Europea che sembra però comprendere bene le ragioni di una possibile Brexit – in particolare l’idea che la UE stia progressivamente rimpiazzando la sovranità popolare dei Parlamenti eletti con il potere di alcuni governi su altri e più in generale con l’autorità di istituzioni non elette.
Inoltre, per riprendere le argomentazioni di Pellizzetti, non vi sono dubbi che la Gran Bretagna abbia sempre avuto un atteggiamento ambiguo verso l’Europa: non solo non fa parte dell’Euro, non solo non fa parte di Shengen, non solo ha sempre lottato per sabotare il processo di integrazione; l’ultimo accordo tra il Governo Cameron e Bruxelles, ha sancito non più solamente di fatto ma anche de jure il ruolo speciale di Londra, con regole ad hoc, soprattutto per quel che riguarda la migrazione intra-UE, fatte solo per il Regno Unito che si ritroverebbe a godere di privilegi inaccettabili, ben oltre il rebate concesso alla Thatcher una trentina di anni fa.
Si tratta di problemi reali e di punti di vista più che condivisibili. Manca però, io credo, una valutazione dei rapporti di forza tra gli schieramenti politici in campo.
Il fronte del Brexit non si pone obiettivi progressisti e dietro un vago riferimento alla difesa della democrazia inglese suonano i tamburi della xenofobia e del jingoismo inglese. Insomma, un conto era una Grexit ispirata alla giustizia sociale e alla rottura della gabbia neo-liberista costruita dalla UE, un altro è una Brexit che si ispira all’odio e alla paura per gli stranieri – e alla difesa strenua dei privilegi della City di Londra.
In tutta Europa la bandiera dell’anti-europeismo è stata presa dalla destra reazionaria e un successo della Brexit non farebbe altro che dare fiato a movimenti razzisti quando non fascisti. La sinistra ha delle colpe storiche per questa situazione. Combattendo per riformare un sistema palesemente irriformabile si è condannata alla marginalità, come la triste parabola di Tsipras e Syriza insegna. Difficile però dar colpe a Corbyn: in Gran Bretagna non ci sono Euro e BCE, non ci sono vincoli di bilancio imposti da Bruxelles. L’austerity è stata la scelta di un governo votato dai cittadini e poi riconfermato al potere. Non c’è un problema di Europa anti-democratica, non c’è un problema di sacrifici imposti da un sistema di potere quasi coloniale. No, c’è solo una campagna contro gli stranieri che rubano il lavoro e frodano lo stato sociale britannico, ovviamente un falso clamoroso. Impostare su queste basi una Brexit progressista era impresa quasi impossibile. Una uscita della UE comporterebbe un ulteriore deriva a destra, con Nigel Farage Boris Johnson e il peggio del nazionalismo e dell’iperliberismo britannico saldamente al timone del paese.
Né ci possiamo aspettare contraccolpi positivi nella UE. Le istituzioni europee si sono già dimostrate assolutamente insensibili ai gridi democratici della Grecia. Difficile pensare possano davvero cambiare rotta dopo una uscita di Londra. Vero che una vittoria del fronte che vuole rimanere darebbe respiro a Bruxelles, dove si fa più che altro melina in attesa che passi la burrasca. Ma la Brexit non poterebbe giovamento: rafforzerebbe le destre di tutta Europa, riducendo ulteriormente lo spazio di manovra delle sinistre: da una parte l’oligarchia della UE, dall’altra il fascismo alle porte – con l’ovvia conseguenza di un fronte comune contro le destre in cui annullare qualsiasi anelito di cambiamento a sinistra.
Né, infine, se ne potrebbe giovare il futuro dell’Europa. Qualche anno fa, da europeisti, avremmo potuto gioire dell’uscita del Regno Unito, che sembrava il vero ostacolo al processo di integrazione politica. Non sono più queste le condizioni: non esistono le condizioni politiche per avanzare verso gli immaginifici Stati Uniti d’Europa, una opzione screditata dalla crisi di questi anni – e soprattutto dalla risposta data da Bruxelles. Inoltre, ed è un dato ancora più decisivo, è ormai chiaro che la Germania non ha nessun interesse a puntare su un’Europa federale in cui perderebbe il suo stato egemonico che le permette di farsi beffe delle regole comunitarie e allo stesso tempo punire e minacciare – credibilmente! – tutti coloro che non obbediscono ai diktat di Berlino.
Fonte: MicroMega online
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