di Nicolás E. Bianchi
Il bus si addentra poco a poco nel cuore della Avellaneda operaia, la città che ha saputo trasformarsi nel più grande polo industriale di tutta l'America Latina. Ora, invece, tutto risplende di abbandono. Grandi capannoni arrugginiti, fabbriche distrutte, insegne con marche che da anni nessuno più ricorda. Quasi uno scenario post-apocalittico. Siamo a sud di Buenos Aires, dove si erge una delle fabbriche recuperate più importanti dell'Argentina: la Cooperativa Cristal Avellaneda. Negli anni di neoliberismo è una storia comune a migliaia di lavoratori rimasti senza lavoro. È impossibile entrare nell'immensa area in cui si trova la fabbrica recuperata e non lasciarsi pervadere da un sentimento di speranza quando ci si rende conto che un'economia alternativa a quella capitalista è possibile e che l'organizzazione economica, sotto il controllo dei lavoratori, funziona. Qua non ci sono capi che danno ordini, le decisioni si assumono in assemblea. Nel seno di quest'alternativa è nata una nuova dignità operaia, la dignità di chi non è sfruttato e non sfrutta nessun altro essere umano.
Cristalux, come si chiamava la Cristal Avellaneda prima del fallimento, è arrivata ad avere negli anni Settanta quattro forni attivi e novecento dipendenti che lavoravano a ciclo continuo. Ma negli anni Novanta, con l'incremento del neoliberismo e della deregulation, i padroni della fabbrica di fronte all'incertezza della situazione hanno deciso di pianificare un fallimento che avrebbe lasciato centinaia di famiglie senza lavoro, ma che gli avrebbe garantito un tornaconto personale. In quel periodo questa scena si ripeteva in ogni angolo del paese: gli impresari s'indebitavano per somme impossibili da pagare e allo stesso tempo ridimensionavano le loro aziende e licenziavano il personale. Massimizzavano così i loro introiti: i padroni della Cristalux, attraverso una struttura distributiva propria, compravano tutta la produzione al prezzo di costo e poi la rivendevano a prezzi di mercato, ottenendo un favoloso guadagno in evidente frode nei confronti di lavoratori e creditori. In azienda non rimaneva nulla.
Gli anni passarono tra licenziamenti e riduzione di turni, fino a quando, una settimana di dicembre del 2001, nel bel mezzo della peggiore crisi economica della storia argentina, gli ultimi cinquanta operai furono licenziati e la fabbrica di vasellame chiuse i battenti. Gli operai erano devastati. Con un'Argentina devastata da dieci anni di profonde riforme neoliberiste, con ristrutturazioni feroci e più del 20% di disoccupazione nazionale, sapevano che il loro futuro era nero. Passarono i mesi e gli operai dovettero cercarsi un modo per sopravvivere. Alcuni sono diventaticartoneros, come viene chiamato in Argentina chi cerca cartone e metallo in giro per la città, un vero esercito anonimo che popolava le strade di quegli anni. Nei mesi successivi al fallimento, di notte, nella fabbrica, iniziarono dei movimenti strani. Entravano camion a portarsi via le cose di valore che trovavano. Un operaio che viveva vicino alla fabbrica allertò il resto dei compagni e decisero di occuparla per fare la guardia a quanto era rimasto. Speravano ancora che i padroni avessero fatto riavviare la fabbrica.
Una volta entrati, scoprirono che al momento della chiusura i forni erano stati spenti con il vetro, rendendoli quindi inutilizzabili. Senza sapere bene che fare, iniziarono a ripulire la fabbrica, spazzare i locali e trovare metalli vendibili come rottame per racimolare qualche soldo da portare a casa. I capi non c'erano più e iniziarono a decidere tutto per consenso. Furono giorni molto difficili. I compagni viaggiavano in treno senza biglietto e mangiavano gli avanzi che gli davano le botteghe e gli abitanti della zona. L'idea di tornare a produrre nacque in questo clima d'incertezza. E per farlo bisognava ricostruire ogni cosa: cavi d'alta tensione, macchinari, connessioni e motori. Gli operai lavoravano fino al tramonto per mettere insieme i cocci di ciò che restava di quello che una volta era stata un'importante fabbrica di vasellame. Smontarono artigianalmente i forni per ripulirli e poi, mattone dopo mattone e con pezzi di ognuno di questi forni, ne crearono un altro e tornarono a produrre, questa volta sotto controllo operaio.
Oggi, quasi quindici anni dopo e in seguito ad anni di lotta, la cooperativa Cristal Avellaneda vanta centoquaranta lavoratori-soci che coprono tre turni rotativi. I macchinari non si spengono mai. Non hanno adottato un sistema ugualitario di ripartizione delle entrate ma, contrariamente alla logica capitalista, guadagna di più chi rischia di perdere dita, mani o braccia nelle pericolose macchine di vetro. Gli impiegati della fabbrica, come Erika, guadagnano un po' meno.
Erika aveva diciotto anni quando vedeva suo padre uscire ogni mattina in bici per andare a lavorare gratis. Andava in bicicletta perché non aveva nemmeno gli spiccioli per il bus. Lei voleva capire, doveva vedere con i suoi occhi perché suo padre passava tutto il giorno in una fabbrica con i forni spenti e che non produceva nulla. Un giorno lo accompagnò e capì: “Per molti di loro era una seconda casa, volevano far qualcosa per non perdere l'azienda ma non sapevano ancora che era possibile“ dice Erika. In quel momento le cooperative delle aziende recuperate stavano muovendo i primi passi, sullo sfondo della più grande crisi della storia argentina. Quella della Cristal Avellaneda fu una delle battaglie che fecero parte di un'esperienza collettiva che ha tracciato, grazie ad errori e successi, una linea d'azione per le lotte future.
La dottrina dello shock, che ha ben descritto Naomi Klein, ha avuto in Argentina uno dei suoi migliori esperimenti sociali. Il primo sbarco del neoliberismo ebbe luogo negli anni del terrore delle Giunte Militari (1976-1983), che aprirono le porte agli organismi internazionali di credito; iniziò allora una deregulation selvaggia dell'industria, fedele al seguente motto: “L'Argentina non deve produrre nemmeno un bullone“. Per ottenerlo fu necessario far tacere a costo di lacrime e sangue il malcontento popolare e i sindacati in lotta. In seguito alla sconfitta militare della Guerra delle Malvine (1982), i militari furono costretti a restituire il potere alla società civile.
Dopo sette anni di governo avevano lasciato un paese dissanguato, sconfitto e sull'orlo del baratro. In questo debole contesto prese il potere Raúl Alfonsín (1983-1989) che, nonostante contasse sull'appoggio popolare, non riuscì a invertire la rotta della delicata situazione economica che aveva ereditato. Così, nel bel mezzo di un'iperinflazione, con saccheggi ai supermercati e proteste di massa, diede anticipatamente il potere a Carlos Menem (1989-1999) che per dieci anni ha governato l'Argentina con in mano il manuale delle operazioni dettato dal Fondo Monetario Internazionale. Venne stabilita la parità tra peso e dollaro (1 peso = 1 dollaro) e furono privatizzate centinaia di pubbliche imprese nelle aree più strategiche, come quella del petrolio, dei telefoni, dei treni, degli aerei, dell'elettricità e del gas. Fu privatizzato perfino il sistema pensionistico. Il debito estero si triplicò in pochi anni come conseguenza del forte indebitamento con gli organismi internazionali di credito. I mercati applaudivano queste misure e i media amplificavano questi applausi fino alla noia. Si diceva che l'Argentina era sulla strada dello sviluppo. Eppure, dieci anni dopo, non solo non si erano realizzati i pronostici, ma la povertà arrivava al 50%, la disoccupazione raggiungeva il 21,5% e 253.000 imprese erano fallite.
Con queste premesse, l'economia iniziò a deteriorarsi a ritmi vertiginosi. Un numero sempre maggiore di persone andava a incrementare l'esercito dei disoccupati e dei poveri. Molti si rassegnavano e non cercavano nemmeno più lavoro. Il tessuto sociale si frantumò. Paesi interi dovettero emigrare verso le grandi città perché, in seguito alla privatizzazione di Trenes Argentinos, la ferrovia non arrivava più nelle loro zone. Decine di linee furono soppresse perché “antieconomiche“. Ogni similitudine con la situazione attuale di Trenitalia e la soppressione di treni regionali non deve essere interpretata come una mera coincidenza ma come una parte necessaria del piano neoliberista.
La prima esperienza: Impa
Nel 2001 la situazione era sul punto di esplodere. In televisione gli analisti auspicavano un decollo dell'economia, ora che il nuovo governo sorto dall'opposizione aveva ridotto drasticamente i salari di docenti, medici, impiegati pubblici e pensionati. La ristrutturazione fu portata avanti come pianificato. I licenziamenti si moltiplicarono, mentre centinaia d'impresari abbandonavano le loro imprese ormai fallite dopo aver ritirato fino all'ultimo centesimo, lasciando enormi debiti con fornitori, banche e soprattutto con i loro dipendenti licenziati, che grazie alla nuova legge fallimentare avrebbero ricevuto le loro indennità solo quando le banche avessero recuperato i loro crediti con i debitori. In tale contesto, di fronte alla disperazione di rimanere senza lavoro, molti operai iniziarono ad accamparsi di fronte ai cancelli delle fabbriche dove avevano lavorato fino al giorno prima, sognando di entrare e di metterle in produzione sotto controllo operaio. Ma come?
Il faro di tutte queste nuove esperienze fu l'IMPA, una centenaria impresa di fusione di metalli che fu occupata nel 1998, un paio d'anni prima della crisi dell'economia argentina. Condivideva con gran parte delle imprese recuperate la stessa sequenza di passaggi: una commissione direttiva aveva goduto di prestiti non restituibili e pianificato il fallimento per poi sparire, truffando i propri dipendenti e portandosi via milioni di euro di guadagno. Nell'agosto del 1998 un giudice commerciale ne decretò il fallimento. Da mesi la fabbrica non aveva più elettricità per produrre.
I direttivi dell'impresa riunirono in assemblea i 120 operai che ancora lavoravano nell'IMPA e gli dissero di cercarsi un altro lavoro. Molti se ne andarono, ma una quarantina decise di rimanere a combattere. La commissione direttiva voleva fare in modo che gli operai si ritirassero volontariamente, quindi misero in atto un piano di logoramento mentale per costringerli a rinunciare. Li facevano aspettare ogni giorno ore per riscuotere una frazione del salario dovuto.
Marcelo Castillo, uno dei dirigenti di maggior peso dell'IMPA, ci riceve nell'enorme edificio che ancora ospita la fabbrica nel quartiere di Caballito, nel centro di Buenos Aires. “Il piano era vendere l'edificio a sviluppatori immobiliari e portare i macchinari in una nuova azienda, libera, senza debiti. E noi eravamo quaranta matti che decidemmo di affrontarli in assemblea“ dice Castillo. Quel giorno, insieme a un avvocato, fecero una relazione ai loro compagni illustrandogli tutti i debiti dell'azienda e come per anni gli avevano mentito. La commissione direttiva si ritirò in mezzo ai fischi e in fabbrica non li videro più.
All'inizio non fu facile. Come prima cosa dovettero formare un nuovo consiglio direttivo, formato solo da lavoratori. La situazione economica dell'IMPA era molto complicata: da vari anni gestiva una controversia con i creditori che vantavano somme milionarie. Decisero di fare una ricognizione delle passività della fabbrica e scoprirono creditori fantasma e debiti con imprese di proprietà dei membri della precedente commissione direttiva. Dopo questa ricognizione, riuscirono a ridurre il totale delle passività a 8 milioni di dollari. Un gruppo di lavoratori, tra cui Marcelo Castillo, propose di non riconoscere il totale delle passività e di iniziare da zero, senza debiti, formando una cooperativa di lavoratori, che non avevano responsabilità sull'indebitamento dell'impresa. L'assemblea operaia non accettò questa proposta e in maggioranza decisero di farsi carico di tutto. Così, mese dopo mese, pagarono religiosamente tutti i creditori, fino a quando, nel 2008, in mezzo alla crisi finanziaria mondiale prodotta dalle banche statunitensi, iniziarono ad avere difficoltà a rispettare i pagamenti. Avevano già pagato il 75% del totale quando ritardarono alcuni pagamenti e il giudice, approfittando di questa circostanza, decretò il fallimento.
Impararono nel peggiore dei modi una lezione che a partire da quel momento condividono con ogni operaio che gli si avvicina per imparare dalla loro esperienza: i lavoratori non devono farsi carico dei debiti dei padroni. Nonostante il fallimento decretato dal giudice, ancora oggi l'IMPA continua a funzionare ed è un esempio di resistenza. Il gigante di calcestruzzo ospita anche un centro culturale in cui vengono allestite mostre e dove hanno luogo letture pubbliche e spettacoli teatrali, c'è una scuola popolare in cui studiano centinaia di alunni, laboratori gratuiti, un centro di salute per gli abitanti del quartiere e in cui hanno già inaugurato il primo Museo di Fabbriche Recuperate del mondo. Da lì, con l'appoggio della comunità, la prima fabbrica recuperata del mondo resiste ai nuovi tentativi di sgombero. Il messaggio è chiaro: No pasarán.
Occupare: le donne della Brukman
Arrivò il dicembre del 2001. Il paese ardeva in un mare di miseria e le frustate delle politiche dettate dal FMI (Fondo Monetario Internazionale) facevano morire di fame sempre più persone ogni giorno. Il malcontento popolare accumulava anno dopo anno sofferenza, mentre gli speculatori finanziari si preparavano per far saltare in aria il paese: solo nel 2001 vennero messi in salvo all'estero 28.526 milioni di dollari. Il debito estero arrivava già a 180.000 milioni di dollari. Adesso i media vendevano terrore economico. Il governo decretò, come in Grecia, un limite al prelievo di denaro contante dalle banche. In quel momento, il 45% dei lavoratori era in nero, non era in regola e venivano pagati solo in contanti, ragion per cui, quando venne limitato il ritiro di denaro dalle banche, chi gli dava da lavorare si trovò impossibilitato a pagarli.
Questa fu la scintilla che fece ardere il paese in quelle calde giornate di dicembre. Nelle più grandi città migliaia di persone scesero a protestare. Ci fu una repressione feroce. La notte del 19 dicembre fu decretato lo stato d'assedio, si proibirono le riunioni di più di tre persone e furono sospese le garanzie costituzionali. Quella stessa notte centinaia di migliaia di persone sfidavano per le strade il governo e il suo stato d'assedio, senza altro imperativo che: “Che se ne vadano tutti (i politici), che non ne resti nemmeno uno“. Si sfidava ogni idea d'autorità. Ad appena qualche chilometro da Plaza de Mayo, dove i manifestanti erano caricati dalla polizia a cavallo, un gruppo di lavoratrici del tessile aveva occupato la loro fabbrica, stanche di promesse di pagamenti mai rispettate. Da mesi non gli venivano pagati i salari. Erano le donne della Brukman, impresa tessile di confezione di abiti, che ascoltavano in radio le notizie dello scoppio sociale.
Il 20 dicembre 2001 iniziò con repressione, arresti e morti e finì con le dimissioni di un governo impopolare, succube e prigioniero delle ricette neoliberiste nate dal Consenso di Washington. Quel giorno caddero sotto le pallottole assassine delle forze di repressione trentanove combattenti. Nonostante le dimissioni del presidente e dei suoi ministri, le proteste continuarono. E anche l'occupazione della Brukman. Rimasero solo gli operai: capisquadra, dirigenti, venditori e impiegati decisero di ritirarsi. I lavoratori si sentivano abbandonati alla loro stessa sorte e non sapevano come continuare la lotta. In quel contesto, alcuni dipendenti dei telefoni che stavano realizzando una connessione vicino alla Brukman videro in strada un cartello che diceva “Brukman, fabbrica okkupata“ e gli suggerirono che, per dare visibilità al conflitto, avrebbero dovuto bloccare la strada. I lavoratori, più abituati al loro lavoro che alla protesta, ebbero alcuni dubbi ma poi decisero di seguire il consiglio. La Brukman divenne in quei giorni un'esperienza che risvegliò l'interesse di tutti. Giornalisti e scrittori, tra cui la stessa Naomi Klein, si avvicinarono per conoscere la loro battaglia. Lo fecero anche i partiti della sinistra trotskista, che sostenevano che i lavoratori dovevano ottenere la nazionalizzazione della fabbrica, mentre i lavoratori dell'IMPA, sulla base della loro esperienza, gli suggerivano di formare una cooperativa di lavoratori indipendenti dallo stato, di disconoscere i debiti e combattere per l'espropriazione della fabbrica e dei macchinari in favore della stessa.
L'espropriazione delle fabbriche recuperate in favore di una cooperativa di ex dipendenti, grazie a una legge locale, iniziò a essere vista come la soluzione più pratica per la produzione sotto controllo operaio. Il governo dell'allora presidente Eduardo Duhalde (2002-2003), che non era nato dal voto popolare ma da una decisione dell'assemblea legislativa, facilitò le espropriazioni come una concessione in tempi in cui perfino lo stesso sistema democratico borghese era messo in dubbio. La proprietà di decine di fabbriche occupate fu data ai loro lavoratori. Secondo la sinistra questa soluzione non era accettabile perché i lavoratori, diventando proprietari, avrebbero riprodotto il sistema di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Dall'altra parte, chi difendeva le cooperative sosteneva che se non esistevano padroni e soci capitalisti non c'era sfruttamento.
All'interno della Brukman queste posizioni divennero antagoniste e il gruppo si divise in due: chi credeva che la via d'uscita fosse la nazionalizzazione sotto controllo operaio contro chi voleva una cooperativa operaia. I primi anni si seguì il piano di lotta di chi voleva la nazionalizzazione. Nel frattempo subirono due violenti sgomberi, con carri armati, gas lacrimogeni e manganelli. Mentre loro vivevano sulla loro pelle la violenza dello stato, decine di cooperative ottenevano l'espropriazione definitiva a loro favore con processi molto più pacifici. Vedendo questa situazione, tornarono sui loro passi e provarono la via della cooperativa. Ancora una volta la lotta fu lunga e dura. Alla fine si riuscirono a costituire come cooperativa e ottennero l'espropriazione definitiva a loro favore, in una delle ultime leggi di questo tipo promulgate in quegli anni. Oggi la Brukman è una cooperativa sotto controllo operaio che resiste e produce.
Resistere
La resistenza non è mai facile e gli operai sanno che dal momento in cui con la loro occupazione violano la “sacra proprietà privata“, devono essere pronti ad affrontare la feroce repressione dello stato, il braccio armato dei potenti. Questa lezione gli operai della Chilavert, una piccola tipografia di libri occupata nel periodo della crisi economica del 2001 da otto lavoratori, in seguito, ancora una volta, a un fallimento fraudolento, l'hanno imparata nel peggiore dei modi. Otto furono anche i carri armati della polizia che arrivarono il 24 maggio 2002 per sgomberarli con la forza. Quel giorno resistettero salendo in terrazza con alcuni bidoni di nafta e minacciando la polizia che se fossero entrati nella tipografia avrebbero dato fuoco a tutto: macchinari, uffici, l'intero edificio. La polizia capì il messaggio e fu costretta a ritirarsi. Lasciarono però otto poliziotti davanti cancelli, per impedirgli di lavorare.
Il padrone, un “signore“ chiamato Gaglione, si era dedicato per anni a indebitare l'azienda, approfittando del contesto di crisi. Prima iniziarono a ritardare i salari e a peggiorare le condizioni di lavoro dei dipendenti. Furono mesi molto difficili. Il piano era di massimizzare la redditività della tipografia per portarsi via i macchinari dopo il fallimento e ricominciare con una società senza debiti. Tutto era pronto: giudice, commissario straordinario e creditori. Lo svuotamento poteva solo finire in un modo: con le tasche dei borghesi piene e quelle dei lavoratori vuote. Così funziona la logica del profitto. I lavoratori avrebbero avuto, come sempre, l'impatto maggiore: avrebbero perso il loro lavoro, i salari in arretrato e le indennità dovute in caso di chiusura. “E il povero proprietario appare come uno che non ha niente d'intestato, un impresario fallito. Non gli si può confiscare nulla e non può nemmeno essere indagato. La sua idea era portarsi via i macchinari dall'inventario mettendosi d'accordo con il giudice e lasciando la fabbrica vuota“ racconta Cándido, che in quel momento lavorava da più di quarant'anni nella tipografia.
La tensione arrivò a un punto senza ritorno il giorno in cui Gaglione volle portarsi via i macchinari: gli operai si rifiutarono di collaborare con quell'operazione che li avrebbe solo danneggiati. Il padrone se ne dovette andare via a mani vuote. Facendo qualche indagine riuscirono a scoprire che i macchinari non erano stati inclusi dal giudice corrotto nell'inventario dei beni per i creditori. “Abbiamo sporto denuncia per tentativo di depauperamento, e il commissario straordinario disse: “Non può essere, io sono andato in tipografia e i macchinari non c'erano“. Questo ti dimostra che per svuotare un'azienda non deve esserci solo un giudice corrotto, ma anche commissario straordinario corrotto e un'intera associazione illecita“ ricorda Cándido.
Il 10 maggio 2002 fu decretato il fallimento. Senza sapere bene come andare avanti, si misero in contatto con i referenti dell'IMPA, che erano nel bel mezzo di un processo di presa di coscienza per aiutare alcune delle migliaia di lavoratori che dovevano affrontare situazioni di chiusura delle loro imprese a prendere in mano le redini delle loro storie e a mettere le loro fabbriche in produzione sotto controllo operaio. Non fu facile. Nelle nostre società prevale sempre la legalità sulla legittimità, il diritto alla proprietà sul diritto a lavorare. Il padrone che truffa i suoi lavoratori, il fisco e i suoi creditori sa che le sue azioni rimarranno impunite mentre i lavoratori che vogliono solo conservare il loro lavoro sanno che prima o poi si scontreranno con la violenza poliziesca.
In quei giorni di resistenza arrivò una richiesta che diede loro l'opportunità di produrre sotto controllo operaio. Un'assemblea popolare di quartiere, una sorta di soviet locali sorti con la crisi del 2001-2002 in cui si discuteva di politica e si cucinava in pentoloni popolari quanto si riusciva a racimolare, gli incaricò la stampa di un libro che raccontava l'esperienza di queste assemblee popolari. Per consegnare la merce e raggirare il poliziotto di guardia ai cancelli della tipografia dovettero ricorrere a un'idea geniale: fecero un buco nel muro con la complicità di un vicino che li aiutò a portar fuori i libri passando da casa sua e gli prestò la sua auto per fare la distribuzione.
Nell'agosto del 2002 arrivò l'espropriazione in favore della cooperativa. Poi, per ricompensare l'aiuto dei cittadini che nei momenti peggiori li avevano supportati con sostegno e cibo, decisero di dedicare parte della fabbrica alla creazione di un centro culturale e di una scuola per adulti. C'è anche una biblioteca di fabbriche recuperate in cui si tiene un registro, che dipende dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Buenos Aires, che documenta le esperienze dell'Argentina, dell'Uruguay e del Brasile. Anche se nel momento in cui viene scritto il presente testo sono costretti ad affrontare una severa crisi economica per il monumentale innalzamento dei costi della materia prima, pur rompendosi gli obsoleti macchinari continuano a resistere. Se hanno resistito alla violenza della patronale e ai carri armati della polizia, come potrebbero arrendersi ora?
Non è un fenomeno esclusivo
La resistenza, l'occupazione e la messa in produzione di una fabbrica sotto controllo operaio non sono un fenomeno esclusivo della crisi del 2001; ogni anno in Argentina nascono decine di nuove esperienze. Il 30 aprile 2015 uno dei lavoratori della Worldcolor, uno stabilimento che si occupa della stampa di opuscoli e di libri in tiratura industriale, ricevette una chiamata da casa mentre era in fabbrica. Sua figlia gli disse che era arrivato un telegramma di licenziamento a suo nome. L'uomo uscì di corsa a parlare con il delegato dell'associazione di categoria. Questi gli chiese di andare immediatamente a prendere il telegramma. La sua casa si trovava nel quartiere Del Viso, ad appena dodici chilometri dal parco industriale del Pilar, dove si trova invece la tipografia. Nel percorso dal lavoro a casa, le chiamate e i telegrammi di licenziamento si moltiplicarono. Nessuno poteva prevederlo: la multinazionale statunitense Quad Graphics aveva deciso di chiudere la fabbrica e di licenziare i suoi 280 lavoratori.
La resistenza, l'occupazione e la messa in produzione di una fabbrica sotto controllo operaio non sono un fenomeno esclusivo della crisi del 2001; ogni anno in Argentina nascono decine di nuove esperienze. Il 30 aprile 2015 uno dei lavoratori della Worldcolor, uno stabilimento che si occupa della stampa di opuscoli e di libri in tiratura industriale, ricevette una chiamata da casa mentre era in fabbrica. Sua figlia gli disse che era arrivato un telegramma di licenziamento a suo nome. L'uomo uscì di corsa a parlare con il delegato dell'associazione di categoria. Questi gli chiese di andare immediatamente a prendere il telegramma. La sua casa si trovava nel quartiere Del Viso, ad appena dodici chilometri dal parco industriale del Pilar, dove si trova invece la tipografia. Nel percorso dal lavoro a casa, le chiamate e i telegrammi di licenziamento si moltiplicarono. Nessuno poteva prevederlo: la multinazionale statunitense Quad Graphics aveva deciso di chiudere la fabbrica e di licenziare i suoi 280 lavoratori.
I lavoratori della Worldcolor decisero di difendere i loro posti di lavoro. Appoggiati e supportati da un gruppo di lavoratori, tra cui i compagni della Madygraf, l'altro gigante della grafica sotto controllo operaio, fecero una serie di blocchi stradali ad Avellaneda, Capital Federal e a Pilar per dare visibilità al loro conflitto. Ad Avellaneda, dove la patronale ha un'altra fabbrica, i lavoratori vennero pesantemente repressi.
I rappresentanti della Quad Graphics Inc, proprietaria della World Color y Morvillo, la fabbrica di Avellaneda, un'enorme multinazionale con filiali in più di venti paesi, sancì la chiusura definitiva della Worldcolor e il licenziamento di tutto il personale, adducendo a problemi finanziari inesistenti. Era un'altra crisi autoprodotta: negli ultimi mesi prima della chiusura, la multinazionale aveva dovuto concentrare tutti i lavori nella fabbrica di Avellaneda e chiudere la Worldcolor. Ai dipendenti, che sarebbero stati licenziati, offrirono il 50% dell'indennità che gli corrisponde per legge e in pagamenti dilazionati. Alcuni compagni – vista la loro delicata situazione – si videro obbligati ad accettare queste briciole. Altri, invece, decisero di lottare per i loro posti di lavoro e di formare una cooperativa per continuare il lavoro sotto controllo operaio.
Gli operai della Worldcolor si organizzarono e non persero tempo: in meno di due mesi presentarono i documenti per costituire una cooperativa e con passo deciso iniziarono a produrre le proprie prime prodotti liberi dallo sfruttamento. Questi sono i primi passi di un gruppo di operai decisi a recuperare la propria dignità. È un'esperienza che si somma alla storia del movimento delle fabbriche recuperate che ogni giorno continua a scrivere la storia di queste nuove lotte.
Non solo fabbriche
Nel 2014, secondo un'indagine compiuta dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Buenos Aires, in Argentina esistevano 311 aziende recuperate e gli impieghi recuperati arrivavano a un totale di 13.462. Anche se la maggior parte degli stabilimenti recuperati sono fabbriche e si tratta indubbiamente dei casi più visibili, esiste anche un crescente numero d'imprese recuperate nell'ambito dei servizi: ristoranti, un hotel, un centro di salute, scuole e fast food. La dinamica era la stessa delle fabbriche recuperate: debiti impagabili, uno svuotamento pianificato, un fallimento fraudolento, occupazione, resistenza e una nuova organizzazione sotto controllo operaio.
Los Chanchitos è una cooperativa gastronomica formata dagli ex-dipendenti del ristorante che ha – e aveva – questo nome quando i padroni, dopo aver ritirato gli incassi degli ultimi mesi e aver lasciato debiti milionari con dipendenti e fornitori, decisero di abbandonare i cinque ristoranti che gestivano: Alé Alé, Don Battaglia, Mangiata, La Soleada e Los Chanchitos.
I dipendenti non sapevano che fare ma erano decisi a non perdere il loro lavoro. Andarono a chiedere una consulenza presso l'Hotel Bauen, uno degli spazi recuperati più noti di Buenos Aires e una sorta di bunker delle recuperate in cui si presta consulenza e si realizzano eventi per dare visibilità ai conflitti. Uno dopo l'altro i ristoranti si trasformarono in cooperative strutturate per continuare l'attività commerciale e dimostrare che, nonostante la cattiva gestione dei precedenti proprietari, loro erano in grado di farli funzionare. All'inizio fu complicato e costò numerosi sacrifici. I lavoratori dovettero imparare ad amministrare il locale, allo stesso tempo rispettando i turni come cuochi, camerieri e addetti alla cassa. José Pereyra, presidente della cooperativa, ha vissuto per nove mesi nel ristorante per evitare che uno sgombero notturno gli togliesse la speranza di lavorare senza padrone.
Un altro caso interessante è quello dell'Istituto Comunicaciones, una scuola privata di Buenos Aires che dipendeva dal Club Comunicaciones, un club calcistico che nel 2003 dichiarò il fallimento. Quando nel dicembre del 2002 il precedente Istituto Comunicaciones chiuse le sue aule, aveva alle spalle una storia difficile da mantenere: era una scuola poco conosciuta nel quartiere, con pochi alunni, assumeva personale dirigenziale con stipendi altissimi, generando un deficit enorme, e i suoi continui conflitti con la comunità del Club Comunicaciones fecero sì che i genitori ritirassero i loro figli dalla scuola. Nel dicembre del 2002, vedendo l'istituzione in pericolo, i maestri convocarono gli alunni e i genitori in un'assemblea in cui esposero la situazione e proposero di continuare l'attività educativa in autogestione, evitando che il fallimento del club coinvolgesse anche la scuola. In assemblea si decise di andare avanti con il progetto della cooperativa. A partire da quel momento le decisioni importanti iniziarono a essere assunte in assemblea, che viene riunita mensilmente. Ci riceve nell'Istituto Comunicaciones Erika, la presidentessa della cooperativa, che ci accompagna a vedere i locali. Per il suo ruolo di preside non percepisce nessuna retribuzione economica. Nell'Istituto Comunicaciones hanno deciso di mantenere le tabelle salariali dei docenti e tutti vengono pagati solo per le ore di lezione frontale in classe.
Non nascondono l'orgoglio che provano per essere una cooperativa. I ragazzi dell'Istituto Comunicaciones sono stati portati all'Hotel Bauen per prendere coscienza dell'importanza delle cooperative delle aziende recuperate e perché sappiano che se un domani si trovassero in una situazione simile a quella che vivono i loro maestri e tanti altri lavoratori ci sarebbe la possibilità di far continuare l'azienda sotto controllo operaio. L'Istituto Comunicaciones è anche un luogo di resistenza: nonostante l'opposizione del responsabile del club che vuole vendere il locale dell‘Istituto per metterci un supermercato, la sua comunità educativa porta avanti il proprio sogno e oggi 174 alunni ricevono un'educazione in un ambiente cooperativo, diverso da ogni altra scuola, in cui le decisioni più importanti si prendono in assemblea da maestri, genitori e alunni.
Controllo operaio
Il controllo operaio è nelle mani degli stessi lavoratori, che devono conoscere i numeri dell'impresa e la vera situazione patrimoniale, per essere poi nelle condizioni di assumerne la direzione. “Il controllo operaio non è iniziato quando abbiamo okkupato la fabbrica e nemmeno quando ci siamo messi a produrre, bensì prima. È iniziato quando abbiamo preso familiarità con i numeri dell'azienda. Contavamo i camion che uscivano, la produzione dei diversi settori e vedevamo che anche se ci dicevano che l'azienda era in crisi, stavano fatturando delle fortune“ racconta un compagno della cooperativa operaia Zanon, che produce ceramica della Patagonia e ha più di 400 soci che ricevono lo stesso salario per il loro lavoro.
Sono i lavoratori che devono difendere sé stessi e lottare per recuperare le loro fonti di lavoro. Nemmeno in Argentina, il paese in cui il fenomeno delle fabbriche recuperate ha avuto origine e il suo maggiore sviluppo, lo stato appoggia queste lotte. Mentre concede sussidi milionari a multinazionali a cui vengono offerti vantaggi fiscali e sussidi nelle forniture di elettricità e gas, le cooperative di lavoratori vengono obbligate alla più dura competizione capitalista: provvisti, in generale, di macchinari antiquati e deteriorati per la mancanza di rinnovo e investimenti dei precedenti proprietari, devono competere nel mercato senza nessun tipo di aiuto statale. Per fare un esempio, nella Zanon, quando il proprietario dell'azienda era Luigi Zanon, un impresario d'origine italiana, l'azienda riceveva un sussidio dell'80% del valore del gas e contributi per il rinnovo dei macchinari. Ora che è una cooperativa recuperata non riceve sussidi di nessun tipo.
Anche se lo Stato cospira per far sì che le cooperative non siano praticabili, loro, in questa sfida impari, possono contare su un grande vantaggio: prescindono dal costo padronale.
Il costo padronale è il costo generato da una direzione, dai dirigenti, dai comitati di direzione e dai capisquadra che percepiscono salari astronomici e indebitano l'azienda oltre alle sue capacità finanziarie, rispetto ai lavoratori, che sono quelli che producono e che in cambio percepiscono salari bassi. Un chiaro esempio di un esorbitante costo padronale è quello della ex Ghelco, un'azienda che produceva gelati per la principale catena di gelati dell'Argentina. Lì, nel momento del fallimento, delle novantun persone che lavoravano in azienda ventinove ricoprivano incarichi dirigenziali. Il costo padronale rappresentava l'80% del totale dei salari. Ossia, da un lato abbiamo la padronale e i suoi dirigenti complici che fanno innalzare i costi con salari alti, spese, indebitamento constante e buonuscite straordinarie, mentre dall'altra abbiamo i lavoratori che non solo sono quelli che producono ma sono anche quelli che devono combattere con ostacoli per percepire i loro stipendi quando la fonte di lavoro è in pericolo. Quando l'azienda non può più reggere e i creditori fanno pressione per il fallimento, il nostro sistema economico-legale vuole che i lavoratori tornino a casa e che paghino questa crisi artificiale con i loro posti di lavoro. Ancora peggio: viene garantita l'impunità dei potenti. Per tutte queste truffe, in Argentina non c'è un solo impresario in galera.
Verso un futuro recuperato
In queste pagine abbiamo cercato di illustrare alcune delle principali questioni fondamentali che deve affrontare chi decide di recuperare un'azienda dopo la gestione fallita della patronale e metterla in produzione sotto controllo operaio. Pur trattandosi di un fenomeno relativamente recente, con una quindicina d'anni di vita, la maggior parte delle esperienze viste in questi anni ci permette di intravvedere una linea d'azione che permette a chi sta cercando di fare lo stesso passo di farlo nel modo meno traumatico possibile. Dai successi e dagli sbagli dei compagni operai, e anche dal loro dolore, sono nate delle utili lezioni che fanno luce sui tortuosi sentieri che devono percorrere per ottenerlo.
Per far sì che a lungo termine le recuperate si pongano come un'alternativa alla produzione capitalista, i consumatori coscienti devono accompagnare questi progetti con le loro scelte di consumo. Ognuno di noi, come consumatore, ha il potere di sostenere le cooperative di lavoratori e non disperdere questo denaro nelle grandi multinazionali. Ogni decisione di acquisto può essere, allo stesso tempo, una scelta etica. Anche le stesse cooperative devono articolare tra di loro la catena di produzione, fomentando l'acquisto di risorse dalle altre cooperative, per creare così un vero circuito economico alternativo. In questo momento, mentre l'Argentina vive un amaro ritorno alle politiche neoliberali che hanno creato danni irreversibili alla struttura produttiva nazionale, dobbiamo essere pronti a una nuova crisi economica e a nuovi tentativi padronali di chiusura pianificata delle fabbriche. Nonostante ciò, mettiamo in allerta chi in futuro vorrà attuare manovre di svuotamento che questa volta non sarà un compito facile.
Oggi c'è un forte consenso nel movimento dei lavoratori: fabbrica che si chiude, fabbrica che si okkupa e che si mette a produrre sotto controllo operaio. Lì, nella produzione senza padrone e senza stato, sta la vera dignità operaia.
Nota dell'Autore
Desidero ringraziare Valeria Soledad per le fotografie, l'editing, le interminabili chiacchierate e l'incoraggiamento dato nei mesi dedicati alla stesura del presente articolo.
Questo testo è stato preparato appositamente per “A“ ed è un saggio che cerca di riassumere i principali ostacoli e le sfide che alcuni gruppi di lavoratori si sono trovati a dover fronteggiare nel momento in cui hanno deciso di occupare, resistere e produrre all'interno delle loro fabriche. Come titolo originario ho scelto “Dignidad obrera“ perché penso che quando un gruppo di lavoratori ridà vita a un luogo di lavoro dove i capitalisti hanno fallito, abbandonandolo o condannandolo a una voluta bancarotta, il solo fatto di ripartire con la produzione in forma cooperariva, in eguaglianza e senza lo sfruttamento di altri esseri umani, dà un nuovo senso alla paroladignità.
È stato un lavoro lungo, con una gran quantità di lavoro sul campo e interviste, al termine del quale ho voluto tirare alcune conclusioni riguardo al know-how sviluppato dal movimento operaio argentino sulla base dell'esperienza di oltre 300 società occupate dai lavoratori a partire dal 1998. L'articolo è stato scritto con la speranza che queste esperienze si diffondano anche nel continente europeo e che le fabbriche recuperate sotto il controllo operaio si moltiplichino in tutto il mondo.
Traduzione dal castigliano di Arianna e Stefania Fiore
Fonte: A Rivista
Originale: http://www.arivista.org/?nr=408&pag=35.htm
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