di Edoardo Greblo
Un recentissima pronuncia della Corte di giustizia Ue – in risposta al caso di una cittadina ghanese sottoposta a fermo in Francia – ha stabilito che un cittadino extracomunitario non possa essere recluso, prima di essere sottoposto alla procedura di rimpatrio, a causa del suo ingresso irregolare nel territorio di uno Stato membro attraverso una frontiera interna dello spazio Schengen. Solo quando l’allontanamento rischia di essere vanificato, l’“irregolare” può essere trattenuto, per un periodo che non può comunque superare i diciotto mesi. La Corte precisa che “gli Stati membri non possono consentire la reclusione dei cittadini di Paesi non Ue, nei confronti dei quali la procedura di rimpatrio non sia stata ancora conclusa, in quanto tale reclusione è idonea a ostacolare l’applicazione della procedura stessa e a ritardare il rimpatrio, pregiudicando quindi l’effetto utile della direttiva”.
Si tratta di una decisione di estrema importanza, perché pone una pesante ipoteca sulla legalità, oltre che ovviamente sulla legittimità, dei campi di trattenimento e detenzione.
Si tratta di una decisione di estrema importanza, perché pone una pesante ipoteca sulla legalità, oltre che ovviamente sulla legittimità, dei campi di trattenimento e detenzione.
Ora, com’è noto, il lavoro filosofico di Giorgio Agamben, in alcuni testi che hanno fatto scuola e che si sono rivelati estremamente influenti, ha elevato il campo per i migranti “illegali” allo statuto di paradigma biopolitico della modernità. Il campo, per Agamben, è uno spazio aperto da tutta una serie di regimi e dispositivi, che spogliano i soggetti confinati dei propri diritti, li privano di qualsiasi status politico e li riducono alla condizione di “nuda vita”. È una porzione di territorio collocata al di fuori dello spazio giuridico ordinario e che mantiene la struttura aporetica dello stato di eccezione poiché rappresenta una sospensione ‘provvisoria’ dell’ordinamento giuridico, che però si prolunga nella situazione normale. Nel campo, il rifugiato è condannato a vivere in una sorta di limbo, dove l’assoluta impossibilità di decidere tra norma ed eccezione sancisce la non-appartenenza dei soggetti confinati a una qualche comunità politica.
Come dimostra la pronuncia della Corte di giustizia Ue, è tuttavia possibile leggere quanto accade ai rifugiati anche da un’altra prospettiva. È vero che da quando, nei primi anni Settanta, la figura del migrante “illegale” è diventata un fenomeno globale, le pratiche materiali e burocratiche di detenzione amministrativa si sono moltiplicate quasi ovunque e hanno contribuito alla diffusione degli spazi di blocco e di detenzione. Ma innalzare una istituzione sociale di confinamento allo statuto di paradigma biopolitico della modernità rischia di trasformare un complesso materiale e diversificato di disposizioni, procedure e spazi in una realtà statica e sempre eguale a se stessa. La prospettiva trans-storica nella quale Agamben e i refugee studies collocano il campo rischia di distogliere lo sguardo dalla pluralità di forme che si raccolgono sotto l’etichetta di campo. In particolare, tende a suggerire una immagine della sovranità che finisce, paradossalmente, per sottrarla alla contingenza e alla politica. L’esercizio del potere che imprigiona gli abitanti dei campi in un ordine giuridico dal quale devono essere esclusi non è, infatti, uniforme e indifferenziato, ma si esercita attraverso tutta una serie di decisioni multiple, parziali e non sempre coerenti le une con le altre. Ma, soprattutto, il campo non è necessariamente uno spazio sottratto a ogni garanzia giuridica.
In particolare, è difficile che la visione del campo quale luogo dell’eccezione sovrana possa dare pienamente conto sia degli sforzi concertati di dare vita ai sistemi articolati e differenziati di inclusione e gestione dei rifugiati sia delle azioni di insubordinazione attuate dai soggetti confinati – da quelle più eclatanti, come cucirsi le labbra, a quelle più prevedibili, come gli scioperi della fame. Dal momento che l’approccio di Agamben presuppone o la completa spoliazione dei rifugiati, in quanto eccezione, oppure l’esistenza di una pienezza giuridica, in quanto regola, esso rischia di riproporre la rappresentazione convenzionale del rifugiato-vittima, schiacciato su quello scenario di trauma e di perdita che lo condanna a vivere in una condizione di inazione e passività così profonda da impedirgli ogni forma di soggettività politica.
Come dimostra la sentenza sopra richiamata, sarebbe opportuno fare riferimento a un concetto di sovranità meno monolitico, meno apocalittico e indifferenziato di quello proposto da Agamben. Anzi, proprio perché il campo non è, nella sua concreta realtà, una istituzione così rigida, così pre-destinata a fissarsi in una forma definitiva e, soprattutto, così sottoposta all’arbitrio extragiuridico, esso non è sempre in grado di sottrarre ai suoi abitanti ogni capacità di organizzarsi e ribellarsi.
Come dimostrano diverse ricerca etnografiche, i campi per gli sfollati, i profughi e i rifugiati somigliano ben poco all’immagine di luoghi di stoccaggio in cui si ammassano individui che soffrono passivamente – per quanto sia l’immagine che tuttavia continua massicciamente a circolare. In realtà, le persone costrette a vivere negli spazi confinati dei campi non si limitano ad attendere passivamente aiuto e assistenza, ma si appropriano attivamente del mondo che li circonda, nel tentativo di soddisfare i loro bisogni e di ricostruirsi una vita coerente e significativa anche in circostanze estremamente precarie e difficili.
Il punto è che gli esseri umani confinati nei campi non si limitano a cercare, semplicemente, di sopravvivere biologicamente. Essi cercano attivamente di ri-creare una situazione “normale”, e cioè di raggiungere una qualche forma di controllo sulla realtà confinata che li imprigiona e di dare vita a delle pratiche suscettibili di investirli di ruoli attivi e passibili di sviluppi persino in queste condizioni. Ricostituire una situazione “normale” non significa che la vita nei campi possa riprodurre le condizioni precedenti al conflitto o alla catastrofe. La “normalità”, in queste circostanze, non significa che le condizioni materiali o il potere sociale delle persone chiuse negli spazi di confinamento possano avvicinarsi a quelle delle persone che vivono una vita realmente “normale”. Significa che sebbene compromessa, improvvisata, sgradevole o disagiata, la vita quotidiana può assumere alcuni tratti di ragionevole stabilità e prevedibilità, che gli individui e le situazioni che si incontrano nel corso della vita quotidiana presentano alcuni aspetti di familiarità e non sono sprovvisti di senso, e che le persone possono persino disporre di una cornice materiale e sociale nella quale mettere a punto strategie e piani per il futuro. Di fronte al sovrapporsi delle varie e talvolta contrastanti forme di sovranità (provenienti, per esempio, dallo Stato nazionale, dalle organizzazioni umanitarie internazionali o da una forza militare esterna) che si esercitano sulla loro vita, gli abitanti dei campi non si limitano a essere i terminali passivi di una sovranità esterna che li disciplina capillarmente e sistematicamente, come il paradigma della nuda vita sembrerebbe suggerire, ma conservano, invece, una capacità, certo limitata e condizionata, di agire. Nonostante gli enormi vincoli imposti dalla situazione che devono fronteggiare, essi riescono talvolta a riassemblare in modo creativo una parvenza di esistenza regolare.
Il potere sovrano che si applica ai campi presenta perciò, a fronte di situazioni mobili e che si modificano di continuo, il volto di un potere eterogeneo e contingente, aleatorio e compromissorio, che agisce su scale diverse e in nome di differenti mappature politiche. Ciò significa che in questi contesti, nei quali gli innumerevoli modi in cui i differenti processi si congiungono e si disconnettono, operano insieme e separatamente, l’immagine monolitica della sovranità proposta da Agamben non riesce a dare compiutamente conto delle tecniche di sovranità utilizzate per istituire e amministrare i campi. E per questo è sempre opportuno distinguere le pretese del potere sovrano dalle tecniche e dalle procedure che cercano di implementare queste stesse pretese. Analisi come quelle di Agamben lasciano poco spazio per comprendere l’asimmetria, quando non la vera e propria contrapposizione, tra la nuda vita quale prestazione originaria del potere sovrano e la vita reale dei soggetti confinati. Ma proprio questa differenza è cruciale per l’esistenza quotidiana del soggetto confinato, perché è l’emergere in primo piano della distanza che separa la policy dalla pratica e che interrompe il sogno di una governance liscia e senza attriti dei campi a rendere possibile il delinearsi di quegli “atti di cittadinanza” che cominciano a delinearsi quando le pratiche di soggettivazione riplasmano, contestano e ridefiniscono i dispositivi di assoggettamento. E sono queste stesse pratiche a rendere il soggetto confinato espressione di quella “cittadinanza insorgente” suscettibile di metterlo in condizioni di agire come un cittadino indipendentemente dal suo statuto giuridico.
Fonte: Scenari Mimesis
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