di Elena Granaglia
La bocciatura del reddito di cittadinanza sancita dal referendum svizzero dello scorso mese è stata da molti accolta come inevitabile e salutare. Ciò non dovrebbe stupire. L’idea che ciascuno possa avere un reddito incondizionato, a prescindere dalle risorse detenute e dalla disponibilità a lavorare, come richiesto dal reddito di cittadinanza, incontra molte resistenze. Alcune di esse, ossia, il costo finanziario, la disincentivazione del lavoro e il rischio di abolizione dello stato sociale, sono esaminate nella scheda di Del Buono e Gianni su questo numero del Menabò. Altre concernono la vera e propria ingiustizia di dare a tutti, compresi i ricchi, di “fare parti uguali fra i disuguali”.
Il reddito di cittadinanza, poi, sarebbe un trasferimento ex post che trascura le cause della povertà, in primis, la questione del mancato accesso al mercato del lavoro. Ancora, come ricorda Navarro, in un articolo pubblicato all’indomani del referendum svizzero, il reddito di cittadinanza sarebbe impotente rispetto a quella che rimane la disuguaglianza centrale nel sistema capitalistico, la disuguaglianza fra lavoro e capitale. Non solo. Rifletterebbe un feticismo del reddito, come se “i soldi fossero la soluzione a tutti i problemi sociali”, nella sottovalutazione dei rischi di apatia e di atrofizzazione delle abilità umane e, con essi, della pluralità di capacità che rendono ricca la vita dei singoli. Infine, le lamentele sulla scomparsa del lavoro a seguito della dominanza progressiva delle macchine, oggi così presenti nelle difese del reddito di cittadinanza, ci accompagnano da secoli, ma dimenticano un dato cruciale, ossia, che il livello di occupazione è determinato dalle scelte politiche, non dalla tecnologia (a favore di questa posizione, si veda anche questoarticolo di Wilson.
Il reddito di cittadinanza, poi, sarebbe un trasferimento ex post che trascura le cause della povertà, in primis, la questione del mancato accesso al mercato del lavoro. Ancora, come ricorda Navarro, in un articolo pubblicato all’indomani del referendum svizzero, il reddito di cittadinanza sarebbe impotente rispetto a quella che rimane la disuguaglianza centrale nel sistema capitalistico, la disuguaglianza fra lavoro e capitale. Non solo. Rifletterebbe un feticismo del reddito, come se “i soldi fossero la soluzione a tutti i problemi sociali”, nella sottovalutazione dei rischi di apatia e di atrofizzazione delle abilità umane e, con essi, della pluralità di capacità che rendono ricca la vita dei singoli. Infine, le lamentele sulla scomparsa del lavoro a seguito della dominanza progressiva delle macchine, oggi così presenti nelle difese del reddito di cittadinanza, ci accompagnano da secoli, ma dimenticano un dato cruciale, ossia, che il livello di occupazione è determinato dalle scelte politiche, non dalla tecnologia (a favore di questa posizione, si veda anche questoarticolo di Wilson.
Il reddito di cittadinanza ha, certamente, diversi limiti. A parità d’importo unitario, dare a tutti è più costoso che non dare ad alcuni. Il reddito di cittadinanza – lo si vede anche nella proposta svizzera – prevede poi somme tendenzialmente uguali per tutti, nella sottovalutazione dell’eterogeneità dei bisogni. Ancora, è evidente che esso rappresenta un trasferimento monetario: come tale prescinde dalla fornitura di servizi, da politiche per l’occupazione nonché dalla questione della regolazione dei rapporti fra lavoro e capitale. Infine, anche ipotizzando con Paine e George che tutti abbiamo diritto alla nostra porzione di risorse naturali, il valore di queste ultime dipende anche dalla produttività degli individui che le utilizzano. Se così, chi fa nulla non contribuisce alla produzione di valore e, non contribuendo, non dovrebbe beneficiare di alcun trasferimento, pena il rischio di parassitismo.
I limiti del reddito di cittadinanza non vanno, però, sopravalutati. Rispetto al costo, occorre, innanzitutto, evitare i doppi conteggi. Il reddito di cittadinanza è in larga misura sostitutivo dei trasferimenti monetari oggi esistenti. Ad esempio, chi oggi ha una pensione sociale non riceverebbe un reddito di cittadinanza in aggiunta alla pensione. Al contrario, quest’ultima (o parte di essa) confluirebbe nel reddito di cittadinanza. Inoltre, il costo del finanziamento deve essere considerato al netto del reddito che tutti riceverebbero, inclusi i più ricchi. Per i più ricchi, in altri termini, il reddito di cittadinanza è, in parte, una partita di giro (come spiegato anche in Gianni cit).
Rispetto, poi, alla supposta iniquità di dare a tutti, compresi i ricchi, il reddito di cittadinanza richiede a chi ha un reddito superiore al reddito medio di pagare di più di quanto riceva, mentre chi ha un reddito inferiore riceve più di quanto paghi. Il che implica un impatto distributivo favorevole ai più poveri. Inoltre, occorre ricordare i rischi del cosiddetto paradosso di Korpi e Palme (“The paradox of redistribution and strategies of equality”, American Sociological Review, 1998): le risorse disponibili per la redistribuzione e, dunque, anche per i più poveri, potrebbero essere maggiori laddove i trasferimenti sono universali. Centrale è la questione della sostenibilità politica: il sostegno ai trasferimenti s’irrobustisce quando se ne avvantaggiano tutti anziché solo un gruppo privo di forte voce politica, come sono i poveri.
Il reddito di cittadinanza potrebbe poi accompagnarsi sia a trasferimenti integrativi (di reddito e di servizi), differenziati sulla base dei bisogni, sia a politiche finalizzate a espandere le opportunità di occupazioni decenti. Appare, infatti, del tutto plausibile affermare l’importanza sia di un reddito incondizionato sia dell’opportunità di lavorare. Ben meno convincente, invece, è invocare solo il lavoro che, nonostante gli sforzi, potrebbe non arrivare a tutti o, anche se arriva, contemplare una retribuzione che lascia in condizioni di povertà. Semplicemente, il reddito di cittadinanza rompe il legame fra diritto al reddito e dovere di lavorare.
Considerazioni simili, nel senso della possibilità d’integrazioni fra politiche, si applicano al rapporto fra reddito di cittadinanza e più complessive politiche di regolazione dei mercati e delle imprese. Vale a dire, difendere il reddito di cittadinanza non impedisce di occuparsi anche della regolazione dei mercati e delle imprese.
Infine, rispetto al parassitismo, quante sono, nei fatti, le persone che preferiscono oziare piuttosto che lavorare? Se tale preferenza fosse preminente, non dovremmo vedere attorno a noi tante persone abbienti che lavorano. Magari, chi non lavora segue tale comportamento solo perché può accedere a offerte di lavoro che sarebbero inaccettabili per chi sta meglio. In termini più generali, il non lavoro spesso dipende da trappole di opportunità piuttosto che da dipendenza dai trasferimenti. Ancora, avere un reddito potrebbe di per sé stimolare la cooperazione.
Peraltro, anche se condividessimo il rischio di parassitismo, resta aperta l’opzione del cosiddetto reddito di partecipazione, da tempo difeso da Atkinson (la difesa più recente è in Atkinson, Disuguaglianza. Che fare?), ossia di un reddito che resta indirizzato a tutti (come il reddito di cittadinanza), ma è vincolato alla condizione di contribuire alla società, sia lavorando nel mercato sia svolgendo lavoro non retribuito di cura sia ancora essendo impegnato in più complessive attività non a scopo di lucro. Per evidenti ragioni equitative, il reddito andrebbe esteso a tutti coloro che non potessero partecipare.
Accanto ai limiti, il reddito di cittadinanza ha poi una serie di luci che non va oscurata. Innanzitutto, riflette una potente idea d’inclusione sociale. La società garantisce a tutti una base di reddito e poi ciascuno, a partire da quella base, deciderà cosa fare. Verrebbe così annullata qualsiasi contrapposizione fra “noi”, i buoni che si danno da fare e guadagnano, e “loro” che richiedono di essere protetti e neppure saremmo esposti ai rischi di guerre fra svantaggiati invece endemici alle politiche (selettive) contro la povertà. La ragione, a quest’ultimo riguardo, è che nessuna soglia di povertà sarà mai in grado di distinguere in modo “scientifico” i poveri dai non poveri. Ad esempio, come comparare una famiglia con tre figli minori che vive in un’area interna del Mezzogiorno con una famiglia composta da un’unica persona disabile che abita sempre nel Mezzogiorno, ma in una grande città? Come comparare una madre capofamiglia che abita in un paesino del sud con una madre capofamiglia che abita in una metropoli del Nord? Nessuna scala di equivalenza sarà mai in grado di darci una risposta incontrovertibile e, dunque, il rischio di esclusione è endemico e, con esso, il contrasto fra esclusi e inclusi.
Aggiungo i vantaggi anche ai fini dell’inclusione di giovani e donne. Il reddito di cittadinanza, infatti, è a base individuale. Al contrario, i trasferimenti selettivi tendono a considerare la famiglia come unità di riferimento (se non si utilizzasse tale unità, si porrebbe il rischio di trasferire reddito a soggetti privi di risorse personali, ma appartenenti a famiglie ricche). Il che comporta il rischio di iniquità infra-familiari.
In secondo luogo, il reddito di cittadinanza presenta alcune atout anche nel contrasto alla povertà. Non richiedendo alcuna prova dei mezzi, evita che le persone rimangono senza reddito nelle more degli accertamenti delle condizioni economiche o che neppure accedano ai trasferimenti, per stigma e /o carenza di informazione. Ricordo come in molti paesi Ocse, i falsi negativi (appunto, chi non accedere ai trasferimenti selettivi pur essendo povero) sarebbero vicino a metà della popolazione povera (Bargain et al.2009, No claim no pain. WP 200931 University College, Dublin). Anche a prescindere dai rischi di disoccupazione strutturale, il contributo appare particolarmente attraente già oggi, in un contesto di mercato del lavoro sempre più flessibile, dove le transizioni lavorative, e dunque, i periodi senza retribuzioni, diventano più frequenti. L’assenza di qualsiasi condizionalità evita, altresì, i rischi di arbitrarietà, da parte degli operatori pubblici responsabili, che potrebbero essere connessi alla gestione della condizionalità stessa.
Infine, seppure non rappresenti la risposta complessiva alla questione della regolazione dei rapporti fra capitale e lavoro), il reddito di cittadinanza costituisce un tassello di tale strategia. Il reddito di cittadinanza può, infatti, essere concepito come l’appropriazione, da parte dei singoli, della quota di surplus che, lungi dall’essere attribuibile allo sforzo individuale, dipende dalle infrastrutture tecnologiche e dai tanti elementi di casualità presenti nel gioco di mercato (sul tema, cfr. Franzini, Granaglia, Raitano, 2014, Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?), Per questa ragione, esso si pone anche come innovativa politica (pre)distributiva e non solo redistributiva. Chi difende solo le politiche del lavoro, dimenticherebbe anche questo punto.
Alla fine, alcuni potrebbero comunque ritenere le luci del reddito di cittadinanza inferiori ai limiti della misura e dunque continuare a prediligere schemi di sostegno al reddito indirizzati ai soli poveri. Anche se così fosse, avere a mente le luci è lungi dall’essere inutile.
La consapevolezza delle luci aiuta a mettere a fuoco i possibili limiti degli schemi alternativi (sul tema, rimando a un mio precedente articolo sul Menabò). Un’implicazione, sebbene sul tema dovremo più approfonditamente ritornare in uno dei prossimi numeri del Menabò, è l’insufficienza di politiche quali l’assicurazione europea contro la disoccupazione recentemente arrivata alla ribalta dell’attenzione della Commissione Europea (cfr. la scheda di Monticelli su questo numero del Menabò). Tale assicurazione non solo lascerebbe senza tutele molti soggetti che non riescono a accedere al mercato del lavoro o che, anche accedendovi, non riescono a guadagnare un reddito decente. Sarebbe anche del tutto muta rispetto alla questione della distribuzione del surplus prodotto dalla cooperazione sociale, così di fatto accettando le distribuzioni correnti di mercato.
Fonte: eticaeconomia.it
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