di Marco Aime
Strano Paese quello in cui un senatore della Repubblica può affermare che con la bandiera si possono fare pulizie intime, in cui un ministro può dare del “rompicoglioni” a un giurista che chiedeva la scorta e per non averla avuta è stato assassinato, senza che nulla accada. Se invece una studentessa si azzarda a scrivere una tesi su un movimento, quello No-Tav, che fino a prova contraria non è ancora stato dichiarato fuorilegge, viene condannata perché nel suo lavoro ha usato il pronome “noi”, offrendo così «un concorso morale alle azioni di disturbo del movimento». Un “noi” che Roberta Chiroli, oggi ex studentessa dell’Università Ca’ Foscari, ha usato non solo come dichiarazione di adesione al movimento, ma anche per il fatto che una ricerca antropologica coinvolge necessariamente in qualche modo chi la svolge.
Non conosco Roberta, né ho letto il suo lavoro, ma qualcosina sulla ricerca in qualche decennio l’ho imparata. Per studiare una comunità, non importa dove, è necessario trascorrere lunghi periodi a contatto, condividerne la quotidianità, contrarre relazioni e anche amicizie. Solo così si guadagna la fiducia della gente che porta a farvi entrare nella loro sfera culturale e a comprenderla. La cosiddetta “osservazione partecipante” si fonda sulla presenza in loco, sullo scambio (non è proprio una novità, la teorizzò Malinowski negli anni Venti del ‘900), perché gli oggetti di studio dell’antropologo non sono enzimi, molecole, insetti o protoni, ma esseri umani come lui. Ovvio poi che se si viene coinvolti in qualche evento, che può essere una cerimonia rituale o una manifestazione di protesta, nel narrarlo si usi il “noi”. Da anni frequento la valle di Susa, conducendo una ricerca, ho moltissimi amici nel Movimento e ne condivido le motivazioni, seppure con spirito critico. Alcuni legami di amicizia stretti nel tempo mi inducono a parlare in termini di persone e non di movimento, termine che nelle democrazie contemporanee suggerisce immediatamente pericolosità (vedi 5 Stelle). E le persone, insieme, sono un “noi”.
Se poi questo “noi” incriminato fosse anche una dichiarazione di appartenenza non ci sarebbe niente di male, peraltro, ma in Italia sembra sia possibile dichiarare di essere di Casapound, di voler sparare sugli immigrati, di abbattere con le ruspe i campi rom, ma non di aderire a un movimento di protesta.
Se proprio devo fare il professore, potrei dire che l’uso del “noi” implicherebbe un coinvolgimento che rischia di rendere un po’ meno “da lontano” lo sguardo dello studioso. Sarebbe comunque un appunto di tipo metodologico, non un’accusa, tantomeno una condanna. Roberta, insieme a Franca Maltese, anche lei dottoranda dell’Università della Calabria, però assolta, seguivano il corteo, osservavano e poi sottoponevano questionari ai partecipanti. Cosa dovrebbe fare un ricercatore? Leggere le cronache dei giornali? Di cosa dovrebbero occuparsi i giovani dottorandi che vogliono fare ricerca, per non essere puniti? Disinteressarsi della realtà sociale che segna il loro Paese o altri Paesi? Se c’è un dato positivo attribuibile all’antropologia è di fare uscire dall’Accademia i suoi adepti, di portarli sul terreno a conoscere le vite degli altri. Tradizionalmente, poi, gli antropologi si occupano di piccole comunità, gruppi minoritari, vanno a frugare in quelle che Claude Lévi-Strauss chiamava “le spazzature della storia”.
È normale, pertanto, che una giovane ricercatrice sia attirata da una comunità che rivendica un diritto di scelta sul proprio territorio. Sono moltissimi i ricercatori che hanno scelto la Val di Susa come terreno di ricerca in questi anni, proprio perché laboratorio emblematico di nuove relazioni. Cosa dovrebbero fare gli antropologi? Rimanere chiusi nelle università, ignorare il mondo fuori? Purtroppo questa è una tendenza fin troppo spiccata nelle nostre accademie. La ricerca nasce da passione e curiosità per ciò che è diverso. Passione e coinvolgimento che possono anche condurre a scrivere «noi», perché non si è mai soli nel fare qualcosa. Vogliamo colpevolizzare questa passione? O peggio, vogliamo che la ricerca si occupi solo di cose innocue e non fastidiose per chi sta al timone?
David Graeber, uno dei più interessanti antropologi dell’ultima generazione, celebrato anche da una copertina di Internazionale, è stato uno dei principali attivisti del movimento Occupy Wall Street, ha scritto un libro sul debito con posizioni radicali e manifesta apertamente le sue tendenze anarchiche. Nel 2005 l’Università di Yale, dove insegnava, non gli ha rinnovato il contratto, fatto che ha alimentato il sospetto di motivazioni politiche. Anche lui, probabilmente, è stato sanzionato per un «reato scientifico», ma con una differenza: nessun giudice è sognato di condannarlo per questo. Accadevano ai tempi di Galileo cose del genere e, fatte le ovvie debite proporzioni e rimanendo sul livello del principio, sono accadute in un paese dittatoriale come l’Egitto a Giulio Regeni, che da studioso cercava di indagare sui movimenti sindacali anti regime.
«Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera» non è uno slogan No Tav, ma l’articolo 10 della Costituzione italiana.
L’accusa, se non si traducesse in condanna (due mesi di reclusione), sarebbe ridicola, ma ciò che è ancora più inquietante è l’idea che si possa essere puniti per avere partecipato a una manifestazione in veste di osservatori e per di più studiosi. Seguendo questa linea dovrebbero essere condannati anche tutti i giornalisti che seguono le manifestazioni di protesta, per poi raccontarle. Se però la differenza sta tutta in quel “noi”…
Fonte: doppiozero.com
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.