di Attilio Pasetto
E’ ormai chiaro che, dopo la Grande Recessione, siamo entrati in una nuova fase dell’economia mondiale caratterizzata da tassi di crescita più bassi, rallentamento del commercio mondiale, ridimensionamento delle catene globali del valore, difficoltà negli accordi di liberalizzazione multilaterale degli scambi e aumento delle tendenze protezionistiche. E’ il ritorno a una fase simile a quella che precedette la crisi del 2008-2014, denominata anche come la Grande Moderazione, o ci troviamo di fronte a quella che Prometeia chiama la Grande Incertezza? Oppure ancora siamo finiti dentro l’incubo della cosiddetta “stagnazione secolare” (vedi il mio articolo su E&L)?
Osserviamo il fenomeno prendendo come riferimento l’andamento degli scambi internazionali. Il commercio mondiale, secondo le elaborazioni di Prometeia, è cresciuto a un tasso medio annuo dell’8,2% nel decennio 1991-2000, poi sceso al 5,9% negli anni pre-crisi 2001-2007 e diminuito della metà al 2,9% durante la crisi 2008-2014. Per il triennio 2015-2018 Prometeia prevede un ulteriore ridimensionamento al 2,6%. Altri previsori sono un po’ più ottimisti, ma la sostanza non cambia: da cinque anni Pil e commercio mondiali stanno crescendo allo stesso ritmo (basso), quindi con un’elasticità pari a uno, e almeno per il prossimo anno dovrebbe ancora essere così. Prima della crisi gli scambi internazionali crescevano a una velocità più che doppia rispetto al Pil, con un’elasticità pari a 2,3.
Ma da che cosa è dipesa la riduzione dell’elasticità del commercio mondiale al Pil? Una nota del Centro Studi Confindustria (Emergenti, Cina in testa, guidano la frenata del commercio mondiale di C. Pensa e M. Pignatti) ha calcolato che, rispetto alla media pre-crisi, nel periodo 2013-2015 la variazione dell’elasticità dell’import mondiale al Pil è stata pari a -1,3 punti percentuali. Lo stesso studio ha scomposto l’elasticità degli scambi mondiali al Pil in tre componenti: lo spostamento del baricentro delle importazioni mondiali dai paesi avanzati ai paesi emergenti; la diversa crescita del Pil nelle tre principali macroaree (avanzati, Cina e altri emergenti); la dinamica specifica dell’import in queste tre macroaree. Dall’analisi econometrica emerge che i primi due fattori, che sostanzialmente rappresentano l’effetto di ricomposizione del commercio e del Pil mondiali dovuto al maggior ruolo assunto dai paesi emergenti, spiegano relativamente poco (rispettivamente -0,27 e -0,25 punti di elasticità). L’elemento determinante è lo shock negativo avvenuto sulle importazioni non imputabile alla dinamica del Pil. Più in particolare questo shock negativo (-0,79 punti in totale) è dovuto quasi per la metà alle minori importazioni della Cina (-0,36), seguito dal minor import degli altri paesi emergenti (-0,29), mentre l’incidenza dei paesi avanzati è modesta (-0,14). Da notare che l’ampiezza dello shock è correlata inversamente al peso di ciascuna economia sulle importazioni mondiali: la Cina rappresenta infatti “solo” il 10,3% dell’import mondiale, gli altri paesi emergenti il 26,9% e i paesi avanzati ben il 62,8%.
Queste evidenze mostrano quanto sia impressionante la forza della Cina e la sua capacità di condizionare, nel bene e nel male, l’economia mondiale. E spiegano anche perché gli Stati Uniti abbiano voluto con forza il TTP (il mega accordo commerciale transpacifico) escludendo la Cina e vogliano rafforzare i legami con l’Europa attraverso il TTIP (il mega accordo commerciale transatlantico). Attenzione però! Perché, come rileva Romano Prodi in un articolo su “Il Messaggero”, la firma del TTP per ragioni elettorali appare più lontana (tutti e tre i candidati alla presidenza americana l’hanno criticato) e quella del TTIP è tutt’altro che scontata per la crescente opposizione che sta incontrando. Di qui il riemergere di tendenze neo-protezioniste in larghi strati dell’opinione pubblica internazionale. Anche il risultato del referendum su Brexit va in questa direzione.
Mentre soffia più forte il vento neo-protezionista, il processo di frammentazione delle catene globali del valore sembra aver raggiunto un limite “fisiologico”. La grande protagonista di questo fenomeno di de-globalizzazione è sempre la Cina, che sta drasticamente riducendo l’acquisto di beni intermedi e di beni d’investimento dal resto del mondo. Le importazioni dei primi, che rappresentano i due terzi dell’import cinese, sono scesi, secondo Confindustria, dal 17,6% del Pil nel 2004 al 13% nel 2011 e all’8,4% nel 2015, mentre quelle dei secondi, che costituiscono il 17% delle importazioni di Pechino, sono passate dal 5,5% del Pil nel 2004 al 3,1% nel 2011 e all’1,9% nel 2015. Molte delle importazioni di beni intermedi e di investimento vengono sostituite da produzioni interne cinesi. In tal modo le catene del valore si accorciano e si de-internazionalizzano, rallentando la dinamica del commercio mondiale.
Quale valutazione dare di questa svolta nell’economia mondiale? La maggior parte degli osservatori internazionali è preoccupata per le prospettive di bassa crescita: secondo Prometeia, nel periodo 2015-2018 il Pil mondiale dovrebbe crescere al 3% medio annuo contro il 4,2% del periodo pre-crisi 2001-2007, con gli Stati Uniti al 2% (contro il 2,4%), l’Ue-19 all’1,5% (contro il 2%), la Cina al 6,1% (contro il 10,8%).
In realtà, è giunto il momento di demitizzare il Moloch della crescita e di cogliere i segnali positivi che possono venire da uno sviluppo più lento ma qualitativamente migliore. Concentrandosi di più sul mercato interno, la Cina intende dare slancio ai consumi, che sono soltanto il 37% del Pil, rispetto agli investimenti e alle esportazioni, puntando sui servizi e su un modello di sviluppo più sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. Non può che essere una buona notizia per chi pensa che la crescita non sia un toccasana per tutti i problemi delle società contemporanee. Non lo è certo per la diseguaglianza, ma neanche per la disoccupazione, contrariamente a quello che comunemente si pensa. Da tempo la relazione fra crescita e occupazione è diventata incerta. In molti casi – pensiamo all’introduzione massiccia della digitalizzazione nei processi produttivi – addirittura negativa. Come ha scritto su E&L Nicola Cacace “il problema occupazionale, che è vitale per ogni paese, deve essere affrontato indipendentemente dalla crescita, che va promossa ma non enfatizzata.” La consapevolezza di essere entrati in una fase in cui, almeno in Europa, i tassi di crescita non andranno in media oltre l’1,5%, dovrà costringere i politici e gli economisti a trovare soluzioni pratiche al problema della disoccupazione a prescindere dalla crescita.
Fonte: Eguaglianza e Libertà
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