di Riccardo De Angelis
L’ultima trovata di un gruppo industriale sotto l’attacco dell’ennesimo speculatore finanziario in cordata col governo Renzi, è quella di risparmiare sulla liquidazione dei permessi individuali non fruiti dai dipendenti. Insomma l’ennesimo manager incapace di costruire una strategia industriale di reale rilancio del gruppo si arrabatta in soluzioni di misero cabotaggio. E’ un misero obiettivo quello che si è proposto di perseguire Telecom, di risparmiare sulla liquidazione dei permessi individuali, perché rispetto all’obiettivo di 1 miliardo di risparmio sui costi, la liquidazione di detti permessi non può arrivare a più di 10 milioni di €, ben poco soprattutto se oltre ai tagli non ci si muoverà in una concreta ottica di rilancio di investimenti e ricavi.
Se dell’incapacità manageriale intesa come mancanza di mandato o effettive capacità manageriali ci si potrebbe soffermare a lungo il tema che ci interessa affrontare è la risposta sindacale e la contrapposizione che stanno trovando queste sedicenti soluzioni da parte dei lavoratori.
Se dell’incapacità manageriale intesa come mancanza di mandato o effettive capacità manageriali ci si potrebbe soffermare a lungo il tema che ci interessa affrontare è la risposta sindacale e la contrapposizione che stanno trovando queste sedicenti soluzioni da parte dei lavoratori.
Premettiamo che in questi 21 anni di privatizzazione dell’ex monopolista delle telecomunicazioni, il totem della produttività è stato osannato in ogni accordo da parte aziendale e dalle OO.SS. Addirittura nel 2013 si introducono, nell’accordo che riscriverà di fatto il contratto sotto il rinnovo dell’applicazione del Contratto di Solidarietà per 32000 dipendenti, accorgimenti per aumentare di fatto l’orario di lavoro perché la Produttività Individuale deve necessariamente innalzarsi. Qui fu facile denunciare la contraddizione di una Governance Industriale che chiede di tenere a casa 32000 persone per diversi giorni al mese ma contestualmente si chiede alle stesse di lavorare di più. Al di là delle diverse posizioni sindacali tra chi avallò certe scelte e chi le contrastò a tutti era chiaro il paradosso.
In questo contesto aziendale se le ferie (anche se solo recentemente) erano diventate un terreno di tensione perché l’azienda pretendeva la fruizione entro l’anno e quindi seppure con una programmazione più o meno orientata era garantito il consumo annuale. Per quanto riguardava i permessi individuali fruibili a ore era prassi diffusa un consumo controllato in alcuni settori addirittura considerato un premio a chi era appunto più produttivo. Per questo il residuo di tali permessi era sempre abbastanza cospicuo e con la stagnazione dei salari, i rinnovi contrattuali irrisori, le crescite professionali bloccate di fatto, la liquidazione di questi ore di recupero orario e quindi psicofisico previste dalla legge (ex festività) e dalle conquiste contrattuali passate, divenivano una integrazione salariale sulla quale ormai si faceva affidamento.
Con queste premesse, la “negazione” di questo rimborso ha scatenato le proteste “informali” di tutti i dipendenti impattati da tale applicazione normativa. Tutte le OO.SS. si sono affrettate a licenziare comunicati di fuoco contro la richiesta di applicazione di una norma contrattuale condivisa dai firmatari e dall’Asstel. Richiamando alla libertà di fruire o meno di tali permessi e quindi decidere se farseli monetizzare o meno.
Da qui parte la riflessione: qual è il servizio che i sindacati stanno facendo avvalorando semplicemente i mal di pancia dei lavoratori?
In questi anni di santificazione della produttività, sempre ci si è scontrati nelle varie trattative sindacali proprio sulla fruibilità e sulla necessità di poter consumare ferie e permessi al fine di recuperare uno status psicofisico troppo spesso messo a dura prova da meccanismi di iper-sfruttamento in particolare per gli operatori del callcenter che in un'azienda come questa cubano ¼ dei 32000 di cui sopra. Le stesse norme di cui l’azienda si avvale oggi per risparmiare partite a bilancio , sono norme richieste a gran voce dal sindacato proprio nella consapevolezza che l’ostruzionismo alla fruizione di permessi era diventato una leva di comando anziché uno strumento di riduzione dell’orario di lavoro, vecchia e storica battaglia di qualche decennio fa.
Per questo motivo dovremmo come delegati, attivisti sindacali, lavoratori coscienti guardare in faccia la dura realtà è smetterla di rincorrere i lavoratori sussunti alla religione della produttività nella loro disponibilità all’ipersfruttamento, ma denunciare e indicare la questione cruciale per la quale lottare seriamente!
La “crisi” come amano chiamarla gli opiniomaker è oggi chiaramente una crisi salariale. Tutte le incapacità del sistema produttivo in cui viviamo, sia a livello macroeconomico che aziendale, ricadono solamente nell’attacco al salario per recuperare profitti sempre piu’ precari. Ridurre tutte le battaglie sindacali nel sistematico arretramento culturale oltre che a quello economico dettato dai rapporti di forza è la condanna alla sconfitta eterna. Bisogna dire schiettamente, se vogliamo uscire dal fango della sconfitta, che la liquidazione dei permessi era già un compromesso al ribasso, sancito dalla debolezza decennale di strappare maggiori aumenti salariali, ci si attestava sulla più semplice monetizzazione di strumenti utili alla conciliazione vita/lavoro, recupero psicofisico e quindi la nostra salute.
Accodarsi alla rassegnazione di coloro che invece di lottare per un salario dignitoso preferiscono rinunciare alla propria salute, e dichiararsi disponibili quindi a lavorare di più, non solo deprezzerà ulteriormente i salari ma costruirà la prima linea di difesa del capitale nelle prossime rivendicazioni. Indubbiamente anche in un’azienda che distribuisce ancora sostanziosi profitti agli azionisti, premi a pioggia ai dirigenti la compressione salariale è figlia di un’arroganza padronale concessa dall’immobilismo dei dipendenti e da una dirigenza sindacale che ha educato gli stessi alle necessità padronali. Ecco perché sarebbe bene provare ad uscire dalle logiche imposte e discutere di un nuovo o rinnovato approccio per le rivendicazioni sindacali. La fruizione di circa 50 ore di permessi annuali, equivalenti ad una settimana in meno di sfruttamento non dovrebbe avere necessità di imposizione ma dovrebbe essere spinta da una richiesta di insoddisfacente quantitativo che ne chieda il raddoppio. Parallelamente la crescente insoddisfazione del percepimento del salario avrebbe necessità di una rivendicazione sorretta da un serio conflitto per la conquista di quote sostanziali di questo.
Insomma il paradosso della produttività spinge alla riduzione dell’orario di lavoro e comprime i salari per recuperare la porzione di sfruttamento che si riduce, il compito per l’oggi e per il domani dovrebbe essere quello di prendersi l’oggettività a cui la sovrapproduzione tende e strappare la parte di salario che comunque ci spetta per i profitti prodotti in un tempo ridotto. In fondo il gioco della produttività è tutto qua. Sta a noi decidere se giocarci o arrendersi senza lottare.
Fonte: La Città futura
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