di Simone Pieranni
L’8 giugno scorso sul manifesto abbiamo pubblicato 8 pagine di uno speciale che aveva come tema proprio «l’Isis in Asia». Grazie alle nostre «antenne» in quelle aree del mondo sapevamo che alcuni paesi erano fortemente a rischio, mentre altri sembravano immuni per caratteristiche culturali e storiche. Altri ancora, come capitato nuovamente al Giappone (almeno sette i morti giapponesi nella strage di Dhaka), hanno «scoperto» il terrorismo islamista a causa delle vittime in attacchi fuori dal proprio paese. Il Bangladesh è certo uno di quei paesi nel quale – nonostante le autorità lo abbiano sempre negato – il jihadismo sembra aver attecchito da tempo. Purtroppo quanto accaduto all’Holey Artisan Bakery a Dhaka non è una vera sorpresa.
Le autorità locali hanno sempre minimizzato, eppure solo due settimane fa hanno proceduto all’arresto di 11mila persone sospettate di essere vicine a gruppi terroristici. Va però specificato un punto di partenza rilevante. Mentre in altre zone del mondo questo tipo di «radicalismo» ha successo per la disintegrazione delle unità statali e delle identità culturali a causa delle devastanti guerre occidentali, nel Bangladesh non è direttamente la guerra ma la violenza sociale, lo sfruttamento manifatturiero delle multinazionali, e le reiterate lotte politiche interne a creare un terreno di disperazione, tale da consentire perfino a formazioni criminali ammantate di islamismo di fare proseliti con sempre maggior successo.
Le autorità locali hanno sempre minimizzato, eppure solo due settimane fa hanno proceduto all’arresto di 11mila persone sospettate di essere vicine a gruppi terroristici. Va però specificato un punto di partenza rilevante. Mentre in altre zone del mondo questo tipo di «radicalismo» ha successo per la disintegrazione delle unità statali e delle identità culturali a causa delle devastanti guerre occidentali, nel Bangladesh non è direttamente la guerra ma la violenza sociale, lo sfruttamento manifatturiero delle multinazionali, e le reiterate lotte politiche interne a creare un terreno di disperazione, tale da consentire perfino a formazioni criminali ammantate di islamismo di fare proseliti con sempre maggior successo.
E il governo del paese, anziché favorire le attività dei sindacati e delle organizzazioni che lottano per i diritti civili, o di quei singoli o gruppi che si muoverebbero in quella direzione, nega il rischio e anzi colpisce con pugno duro le proteste che nascono da povertà e devastazione sociale, utilizzando i recenti attentati individuali per attaccare le opposizioni. In questo contesto sorgono diversi gruppi che si rifanno più o meno a Daesh o al Qaeda che nel Bangladesh si giocano una fetta importante del «mercato jihadista». Si tratta ad esempio di Jamaat ul Mujahidden Bangladesh o Ansarullah Bangla Team (considerato più vicino ai qaedisti). In Bangladesh il radicalismo vive dunque una situazione particolare, differente da altri contesti, perché nasce in ambito diverso.
Per questo è complicato leggere quanto accade: il terrorismo in Asia è differente da quello di altre zone del mondo e appiattire tutto in un unico blocco di analisi, senza distinguere origini e cause, non aiuta l’esatta comprensione del fenomeno. Un’ultima considerazione: definire, come ha fatto ieri Obama, «inevitabili conseguenze» le centinaia di morti «collaterali» dei raid effettuati con i suoi droni, aiuta davvero poco la condanna e il contrasto di questi efferati crimini.
Fonte: Il manifesto
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